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Motel Connection – Vivace

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Prosegue la full immersion dei Motel Connection – Samuel, Pisti e Pierfunk dei Subsonica – nelle camera dell’eco, nelle zone sonore e abbaglianti dell’Electro-Pop in cui transitano compulsivamente dilatazioni ritmiche della dance che accelerazioni di stampo House e step, e Vivace ne è il sesto episodio della band, il sesto nervo scoperto al quale il trio da corpo e volume per una “nottata” forsennata e splendente come poche.

In tanti dicono meno epico del precedente e reduce da una crisi d’ispirazione che invece, aguzzando bene testa e muscoli, pare non pervenire e tantomeno rintracciare, tutto è un super slam dancey e ritmo ad intermittenza, è un tutto sound dove si scatena la voglia incontenibile del ballare, del ballabile e del ballereccio, tracce al fulmicotone che arrivano spingendosi come elettroni impazziti, grazie e goduria per chi affolla club e dancefloor alternativi, il tocco di classe sincopato della Jovanottiana “tribù che balla”.

Anni Novanta ed happening a josa, e forse il disco più compiuto da quando i MC si sono messi in piazza coi loro progetti collaterali, una forza che ha la dimestichezza totale di quello che fa vibrare sotto il suo potere, tracce “performance” possiamo insinuare che evidenziano a tutto tondo il trionfo della Techno-Dance, Dance e ancora Dance, e con il trio in questa nuova sparata di suoni stroboscopici il rapper Ensi nella caotica valanga di concetti “Vertical Stage” e Khary WAE Frazier in “Know”, e ancora l’intervento di Drigo e Casare dei Negrita, tutto il resto sono mine vaganti di sound e loud all’inverosimile che stordisce e diverte con le sue benemerite funzioni di piacere; undici tracce esplosive che non concedono tregua o momenti di calma, panacea per l’estate più che alle porte e viaggi cosmopoliti nel segno della trasgressione e del divertimento, come la fraudolenza canaglia di “Computer Power”, e “Praise God”, l’attimo stunz stunz  acido “Overload City”, una tinteggiata dei nero mistero “Eyes From Hell” e alla fine il rilascio totale di ogni volontà a fermarsi dai vortici insaziabili di “Vertigo”, chiusura che lascia un fiatone della madonna.

Ovviamente per osannanti folle della Techno colorata, per altri meglio andare a cercare uno squisito gelato all fruits da leccare avidamente.

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Kingshouters – You Vs Me

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You Vs Me è l’esordio degli italianissimi Kingshouters, quattro ventenni che citano tra le loro influenze nomi della caratura di Smashing Pumpkins, Placebo, White Lies e 30 Seconds To Mars.

Il disco, prodotto da Michele Clivati (già nei Nena And The Superyeahs e al lavoro con Dolcenera, Denise, e Francesco Sarcina, tra gli altri), suona preciso, tecnico e potente quanto serve per ricordarci che anche in Italia si possono produrre lavori capaci di competere con la musica internazionale mainstream del momento. Le ritmiche schiaffeggiano, “finte” come prevede il dress code del Rock anglosassone contemporaneo, sorpreso a voltarsi, come la moglie di Lot o come Orfeo, verso le sonorità che gli anni ottanta del secolo scorso continuano a rigurgitare. Le chitarre frizzano e pungono, come vette di iceberg immersi in mari di synth simil-Dance (vedi “Levels”, cover della hit del dj svedese Avicii). La voce non spicca per timbrica, ma supporta in modo degno melodie Pop che incorniciano il tutto senza strafare.

Certo, ci si potrebbe chiedere quale bisogno ci sia di un disco così: magari il tentativo di far vedere che anche il Bel Paese può tentare la strada del Rock internazionale (tentativo pur sempre lodevole), anche se forse, come diceva qualcuno, “chi se ne frega di essere Zucchero se c’è già Joe Cocker”. L’importante, al di là delle chiacchiere sui massimi sistemi, è che i quattro Kingshouters facciano ciò per cui sentono di essere stati chiamati, e che lo facciano bene. Sul secondo punto non abbiamo dubbi. Al resto, penseranno le orecchie degli ascoltatori e la giungla discografica. Per ora, limitiamoci a sentire questo tamarro You Vs Me col gusto un po’ peccaminoso del giocare con i vestiti dei genitori – grottesco, ma necessario, e soprattutto, divertente.

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The Hollyhocks – Pop Culture BOPS

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Eighties e moda, synth e effetti di chitarra, voce alla Spandau Ballet e ritmiche indie, tipo dagli Arctic Monkeys in giù. Insomma, in questo Pop Culture dei torinesi The Hollyhocks c’è tutto quello che serve per farne un must, un successone, una sequela di hit con cui far ballare tutti i dancefloor hip della penisola. E tutto ciò che serve, aggiungo, per non farmeli piacere. La bravura c’è pure, non confondiamoci: le sintetizzate analogiche sono fatte come si deve, gli incroci di genere non annoiano, l’orecchiabilità è costante, le melodie accattivanti, e la punta del piede tiene il tempo senza particolari difficoltà. Però basta, dai. Ho passato troppi venerdì sera davanti a gruppi del genere, e di nessuno ricordo il nome. Le canzoni sembrano una sola, lunga canzone di trent’anni fa, bagnata nell’effervescenza indie pop così tipica di questi anni ’10. Ora, so benissimo di essere io quello sbagliato, per cui andate ad immergervi nella time machine electrostyle dei The Hollyhocks e ballateli fino allo sfinimento, so che ne siete capaci! Ma, per favore, lasciate me al bancone a bere da solo, vi raggiungo dopo… P.s.: O sono io a non capire cosa diavolo significhi post-punk, o la gente usa il termine completamente alla cazzo…

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Andrea Nardinocchi – Il Momento Perfetto

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Questo disco ha due anime: la prima è pop, italiano, che più classico non si può, con i testi dai congiuntivi sbagliati (“sembra che ho”) e le rime alternate, mi fai sorridere quando mi fai incazzare, perditi con me, le lacrime sanno di sale, insegnami ad amare, ecc. – niente di male in questo: è evidente che sia un progetto costruito con l’intenzione di sfondare (e con questo non intendo dire che Andrea Nardinocchi non ci creda, anzi, si sente, sottesa, una certa – e profonda – necessità espressiva).
L’altra anima è ciò che rende Il Momento Perfetto un lavoro interessante: la produzione (impeccabile). Il disco si snoda tra un’elettronica morbida, ritmica, cool, e un R’n’B come non ce n’è molto in Italia. La voce di Nardinocchi, anche se a tratti ricorda, nell’uso, un più famoso Marco Mengoni, è un ottimo fil rouge per queste costruzioni di samples, synth, campioni, che fanno di Il Momento Perfetto un prodotto più internazionale di quanto si possa pensare.

Il disco è tutto qui, tra qualche featuring (Marracash, Danti dei Two Fingerz) direttamente dal mondo dell’hip hop italiano che Nardinocchi frequenta spesso, episodi più mossi (“Le Labbra Screpolate, “Tu Sei Pazzo), singoli strappa-mutande (“Un Posto Per Me, dove la “necessità espressiva” di cui parlavo sopra emerge parecchio, e la sanremese “Una Storia Impossibile), tracce più sperimentali (“Il Momento Perfetto”, “Confondersi), aerate stanze d’amore e rimpianti (“Bisogno di te”, “Amare Qualcuno), flirt swingati (“Con Uno Sguardo), strani incroci di sintetizzatori gonfi e pianoforti (“Come Stai).
Per apprezzarlo dovete saper sopportare: la musica sintetica; le canzoni d’amore; le voci che escono dal cuore, e soffrono, e fanno soffrire; la lentezza intrinseca che un prodotto del genere si porta dentro. Se ce la fate, Il Momento Perfetto è un disco che vale la pena ascoltare, più e più volte, magari in dolce compagnia…

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In-Hour’s Mind – S/t

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Vi darei ragione se diceste che non c’è niente di terribilmente innovativo in questo scarno e spartano prodotto dei milanesi In-Hour’s Mind, ma se un disco lo si dovesse giudicare esclusivamente dal numero di volte in cui lo si tiene incollato all’orecchio, dovrei essere molto, molto più generoso.
Un’elettronica lineare, naif, ma forse proprio per questo più psichedelica, più allucinata. Synth, campioni, batterie, una voce distante e mascherata, ritmiche ossessive, lead impeccabili nella loro semplicità, ritornelli da saltare, sudati ed esaltati, sotto un palco. È un electro-rock per niente fighetto, è grezzo, ignorante, rasoterra – ed è questo, per me, il segreto della sua piacevolezza immediata.
I quattro pezzi di questo non-ep (tre originali dai titoli rubati a personaggi del mondo di Super Mario – non credo casualmente – e una cover dei Soulwax, Krack) scorrono infatti tutti abbastanza facilmente, ma devo ammettere che la vera sorpresa del disco è stata l’apripista, Yoshi, che continuo, non so perché, a canticchiare insistentemente, da giorni. Non so se la colpa sia da imputare alla voce anthemica, o a questa ambientazione da videogame anni ’90 (espressa alla perfezione da un video parecchio lo-fi, ma che centra esattamente il punto).
In generale, nonostante l’orecchiabilità delle tracce più riuscite (la già citata Yoshi e la conclusiva Daisy), l’operazione mi sembra, in qualche modo, incompleta… però si porta dentro dei semi molto interessanti: se gli In-Hour’s Mind sapranno sfruttarli a fondo, e con più metodo, mi prenoto già da ora una copia del loro prossimo disco.

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Small Giant – Now We’Re Gone

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Ai tempi della mia remota adolescenza le primissime scelte musicali che operavo si basavano principalmente, oltre che sul genere, sulla copertina. Sì, quella cosa che tutti oggi chiamano cover per aumentare il proprio livello di figaggine. Una buona cover fa di un ottimo disco un disco eccezionale, lo completa e gli dona quel valore aggiunto che altrimenti non potrebbe ben veicolare la sua fruizione e distribuzione. Non provate neppure a pensare che sia un mero accessorio non facente parte di un disco nella sua totalità: dimostrereste che di musica non ne capite proprio un cazzo. Ben lungi da chi ci legge. Bene, la cover di questo album lo identifica in maniera egregia, e non è roba da poco nel mondo del fai da te di oggi, dove tutti si sentono fotografi o grafici con uno smartphone in mano. L’immagine è quella di una libreria piena di libri e giocattoli (molto ben realizzata) piena di citazioni provenienti dal passato (vi invito a cercarle), un rimando voluto all’età dell’adolescenza che fa da filo conduttore in questo ep di italo dance, così come ama definirla il suo autore Simone Stefanini, già conosciuto ai più per essere il chitarrista dei Verily So, ma che in questa sua escursione solista si presenta come Small Giant. Anche lo pseudonimo da lui scelto è dei migliori, essendo che qualsiasi adolescente si sente un piccolo gigante dentro. Molti anche fra le gambe, ma questa non è sede per dibattiti di tipo freudiano, qui si parla di musica, e di musica continuiamo a parlare.
Questo Now We’Re Gone nasce come vero e proprio tributo ad un certo tipo di musica degli anni ’80 e da subito attira l’attenzione per la sua semplicità e la sua pulizia, dirottando l’ascoltatore più che sulle citazioni, sulle intuizioni e le atmosfere che i brani lasciano traspirare coinvolgendolo nei suoi suoni essenziali ma tiepidi e rassicuranti.

A partire dagli arrangiamenti dei brani, l’album suona compatto e delicato, le sue melodie si intersecano alla perfezione ed esondano (notare il termine esondare, anch’esso reminiscenza delle mie interrogazioni di geografia in piena adolescenza) in un ordinato e ben bilanciato ascolto. Now We’Re Gone si articola molto bene a partire da We Were Fuckers, con il suo sound pacifico, passando per le tastiere frenetiche e la chitarra selvaggia di The Night Apollo Died (Apollo Creed, proprio lui), o alle più introspettive Murakami e The Other MeDivisi, con il suo vocoder ed i suoi suoni fortemente pacifici ci trasporta dritti dritti in una qualsiasi domenica pomeriggio del 1987, mentre è evidente lo struggersi da quindicenne trasportato avanti nel tempo in Another Way to Die. La bonus track, Neverending Story, è proprio quella Neverending Story, colonna sonora della pellicola che un po’ tutti conosciamo e che, nonostante l’ottima realizzazione, sembra a mio parere leggermente troppo ridondante ma tutto sommato azzeccata per completare l’insieme. Il sound del disco nasce da basi elettroniche molto semplici arricchite da tastiere e chitarre molto ben studiate (The Night Apollo Died su tutte) e parti vocali di tutto pregio. Il tutto per merito anche delle ricchissime collaborazioni, come quella di Laura Casiraghi degli Starcontrol, o Davide Lelli dei The Please, per passare aStefania Salvato dei Talk To Me, ad Emanuele Voliani dei Bad Love ExperienceLuigi Cerbone degli Elara, oltre ai due Verily So Marialaura Specchia e Luca Dalpiaz, fino alla più prestigiosa di John Neff dei lynchani Bluebob.
L’album suona quasi come una sperimentazione a tutto tondo dove poter affondare la zanne più del solito e dove anche la sua etichetta, la Fairy Sister, sperimenta la sua stessa esistenza, essendo questa la sua opera prima.
Now We’Re Gone è sicuramente un’ottima prova che lo stesso Stefanini affronta a testa alta, parlando linguaggi a volte diversi dai suoi abituali ma con grande dimestichezza, pronto a mettersi in gioco per divertimento ma anche per cercare un po’ se stesso, proprio come tutti i buoni adolescenti non mancano di fare.

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Chewingum – Nilo BOPS (recensioni tutte d’un fiato)

Written by Novità

In questi giorni mi sono perso in lunghe discussioni sul valore di una recensione e, parallelamente, sulle caratteristiche che rendono l’indie pop italiano un genere cosi prendere o lasciare, “o lo ami o lo odi”. Perché vi dico questo? Perché i Chewingum fanno un album secondo me godibile, divertente, sentito, “di pancia”, in 11 canzoni che stanno tra electro-funk e pop bagnatissimo, testi nonsense spalla a spalla con liriche perfette e dolci come un’alba sul mare, atmosfere eteree e follie senza capo né coda, con una voce che mi si incolla in testa e non se ne va più. Ce ne sono tanti in giro così, lo so, ma rimane un disco che si lascia ascoltare (e ricordare). So anche che molti di voi, a leggere queste righe, faranno una smorfia disgustata: ma mettetevi il cuore in pace, è una recensione, e come spesso accade, l’oggettività si perde dopo i primi quattro aggettivi.

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