Elevators to the Grateful Sky Tag Archive

AltrocheSanRemo Volume 8. Che Dio ci perdoni!

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AltrocheSanRemo giunge finalmente alla sua ottava edizione, per l’occasione dedicata al mitico Ronnie James Dio, scomparso esattamente oggi 16 Maggio, di quattro anni fa. Il livello qualitativo medio diventa sempre più considerevole. Come ormai saprete, AltrocheSanRemo è un mini contest con il quale mettiamo in palio un pacchetto promozionale che prevede Recensione (sempre onesta) + Intervista + Banner ed eventuali indicazioni come Band della Settimana (se mai inseriti prima) + Video della Settimana oltre ad almeno 1 News. A vincere sarà la band che raccoglierà il maggior numero di voti nel sondaggio posto in alto a destra nella nostra homepage alla data del 16 Giugno prossimo ore 23:00. Possono votare tutti, anche con scelta multipla, e 1 volta per ogni nuova connessione. Ovviamente non fate i furbi perchè ce ne accorgeremmo (ci riserviamo il diritto di squalificare le band scorrette senza necessità di spiegazioni) ma soprattutto siate corretti perchè questo, più che un contest, vuole essere una vetrina per far ascoltare la vostra musica a chi non vi conosce. Detto questo, in bocca al lupo e che Dio ci Perdoni!

Di seguito le band in gara e i loro brani:

Colpi Repentini – Butta Giù Pop Rock sgangherato tra Buscaglione, Tom Waits e Bregovic, in lingua italiana

Dem – Na Vita a Obb’c Trio Rockblues dal capoluogo abruzzese, all’insegna della riscoperta del Blues e le sue radici attraverso le influenze multietniche

Elevators to the Grateful Sky – Sirocco Stoner in lingua inglese da Palermo

Frankie Motel – Ain’t No Sunshine Francesco Incani in solo, dall’Abruzzo, in un trascinante mix di Folk Rock e Rock’n Roll

La Nevrosi – La Tua Canzone Da Napoli, Pop Rock classico in italiano

Laika Vendetta – Milano Roma Alt Rock da Alba Adriatica che unisce poesia, rabbia e teatralità

Le Choix – Io Resto Qui Da Vasto un Pop Rock in italiano intenso e ricco di fascino

The Monkey Weather – Let’s Stay Up Tonight Tra i più esperti del gruppo e quelli col sound più internazionale

The Anthony’s Vinyls – Running Man La band più Brit e Indie del contest arriva da Valmontone

Le Chiavi del Faro – L’unica Cosa che ti Chiedo di Capire Free Funk da Gubbio

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Elevators to the Grateful Sky – Cloud Eye

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Primo full length per i siciliani Elevators to the Grateful Sky, dall’artwork splendido e assai azzeccato: Cloud Eye è infatti un piacevole e duro album di Stoner veloce che si miscela alla passione per la Psichedelia anni 70 (come d’altronde faceva in parte anche l’originale scena del Palm Desert ad inizio 90). Gli ETTGS hanno studiato bene la storia, e il loro tornare sulla scena del delitto è competente e preciso, con qualche aggiunta ben ponderata che sposta il baricentro (e meno male, a più di vent’anni di distanza fare la stessa, identica cosa non avrebbe nessun senso). Abbiamo quindi l’intro di armonica di “Ridernaut”, le chitarre Grunge e brillanti di “Turn in My Head”, o i fiati di “Red Mud”, che ci teletrasportano via dal deserto, verso un finale Soul/Blues sui generis che spiazza e soddisfa. Abbiamo le spruzzate Garage di “Handful of Sands”, inframmezzate da succulenti e grassissimi riff di chitarra fuzz, il mezzo Reggae dell’intro di “Upside Up” che in pochi secondi si trasforma in Punk californiano, poi si rallenta verso voci più pulite in “The Moon Digger”, dal sapore Led Zeppelin, un sapore che rimane in bocca anche dopo i pochi secondi dell’autocitazione di “Xandergroove”. Si finisce tra gli spazi di finto Reggae della title track, che una volta partita poi non torna più indietro, e ci si spiaggia sulla sabbia desertica nella definitiva “Stonewall”, lenta e vibrante, come da scuola Kyuss.

Un disco da ascoltare per tutti gli amanti del genere: Cloud Eye rielabora e prosegue il discorso del Desert Rock con competenza e gusto, senza aggiungere troppo ma funzionando alla perfezione, ottimo discepolo di una scuola che, ne sono certo, ci regalerà ancora numerose cavalcate tra le sabbie torride di ritmiche ipnotiche e distorsioni profonde.

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Furious Georgie – You Know It

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E’ difficile catalogare il progetto solista di Giorgio Trombino, musicista palermitano che si propone in veste solista sebbene sia già conosciuto per militare in numerosissimi gruppi underground siculi. Il ragazzo spazia molto e lo racconta già la sua biografia. Tra le sue “corde” c’è il Death Metal degli Haemophagus, lo Stoner dei Sergeant Hamster e degli Elevators to the Grateful Sky, fino ai suonatori di colonne sonore Funky-Jazz: The Smuggler Brothers. Un bel minestrone mi verrebbe da dire, ma più che altro nulla a che vedere con questo suo primo album.
Giorgio parte in quarta con il blusaccio di “Giggrind”, voce graffiante, armonica impazzita,  battiti di mani e chitarra acustica sparata a macinare groove. Muddy Waters con un tocco di bianco, sembra quasi che Palermo abbia il suo Jack White. Con “Screaming Parrot” le sonorità si placano e George Harrison benedice uno dei brani tra i più riusciti del progetto, spostando improvvisamente la rotta da una simpatica cavalcata verso gli inferi ad una onirica traversata di nuvole e arcobaleni. Il Blues torna un po’ più ammorbidito con “Day of the Dead” e “Lost and Found”, arrivano anche echi a giovani e vecchi cantautori americani con le loro infinite praterie ed il vento tra i capelli (due nomi? Ryan Adams e Neil Young su tutti). C’è anche spazio per un brano in italiano dalle vedute Progressive, che da ancora più colore al suono. Il pennello però rischia di uscire dalla tela, imbrattando tutto ciò che sta intorno. Le idee di “NGC 6543” sono comunque ottime con echi alla Ziggy Sturdust riuscitissimi, peccato che la canzone sia veramente fuori dal seminato. Sicuramente un pezzo spiazzante e non consono alle sonorità del disco, messo a metà scaletta e di durata nettamente superiore rispetto al resto. Scelta coraggiosa, ma priva di gran senso logico.
Le distanze sono dilatatissime nella cantilena di “Years Gone by” e nella struggente ninna nanna di “Watch the Drift as it Goes”, Furious Georgie dimostra che la musica del diavolo è nelle sua anima e la scarna produzione aiuta semplici canzoni come queste ad elevarsi nell’atmosfera. Nel finale del disco c’è spazio per altre sfumature: la divertente e spensierata “Kiwi Roll”, la furente (sebbene acustica) “Armed Peace” e per concludere la ballata “Young Lard” che strizza l’occhio alle lunghe cavalcate di Jagger e Richards.
Questo è un disco che non annoia. Eterogeneo, variopinto e estroverso. Geogie non ha di certo paura ad esporre la sua immensa e rara creatività, aiutato da una versatilità che è dimostrata non solo da questo album, ma già anche dalle miriadi di diverse collaborazioni a cui partecipa. Il palermitano esprime bene il Blues, gli ampi spazi di un Cantautorato distante, le note lunghe del Progressive e gli episodi più svarionanti del Rock inglese anni 60. Qui però la sensazione è che le grandi idee (che è inutile nasconderlo, ci sono!) siano offuscate dalla foga di mettere troppa carne al fuoco. Peccato perché con qualche pezzo in meno e con qualche melodia in più questo sarebbe stato davvero un disco grandioso. Sperando in meno impulso e più riflessioni, aspetto con ansia il secondo episodio.

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