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Chelidon Frame – Framework

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L’esperienza Chelidon Frame nasce nell’autunno dello scorso anno ma muove i suoi passi e affonda le radici molto più in là negli anni, negli albori della Musica Concreta e negli studi di Pierre Schaffer che, nel 1948, teorizzò una nuova consapevolezza sonica basata su effetti acustici esistenti successivamente elaborati, generando musica tendenzialmente elettronica ma partorita da elementi concreti.

Riprendendo in mano quest’idea e passando attraverso Pierre Henry e John Cage, Chelidon Frame confeziona un’opera che miscela l’Ambient dei Prospettiva Nevskij, al minimalismo di Alessio Premoli, nome che si nasconde dietro al progetto. Tutto questo con occhio rivolto al futuro, grazie ad un uso comunque mai eccessivo di droni e divagazioni Noise. Nelle cinque tracce più “Intro” dell’esordio Framework, ci sono le fondamenta della musica Elettronica, la storia stessa del suo autore, le opere più eteree di Brian Eno, la spigolosità di Kevin Drumm e la sensibilità Modern Classical di matrice nordica di Jòhann Jòhannsson, cosa suggerita già dalla lettura celere dei titoli di taluni brani (“JikSven”, “Antartica”).

Dopo la gelida opening che sferza l’atmosfera come freddo polare, sale un’inquietudine oscura, fatta di grevi note ripetitive come tempo scandito da ritmiche minimal e sottilmente celate dietro rumori vaghi, quasi a disegnare l’aurora boreale, tinta solo di tutte le tonalità del grigio (“Taikonauta”). Ancor più conturbanti e impalpabili i quasi otto minuti di “JikSven”, nei quali si scorge una debole sensibilità Rock dentro un cosmo elettronico, in grado di dare forza da Film Score all’album. Nonostante queste prime intuizioni, non esiste un vero filo conduttore, una precisa chiave di lettura che leghi la tracklist, trattandosi di un insieme di brani originali e altri già pubblicati e qui soltanto remixati. È la musica stessa a fare da trait d’union, il legame simbiotico tra le terre più fredde del pianeta e lo spazio siderale è la musica (“Cosmic Hypnosis”). In “Nvs_k3” l’ aria torna pulsante di rigida introspezione mentre a chiudere l’album, i quasi dodici minuti della minimale “Antartica”, la quale, nella seconda parte e in conclusione, regala cenni di Neo Classical gonfi d’una speranza e positività mai ascoltata nei minuti antecedenti, pur mantenendo ferma una certa ambiguità emotiva. Framework è uno straordinario lavoro di un musicista poliedrico e coraggioso che non mira certo all’originalità ma riesce comunque a pizzicare le corde dell’anima e farci sognare, fosse anche un sogno da cui svegliarsi in tutta fretta.

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Anthony Cedric Vuagniaux – Le Clan des Guimauves

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Il multistrumentista, musicista e compositore svizzero (Ginevra) Cedric Vuagniaux, alla soglia dei trentotto anni confeziona la sua opera più matura sempre nel pieno rispetto di una passione innata per la strumentazione vintage elettronica ed etnica che l’ha portato già all’età di sei anni a realizzare le prime registrazioni. Le Clan des Guimauves è opera dal sound sperimentale e profondamente tradizionale al tempo stesso che ha il sapore d’un pomeriggio assolato d’aprile trascorso in un Café di Ginevra a prendere in giro i passanti. Nella sostanza, è la colonna sonora ideale d’una grottesca pellicola di fine anni sessanta che narra, musicalmente, le avventure di una gang di gitani extraterrestri smarriti sul pianeta terra, le cui particolarità fisiche sono l’avere un grande naso e sette dita nel piede sinistro (vedi cover) e la cui riunione avrà lo scopo di cercare un senso onorabile alla libertà.

Alla sua nona uscita (singoli inclusi) da Souvenirs Elettroniques, esordio del 2011, Vuagniax mira a obiettivi più ambiziosi per sé e per la sua etichetta Plombage Records eppure Le Clan des Guimauves riuscirà ben poco a stupirvi e appassionarvi, vuoi per un utilizzo poco coraggioso della materia prima elettronica, vuoi per le abbozzate e poco incisive incursioni delle più svariate strumentazioni tradizionali e folkloristiche.

Alla fine, sarà dura immergervi in quella surreale storia di alieni che dovrebbe essere il cuore del disco nonostante l’uso sporadico d’un esplicativo Spoken Word in francese e se quello di raccontare una storia, rendervi parte della stessa, era l’obiettivo primario come suppongo, dispiace dirlo ma questo non è affatto un centro pieno.

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The Use – What’s the Use?

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Si può prendere la complessa lezione IDM (Intelligent Dance Music), per definizione distante dal grande pubblico, dalle masse e spingerla a un livello tale che possa essere compresa anche da chi cerca nell’Electronic Music trame quanto più possibili semplici e immediate? Prova a rispondere a questo interrogativo Michael Durek, il nucleo della formazione di Jersey City nominata molto semplicemente The Use e la sentenza non sarà per niente così scontata. Come accennato, nella costruzione delle aggrovigliate e mutevoli armonie elettroniche, il punto di partenza è da ricercarsi nelle tortuosità e nelle ostentazioni ritmiche dell’IDM di Aphex Twin, Boards of Canada e Autechre eppure la musica di The Use, pare andare ad affondare le proprie radici ancor più lontano, nella musica classica di Bach e Chopin, i veri maestri del talentuoso Michael Durek e coloro che ne hanno forgiato i tratti distintivi. Da questi elementi, attraverso una serie di esibizioni live, si è sviluppato con naturalezza il suono che poi andrà a formare questo What’s the Use?, carico di rumore e totalmente, o quasi, privo di precise tempistiche e struttura, in chiave perfettamente Glitch Hop, come suggerisce anche la biografia che lo vede al lavoro su opere di Dre, Cypress Hill ed Eminem. A tutto questo, aggiunge un tocco Wonky in stile Flyng Lotus ed ecco pronto un debutto degno di ogni attenzione. Ciò che farà da ponte tra il primo Durek e quello odierno, sarà l’esperienza, soprattutto live, con i Pas Musique.

Fatta questa doverosa premessa, resta da buttare giù delle considerazioni sul disco e rispondere alla domanda iniziale. Di certo The Use riesce a semplificare materia multiforme con destrezza e prova ne sono l’opening “Hello Everybody” così come diversi brani successivi (“Aunt Joanne’s Metaphysics”, “Slim’s Pursuit”, “Ripe”), spesso sfruttando suoni particolarmente vintage e accattivanti (“Where Ya Been feat. Trinitron”, “Dying Breed”). C’è tuttavia da ammettere che i cambi di ritmo, le spregiudicatezze Noise, le volute e ricercate imperfezioni (“Time Burton”, Bird Song feat. Rachel Mason”) rendono particolarmente arduo un ascolto trascinante, quasi danzereccio e comunque agevole sulla lunga distanza. Ciò che riesce a The Use è produrre transitori ed effimeri varchi tra due mondi più lontani di quanto si possa immaginare, attraverso vibrazioni e ritmiche attraenti ed esaltanti dentro contesti di natura antitetica.

Ricordate la domanda iniziale? Si può prendere la complessa lezione IDM e spingerla a un livello tale che possa essere compresa anche da chi cerca nell’Electronic Music trame quanto più possibili semplici e immediate? Per ora la risposta è un secco no (si prendano le ultime due tracce, “And God Created Great Cephalopods” e Halo Alchemy” come esempio in tal senso) con un “ma” enorme però. Quello che si può fare, ciò che The Use nella persona di Michael Durek ha fatto in questo What’s the Use? è un tendere la mano, accompagnare un ascolto arduo attraverso l’uso di elementi e sonorità più semplici, gradevoli al primo ascolto, un modo per avvicinare e spingere a provare anche i più scettici, evitando di creare muri tra ascoltatore e artista. Questo è il grande merito di What’s the Use? che, per contro, difetta per brani veramente memorabili e suoni fuori dal comune. Un disco ordinario, con un intento straordinario e centrato solo a metà.

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Quadrupède – T O G O Ban

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La creatura di Le Mans è uno strano quadrupede, un duo eccezionalmente versatile capace di ostentare i suoi due volti, strutturalmente simili, ma completamente dissimili nella colorazione, come suggerisce la variopinta cover a doppia facciata (opera dell’artista Akatre) nella quale due teste antropiche sono completamente sommerse da flussi di vernice dalle tonalità difformi. Due anime che si avviluppano e moltiplicano in quest’opera attraverso le aperture dell’Electronic sperimentale e del Math Rock. I Quadrupède, giovane formazione in attività da circa tre anni, espandono questo poderoso processo creativo amalgamando arrangiamenti elettronici e classica strumentazione Rock, fatta di batteria e chitarre, collaudando le proprie capacità al fianco di grandi artisti come LITE, Papier Tigre, Woodkid, Adebisi Shank e Lost in the Riots e pubblicando dunque T O G O Ban, esordio dalle rosee speranze. Il lavoro è stato mixato da Matt Calvert (Three Trapped Tigers), masterizzato nella capitale britannica da Peter Beckmann (Sun Ra, The Magic Lantern) e pubblicato dall’etichetta belga Black Basset Records.

Sette brani che non raggiungono la mezz’ora ma che riescono comunque a trascinare, almeno parzialmente, e travolgerci in un ascolto vorticoso e intenso. L’intro celestiale stile Mùm contornato da voci angeliche e monotone presto si fonde con una possente Drum’n Bass (“Beam Pool Mom”) che a sua volta si rivela stilisticamente cangiante e pronta subito a palesare le diverse sfaccettature dell’opera che seguirà. Gli indizi Glith Pop e Noise della parte introduttiva si fanno presto prove (“Via Là”) mentre con “Rhododendron” emerge la vicinanza del duo dei Paesi Bassi con la musica dei cugini Don Caballero, anzi, ancor più con i newyorkesi Battles, in questa parte più che una semplice ispirazione nella combinazione di ritmiche precise e ripetitive e inserti elettronici. Quasi completamente assente l’aspetto lirico e vocale (sospiri e cori perlopiù) mentre più forte, rispetto ai già citati autori del piccolo capolavoro Mirrored, è il fattore Rock duro e crudo che tuttavia si manifesta solo parzialmente nei vari brani con brevi sfuriate che permettono al disco di suonare più carico di quanto non sia effettivamente nella sua totalità; interessanti anche i passaggi Electro/Prog Pop (“ASTRØ”) mentre annoia un po’ la deriva Electro Ambient/Ethereal nella parte finale (“Adulhood”) risollevata dal brusco crescendo potente caratteristico di molti di questi brani. Introduzione compresa, sono ben tre gli intermezzi anche se “Oblong Opale” può piuttosto definirsi come il momento più sperimentale e inquietante dell’album, invece che semplice momento di stacco tra prima e seconda parte.

T O G O Ban è un esordio degno di nota, che colpisce al primo ascolto, anche per la curiosità nei confronti di un certo tipo di Math Rock misto a Elettronica che non troppo spesso (vedi Battles) abbiamo avuto il piacere di ascoltare realizzato con efficacia. Un lavoro riuscito quando più definito e complesso come nel caso di “Rhododendron” ma che finisce per annoiare e suonare indigente quando si dilunga in ridondanze Electro prive di carattere. Complice la brevità, non regge ad ascolti ripetuti ma può essere certo la base per qualcosa di ancor più valido magari in un futuro prossimo.

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Tree60 – Night Tunes Collection

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Sotto il nome di Tree60 si nasconde in realtà Stefano D’Incecco, dj e beatmaker pescarese emigrato nella splendente Barcellona. Nonostante il titolo ci possa trarrein inganno, Night Tunes Collection non è in alcun modo riconducibile a una raccolta o a un Greatest Hits. Questo disco è un insieme di progetti irrealizzati, bozze completate nelle insonni notti spagnole di Stefano. Sono accenni creati tra il 2003 e il 2013, quando insieme all’amico fidato Fabrizio Tropeano portavano avanti il duo MUI, che svariava concretamente tra musica etnica ed elettronica. Ricapitolando, questo disco è il frutto di una scrupolosa scrematura ad opera dell’artista, che ha deciso di lavorare e portare a compimento dieci beat, con l’accorata collaborazione di diversi musicisti venuti a contatto con il talento di Tree60.

Le sperimentazioni Ambient di “6Rhodes”, con quei suoni liquefatti, mi risultano ostiche, sconclusionate. Idem per la successiva “Urbass”, dove regna ancora un costante piattume di fondo. “Tance” potrebbe segnalare la svolta con l’introduzione d’interessanti percussioni, ma dopo un po’ lo schema si ripetee ci si omologa alle tracce precedenti. La fusione tra Jazz e Dub di “Lazy Saturday Afternoon” è già più godibile, ma è pur sempre un episodio isolato, come scoprirò continuando l’ascolto. Neanche più la novità rappresentata dai ritmi latini di “Mevo Latin” mi cattura, non riesco ad auto-coinvolgermi. Persino la voce di Antonio Vitale (a.k.a. Jester at Work), solitamente avvolgente e disciplinata, mi appare fredda e distante. E così anche “Desert Fashion” viene accantonata in compagnia delle altre canzoni. Non mi resta, quindi, che la curiosità di chi ha cominciato la visione di un film non nelle sue corde e ormai, per inerzia, vuole andare fino in fondo per vederne il finale. Un film che sinceramente mi sarei volentieri risparmiato.

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Deison & Mingle – Everything Collapse[d]

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I, I’ve been lonely
And I, I’ve been blind
And I,. I’ve learned nothing
(M. Gira)

Sono due o forse tre o più settimane che non riesco a sfilare dallo stereo questo disco del duo Cristiano Deison (electroning e processing), Andrea Gastaldello (piano, electronics) e non è precisamente perché di una qualità oltre la norma. Il dubbio è che faccio una fatica pazzesca a capire quanto mi piaccia davvero Everything Collapse[d] e quanto, invece, non lo faccia correre via nelle mie giornate con apatia, quasi senza forze, consapevole che potrà accompagnarmi fino alle ore del sonno senza tediare troppo la mia vita.  La prima notizia positiva, però, è che, a dispetto di uno stile non proprio tradizionale tra i nostri confini, Deison & Mingle è prodotto tutto italiano e lo avrete capito dai nomi di battesimo delle due anime che stanno dietro al progetto nato nel nord-est solo nella scorsa estate. Da un lato un navigato del settore sperimentale, Ambient ed Electronic Minimal, Deison, che già si è ritrovato negli anni a collaborare con mostri quali Lasse Marhaug, KK Null, Teho Teardo, Thurston Moore, Scanner. Dall’altro Mingle, alias Andrea Gastaldello, eccelso compositore minimale già al lavoro su svariati documentari. Non passa molto dalla collisione tra queste due inclinazioni e la nascita di Everything Collapse[d], album che trova la sua energia, il suo asse portante, la sua ragion d’essere nell’analisi psicotica dell’inquietudine e della disperazione umana, senza per questo non palesare momenti di speranza (“Optokinetic Reflex (Glassy Eyes)”) difficile da comprendere quanto illusoria e quanto reale.

Otto tracce che si plasmano e collassano, si amalgamano e si mettono in mostra attraverso droni disturbanti, field recordings, processed loops, ritmiche amorfe, armonie eclissate, soffuse e dilanianti, tutto appesantito da note di piano tormentose. Quarta opera di una collana che vede collaborare l’etichetta Aagoo Records con i Rev Laboratoires e che, in precedenza ha visto l’uscita delle sperimentazioni di Marcus Fjellstrom, Murcof & Philippe Petit e Connec_icut, già trattate sulle nostre pagine dal qui presente. L’opera è inquietante ma non troppo greve, multiforme ma con momenti di sana distensione e a lungo, come accennato all’inizio, mi sono dibattuto inseguendo una chiave di lettura più pertinente, che andasse oltre i concetti palesi e i suggerimenti di un titolo, Everything Collapse[d], tanto esplicito e categorico. Sul finire dell’album, troviamo “Static Inertia”, che, in un’ottica di speranza nella disgrazia si ricollega all’opening track, ma quest’ultimo pezzo non si chiude etereo ed estatico al minuto cinque e venti secondi. Fino a questo momento non c’è stato spazio per la voce, tutto era elettronica fredda. A stringere realmente il cerchio c’è una ghost track cantata da Daniele Santagiuliana (ottima la sua interpretazione). Si tratta di “Failure”, brano degli immensi Swans. Scelta scaltra, vista la nuova rinascita della band capitanata dal gigante Michael Gira ma anche perfetta per incasinare idee e sensazioni, alla fine dell’ascolto. “Some people live in hell, many bastards succeed. But I. I’ve learned nothing. I can’t even elegantly bleed out the poison blood of failure”.

E intanto continua a girare il disco nel lettore e non ho alcuna voglia di toglierlo e forse inizio a comprendere che Deison & Mingle hanno colto perfettamente nel segno, pungolando la parte più oscura e disturbata della mia anima. Mi hanno fregato, con furbizia e malizia ma ora non ho le forze per reagire, ho solo voglia di farmi fottere ancora.

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Connect-icut – Crows & Kittiwakes & Come Again

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L’uomo che si annida dietro lo pseudonimo Connect-icut altri non è che un produttore di musica elettronica di Vancouver, non nuovo ai cultori del genere più attenti alle uscite del sottobosco underground e poco devoti alle facilonerie del mainstream. L’artista canadese è una new entry in casa Rev Laboratories ma non è in ogni caso un esordiente, avendo già pubblicato, per vie diverse, Moss del 2005, poi LA (An Apology), They Showed Me the Secret Beaches e Fourier’s Algorithm, quest’ultimo tre anni fa. Se, come abbozzato, non è certo il pubblico ad aver sancito il successo di Connect-icut, non sono mancate lodi da parte del mondo Alternative, su tutte quelle di Thurston Moore dei Sonic Youth.

Cosa c’entra un produttore/compositore di musica elettronica con le guide spirituali del Noise Rock è presto detto. Se il punto di partenza e lo scheletro che poi sostengono tutto l’impianto sonico di Crows & Kittiwakes & Come Again è il Glitch, a metà tra Fennesz, Murcof e soprattutto Oval (“Imperial Alabaster”, “Port Shale”), queste deformità tecniche del suono sono talvolta esasperate in chiave rumoristica, quasi Noise appunto, ma con una naturalezza irreale, del tipo che, nel corso degli anni, abbiamo apprezzato ad esempio nello Shoegaze, specie strumentale, dei My Bloody Valentine (“Fading Twice”). Una mistura di brividi elettrici, rumore, vibrazioni, martellamenti, esplosioni soffuse che invece di plasmare suggestioni industriali e apocalittiche concepiscono un flusso naturale, suonando con la stessa genuinità dell’esistenza. Rumore ed elettricità che divengono sinonimo di paradisiache atmosfere eteree.

Certamente non scarseggiano passaggi di Minimal Synth e Ambient (“Carrion Pecking”) densi di tenebre, foschi, inquietanti, che tuttavia non fanno altro che dare ancor più vitalità all’opera, come fossero il fianco oscuro dell’esistenza, orribile ma inevitabile, e, allo stesso modo, Connect-icut utilizza gli strumenti della Drone Music (“Pratice Rot”) per squarciare l’impianto emozionale tirato su dall’ascolto della prima parte del disco. Tutti gli ingredienti sottolineati non devono tuttavia essere intesi come spaccature nette tra i brani, in quanto ogni materia che da forma alle canzoni è presente in ognuna di esse anche se in modo diverso, con difforme intensità. Ciascuno dei sei brani, compreso il conclusivo minimale “Again Now (For Matt)”, esalta l’impianto Glitch, le atmosfere Ambient e le pulsioni Noise, evocando apparati scenici irreali ed estatici su orizzonti neri e da incubo. Non c’è mai, in nessun momento di Crows & Kittiwakes & Come Again una precisa linea di demarcazione tra quello che è il bene, evocato dalle note più solerti, e quello che è il male ma tutto si confonde, si miscela, ora smascherandosi ora celandosi in una sonora ed estatica trasposizione occidentale dello yin e yang.

Un album inappuntabile per chi volesse immergersi totalmente nel fluire della propria coscienza, per chi cerca strumenti leciti e sani per valicare le barriere dei sensi. Un album ineguagliabile per chi volesse cimentarsi a dovere con un’elettronica da ascolto di spessore, ma non è mai riuscito ad andare in fondo ad un lavoro del precettore Oval o si annoia dopo cinque minuti di droni ronzanti nella testa. Un disco perfetto per iniziare ad ascoltare musica elettronica di qualità senza il timore di dover abbandonare per manifesta incapacità di ascolto.

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Sorrow – Dreamstone

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Dopo una serie di Ep, remix e interessanti collaborazioni con artisti quali Stumbleine, Asa e Submerse, finalmente il Dj e produttore britannico Sorrow presenta il suo primo full lenght, intitolato molto suggestivamente Dreamstone. Una miscela innovativa anche se non stravolgente di Dubstep, Garage, Elettronica e Ambient che mira dritta alla parte più emozionale dell’ascoltatore.

Ritmiche grevi tipiche del Dubstep si stagliano su echi vocali femminili e seducenti e su note leggere ed eteree che in alcuni momenti (“Supernova”, Maelys”) azzardano rielaborazioni di Bossa Nova. Abituato alle collaborazioni, queste non mancano neanche in Dreamstone. In particolare nella title track e in “Dalliance” si evidenzia la presenza di CoMa che riesce ad aumentare la forza delle atmosfere Ambient della musica di Sorrow mentre è la brezza Chill Out a dare all’opera un’aura di completezza, omogeneità e dinamicità.

Tutti gli undici brani per i cinquanta minuti dell’album vivono di un’alternanza naturale tra oscurità ora più dinamiche (“Gallows Hill”, “Flowerchild”) ora più lente (“Dreamstone”) e lucente speranza e ariosità (“Moodswing”) ma senza mai presentare spaccature nette. Le differenze tra un brano e l’altro si limitano a sfumature leggere e quasi impercettibili a orecchio distratto mentre è chiaro come la formula che mira a una miscela di Dubstep, Chill Out, Ambient ed elettronica, per quanto qualcuno possa essere considerata innovativa (hanno parlato di Dubstep Ambient) da alcuni, in realtà è una scelta senza troppi rischi, senza una reale voglia di cambiamento, rivoluzione sonora e nessuno, ascoltando questo Dreamstone, potrà certo parlarvi di un album rivoltoso o fuori dagli schemi, salvo mentirvi o palesare la propria impreparazione. Che lo si chiami Ambient Dub o Dubstep Ambient o come diavolo volete, Sorrow non fa che riprendere e ripresentare in chiave moderna le idee di The Orb, Scorn, Vladislav Delay o Woob ma invece che sperimentare le possibili diverse e stravaganti sfaccettature del genere, come hanno fatto ad esempio Miles Whittaker e Sean Canty ovvero i Demdike Stare, sceglie di lavare il tutto da ogni sporcizia, lasciando solo la parte più pulita, scorrevole, immediata e semplice.

Quello contenuto in Dreamstone è un Ambient Dub oscuro ma non troppo, pesante ma non troppo, melodioso ma non troppo. Insomma è tutto e il contrario di tutto; ma non troppo.

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