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Recensioni | settembre 2015

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1aListening Sexy Music

Everything Everything – Get to Heaven (Art Pop, 2015) 7/10

Non troppe novità nell’ultimo lavoro targato E.E. ne limitano il giudizio positivo. Messo da parte questo aspetto, Get to Heaven è certamente la consacrazione di una delle più meritevoli band Indie Pop dell’ultimo decennio e probabilmente il disco più completo.

Titus Andronicus – The Most Lamentable Tragedy (Punk Rock Opera, 2015) 7/10

Un’imponente Rock Opera in salsa Punk dal sapore antico ma con la vitalità della giovinezza. Il punto di arrivo o probabilmente di rottura col passato o soltanto una parentesi che ha il sapore più appagante del resto del romanzo mai veramente troppo appagante della band del New Jersey.

Sleaford Mods – Key Markets (Post Punk, 2015) 7/10

Per la band di Nottingham è giunto il momento del disco della consacrazione, pur se inevitabilmente ad un pubblico di nicchia. Il loro Post Punk è esaltante e carico di tensione emotiva oltre che interessante sotto l’aspetto estetico grazie alla miscela accattivante di suoni e ritmiche care al Post Punk con lo Spoken Word e il Rap.

Kanseil – DoinEarde (Folk Metal, 2015 ) Voto 7/10

Undici tracce tirate e potenti, aperte da una voce narrante ammaliante che catapulta tra leggende, canti e versi di altre epoche. La chiave è un Folk Metal fresco e genuino (a volte troppo) in cui la band si muove agevolmente, restituendo un sound netto e pulito. A parte qualche piccolo errore naturale per un debutto risultano buona la produzione, buono il sound e buone le idee: buona la prima.

Haiku Salut – Etch & Etch Deep (Glitch Ambient, Art Pop 2015) 6,5/10

Un mix minimale di Glitch Pop, Ambient qualche sonorità Folk ad arricchire tutto e ritmiche da Drum’n Bass. Un mix minimale ma che riesce a rapire già dai primi ascolti proprio per la sua apparente semplicità che nasconde una personalità fuori dal comune.

Howling – Sacred Ground (Ambient, Techno 2015) 6,5/10

Il cantautore australiano Ry Cuming e Frank Wiedemann confezionano un album d’esordio che unisce la Techno di quest’ultimo alle atmosfere più eteree dell’Ambient. Un album che coinvolge gli animi ben predisposti ad un certo tipo di sound minimale ma che rischia di annoiare il resto del pubblico.

Years & Years – Communion (Dance, Electropop 2015) 5,5/10

Da Londra siamo abituati a ricevere sorprese eccezionali per quanto riguarda la musica Synth Pop ma questa volta non ci ritroviamo nient’altro che l’album d’esordio di un trio abbastanza furbo da miscelare le cose più invitanti di House, Pop e Dance tutto in chiave R&B, tanto per tenersi sul pezzo. Un disco pregno di canzoni gradevoli ma questo è tutto.

Midas Fall – The Menagerie Inside (Post Progressive, 2015) 5,5/10

Per la band di Edimburgo capitanata da Elizabeth Heathon un minuscolo passo avanti rispetto alle due opere precedenti ma la conferma di un progetto che ha veramente poco da dire. Una miscela snervante di generi che ruota intorno alla voce femminile, mediocre e dalla timbrica tutt’altro che fuori dal comune.

Tess – Soul Whisperer   (Songwriter, 2015) 5/10

La statunitense trapiantata a Roma propone un disco di cantautorato classico e minimale con arrangiamenti banali, una voce senza lode e senza infamia e brani che nel complesso annoiano al primo colpo. Si salva dal disastro per qualche bella melodia ma questo è tutto.

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Showstar – Showstar

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Il quarto album omonimo (che ipotizzo possa essere presto rinominato Sorry no Image Available, causa copertina, come accaduto per il self titled dei Kyuss) traccia il vero punto di non ritorno per la band belga, ormai attiva dal 1996 e che mai è riuscita davvero a persuadere il pubblico, a partire dall’esordio We Are Ready del 2003. Un transito tanto importante per Chris Danthinne (voce e chitarra), David Diederen (chitarre), Antoni Severino (basso e voci) e Didier Dauvrin (batteria) quanto in linea con le produzioni precedenti e che continua a perseguire la strada disegnata dal Jangle Pop degli Smiths seppure con un’attitudine Indie moderna e fresca, in contrapposizione alle liriche talvolta crude, disincantate e non troppo raggianti (“lavora, lavora, lavora fino alla morte”). In tal senso, non si potrà certo confutare una discreta crescita compositiva nell’ultimo lavoro targato Showstar, una maturità che ha reso le dodici tracce vagamente encomiabili e credibili pur se gonfie di innumerevoli similitudini e rimandi.

Shoegaze il più pulito possibile, veloce e danzereccio (“Adults”, “Casual”) si miscela al già citato Jangle Pop di morriseyana memoria (“Nightbird”), di tanto in tanto squarciato da falsetti che vanno dai Beach Boys ai più vicini Everything Everything (“Casual”). Chitarre taglienti scuola Parts & Labor (“Mistakes on Fire”, “Rumbling”), ritmiche cadenzate (“Rumblings”) e un sound che, inevitabilmente, tanto deve ai mitici Stone Roses (“Mistakes on Fire”, “Rumblings”, “The Trouble Is”, “Full Time Hobby”, “(I Wish I Was) Awake”) al quale si aggiungono brani dalle melodie più dirette e insistenti (“The Liar”) e altri lampi più intimi (“Follow me Follow”) che sanno trasformarsi in vere bombe soniche (“Happy Endings”).

Non aggiunge molto al suono degli Showstar la voce di Angela Won-Yin Mak che si affianca a Chris Dantinne in “Smile. No”. Showstar è disco della maturità, lo era fin dalle premesse ed in parte lo conferma l’ascolto, eppure non può essere considerato un vertice dentro una discografia tanto piatta. A tratti banale, ripetitivo, ridondante, anche troppo gelatinoso nella sostanza, è l’ennesimo buco nell’acqua di una band alla quale non è il caso di chiedere di più.

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