Dresden Dolls Tag Archive

Gumshoes – Cacophony

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Una divertente band dal Regno Unito che avremmo dovuto scoprire due anni fa.
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Zirkus der Zeit – A Shape in the Void

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Probabilmente, tra l’infinità di dischi che ho avuto il piacere di ascoltare negli ultimi mesi, nessuno come questo A Shape in the Void dei liguri Zirkus der Zeit è riuscito a mettermi nella stessa condizione di difficoltà valutativa.

Partiamo dalle prime impressioni e da quei fattori che servono poi a costruirsi un’iniziale opinione; cominciamo da quegli elementi congegnati dal duo e che, inevitabilmente, vogliono innalzare l’asticella del nostro interesse. Un nome in tedesco che significa Il Circo del Tempo; due membri di sesso opposto rintanati sotto gli pseudonimi di V e Z; un album dal titolo in inglese che si traduce in una forma nel vuoto; un artwork minimale, oscuro e accattivante; una foto/disegno che ritrae V e Z in una posa che ricorda un’altra coppia che, come vedremo, è da considerare punto di riferimento dei nostri Zirkus der Zeit. Se l’intento era di rapire la nostra attenzione, ci sono riusciti; quello che resta è andare al sodo con l’ascolto e qui iniziano i dubbi. Tanta “solennità” inizia a sciogliersi col passare dei minuti e la prima cosa che viene voglia di fare è incazzarsi per una sorta di tradimento artistico ma poi subentra la serietà di chi è chiamato a descrivere qualcosa che probabilmente non conoscete (nonostante sia il secondo album) e non avete ancora ascoltato. Quello in cui certamente riesce il duo è, prima di tutto, creare un immaginario che coinvolga reminiscenze che superano la sola musica e fornire elementi per fantasticare e viaggiare nello spazio e nel tempo, nel passato e nel futuro, dentro e fuori i confini del mondo. Quello che colpisce è sicuramente il coraggio, soprattutto di V che crea trame soniche complesse, articolate, dalle continue variazioni e sicuramente non consone alle più ovvie produzioni nostrane. Quello che, invece, diventa il punto debole dell’opera è, prima di tutto la voce di Z, la quale, sopra tappeti sonori contorti e oscuri, prova a fare sfoggio di muscoli ma non regge il peso con la sua timbrica mediocre e una tecnica non proprio fuori dal comune.

Eppure non è solo lei a non convincere perché, se è vero che di V possiamo apprezzarne il coraggio (del resto, in Italia essere coraggiosi, nel senso di diversi non è poi cosa di troppo sforzo) non possiamo dire altrettanto degli arrangiamenti e del sound nel suo complesso, che da più parti si vuol far ricondurre a influenze di prestigio quali NIN, King Crimson, Tool addirittura, ma che in realtà, finisce per forgiare solo una copia non troppo riuscita dei Dresden Dolls in chiave Rock. Sono proprio loro il punto di riferimento principale, o almeno l’accostamento più opportuno, nonostante mai citato a quanto pare, per i nostri Zirkus der Zeit, soprattutto nelle sessioni di piano/voce che sono poi anche le più interessanti. Proprio come la band di Boston capitanata da Amanda Palmer, i liguri lavorano su atmosfere cinematografiche noir, su sonorità da Dark Cabaret, su immagini nostalgiche come sbiadite foto in bianco e nero, alternando poi Piano Rock e un banale Alternative Rock misto a Prog e Metal senza vera convinzione ma che finisce per essere l’unica vera variante notevole dal più noto e già citato duo.

Se dunque la fortuna del duo americano è da ricondursi alla creazione di questo varietà grottesco e circense da Belle Epoque, non si può dire lo stesso di chi cerca di imitarne all’eccesso lo stile e se i primi hanno avuto non solo la capacità di essere primi e diversi ma anche di produrre brani eccelsi e immortali, unendo sensibilità e divertissement ad arrangiamenti notevoli e una voce incantevole e intensa, gli italiani non riescono a colpire nello stesso modo, riducendo il tutto a una sorta d’imitazione basilare che vorrebbe forgiarsi di derivazioni più complesse senza riuscirci.
Detto questo, sembrerebbe ovvia una bocciatura per il secondo album dei Zirkus der Zeit, ma da qui i dubbi palesati all’inizio. A Shape in the Void è come un tema copiato dal primo della classe ma un tema ben scritto, con qualche spunto interessante e comunque diverso dalle banalità di quattro asini che si scopiazzano tra loro senza riuscire a mettere insieme un pensiero decente. Dunque, dopo una serie innumerevole di ascolti, non posso che promuovere il duo, se non altro perché hanno tutte le potenzialità per andare ben oltre quei limiti. L’importante sarebbe iniziare a essere davvero se stessi e partendo da questo presupposto si potrebbe veramente capirne il valore. Avvolgere i Dresden Dolls di fumo e veli neri, di schitarrate e ritmiche pesanti e contorte, non può bastare.

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Mimosa – La Terza Guerra

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Attrice teatrale e cinematografica, ancor prima musicista, Mimosa Campironi esordisce con La Terza Guerra, un disco che racconta storie di donne ed amori, a volte violenti, a volte sbagliati. In undici brani viviamo una serie di capitoli in cui le carriere parallele della cantautrice si coniugano in continuazione come se ci trovassimo davanti a una risposta italiana alla statunitense Amanda Palmer: rimembranze del suo Dark Cabaret sono, difatti, presenti nella titletrack. E il che non disturba. Veniamo mandati indietro ai tempi del film muto e della comicità di fine Ottocento. “Arance” e “Fame D’Aria” ci ricordano con veemenza che ci troviamo nel 2015 e Mimosa regala magie con il suo pianoforte, molto più contemporaneo. E anche questo non è un male. “Gli Effetti” torna sui binari isterici dei Dresden Dolls: teatralità e giocosità a iosa. Dal sorriso alle lacrime in quanto la successiva “Fakhita” è dedicata alle donne trovate uccise in Africa, di cui spesso non si conosce neppure l’identità. Un episodio toccante che fa lievitare il voto di almeno mezzo punto. Delle seguenti composizioni segnalo “Voglio Avvelenarmi un Po’”, che gode di una ritmica che segue appieno la voce recitata dell’artista. Purtroppo sul finire regna una certa stanchezza dove il messaggio delle canzoni deturpa le canzoni stesse. Teatrale, sognante, triste, talvolta divertente: La Terza Guerra è tutto questo e molto più. Un album attuale concepito nel passato da una mente che ha un’esperienza enorme a dispetto dei suoi ventinove anni. Il confine tra arte e musica non è mai stato così labile.

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She Owl – She Owl

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Come nella migliore tradizione Neo Folk occidentale (non poteva essere altrimenti) nell’esordio della polistrumentista e cantastorie Jolanda Moletta con la band She Owl e il loro disco omonimo, tanto spazio è lasciato al simbolismo, al mistero della natura, al romanticismo e all’occultismo. Già nel nome scelto, l’indicazione di un animale come il gufo non fa altro che gonfiare di allegorie la sua opera. Animale enigmatico e dalla simbologia ambigua, il gufo è stato considerato negli anni emblema di oscurità, malaugurio e morte ma allo stesso tempo di chiaroveggenza e comprensione. Nel simbolismo celtico la dea della natura Gyffes aveva la sua forma ma il gufo connoterebbe anche il passaggio dalla vita alla morte, in altre parole una guida per gli uomini nei periodi di cambiamento oltre a essere depositaria di molta e antica saggezza. Nell’opera è la stessa Jolanda Moletta a prendere le sembianze della creatura, generando un legame simbiotico con la natura, gli alberi e tutti gli esseri viventi che affollano il bosco e instaurando con essa un dialogo pieno di magia. Per rendere al meglio questa necessità compositiva, la band si è affidata a diversi musicisti della Bay Area (Jolanda Moletta vive e lavora tra l’Europa e San Francisco) oltre che a Dave Mihaly, batterista della songwriter texana Jolie Holland e il risultato è una tracklist di dieci pezzi che suonano splendidamente come il rumore che accompagna una fiaba che scivola nel vento tra le fronde.

Pur essendo presente una strumentazione variegata (nel live la stessa artista suona tastiere, chitarra, autoharp, kalimba e percussioni) le canzoni scivolano via con naturalezza, attraverso una spina dorsale nervosa fatta di piano e voce. Quest’ultima non spicca per qualità, intensità, e neanche per una timbrica particolarmente originale eppure riesce a vibrare perfetta dentro le note, nella sua cupezza, nei suoi sospiri e negli acuti intensi. La sezione ritmica è essenziale, martellante ma non specificatamente marziale e si limita a esaltare la portata emotiva della voce. Discorso simile per il piano che però alterna momenti più enfatici con altri d’atmosfera. Tutto questo genera una proposta precisa eppure variegata e differenziata con cura, tra Vocal Jazz in stile Ella Fitzgerald o Nina Simone (“Hide and Seek”) però con uno spirito da Patti Smith, rimandi quasi gotici di memoria Siouxie e un Pop da camera degno del Michael Andrews di Donnie Darko (“December”). Una sorta di Nico (“Nightingale”) in chiave più vitale e moderna, tra l’Art Pop etereo di Bat For Lashes (“Fisherman Queen”) e il Dark Cabaret dei Dresden Dolls (“Over The Bones”, “December”, “Belong”) anche per una certa similitudine vocale con Amanda Palmer.

Un disco denso di ottime canzoni, con un obiettivo preciso, un’inequivocabile necessità espressiva che forse pecca, non tanto (o non soltanto) per la scarsissima originalità ma piuttosto per una certa piattezza sonora. Questo sia nella parte strumentale (del resto penso che sia lecito aspettarsi di più da artisti che suonino tastiere, chitarre, autoharp, kalimba e percussioni) e sia nella vocalità, che, in quanto a timbro non eccelle anzi pare arrancare forse per l’eccessiva necessità di toccare le note più evocative che la musica richieda; ma anche in quanto a composizione pura che si dimostra poco coraggiosa e convenzionalmente sempre a metà tra la vivacità, la gioia, la spensieratezza e l’angoscia, la tristezza, la decadenza. She-Owl è stato un ottimo modo per passare qualche ora del mio tempo ma difficilmente andrà a custodirsi in uno dei cassetti della mia memoria.

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Aedi – Ha Ta Ka Pa

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Una delle più promettenti e deliziose realtà della penisola viene da San Severino Marche e risponde al nome di Aedi. A distanza di circa tre anni dall’opera prima Aedi Met Heidi, esce proprio nel 2013 il loro lavoro più ambizioso, Ha Ta Ka Pa, realizzato sotto l’ala protettrice di Alexander Hacke, basso, chitarra e voce nei mitici Einsturzende Neubauten. Tale sodalizio, si mostrerà evidente nell’evoluzione del sound della band che, messe da parte le atmosfere pastorali degli esordi, acquista un’energia e una forza eccezionale, rispetto al recente passato.
Ritmiche quasi Math si alternano a sferzate chitarristiche stile Built To Spill nel brano d’apertura “Animale”, certamente uno dei punti più alti dell’opera nel suo miscelare quel Rock alternativo anni 90 a potenza quasi crossover senza disdegnare momenti Punk Cabaret alla Dresden Dolls (vedi anche la parte che anticipa la chiusura di “Fohn”) quando il piano delirante insegue la chitarra, sullo sfondo di una voce angelica e demoniaca allo stesso tempo.

La voce di Celeste Carboni, melodiosa, anche quando alza i toni in vocalizzi mefistofelici che ricordano Diamanda Galas (“Animale”, “Idea”) riesce a essere leggera, morbida ed eterea mostrando non solo la sua timbrica affascinante ma anche discrete capacità e qualità canore.
L’importanza di Alexander Hacke, nello sviluppo del suono nuovo degli Aedi diventa palese negli episodi in cui le ritmiche si fanno tribali e assillanti e le chitarre distorte, sferzanti e taglienti (“Idea”).
I legami col recente passato, fatto di avanguardie folk e rock minimale, della band marchigiana non mancano (“Rabbit On The Road”), cosi come si possono intravedere strizzate d’occhio alla scena Indie più attuale (di scuola Arcade Fire) in pezzi come “Fohn”, brano gradevole, vertiginoso e trascinante all’ascolto ma senza il piglio innovativo che ci ha fatto apprezzare gli Aedi passati. Certamente, se preso come un intramezzo necessario per dare slancio a Ha Ta Ka Pa, è un pezzo più che riuscito, ma le cose migliori sono altre. Discorso simile per “Nero” che invece sembra riprendere le sonorità cupe e introspettive, specie nella sezione ritmica, degli ultimi Radiohead e per “Prayer Of Wind”, che tuttavia ricalca stilemi più vicini al Dream Pop (anche se la parte corale nel finale non può non far pensare ai canadesi già citati) mantenendo intatta quella vena ancestrale che pare fare la fortuna dei marchigiani. Non è quindi un semplice divertissement quest’avvicinamento alla scena Indie ma lascia lo spiraglio per una futura possibile nuova evoluzione, fortemente rischiosa da un punto di vista artistico ma che può certamente aiutare ad ampliare la fetta di pubblico interessata al sound Aedi. C’è da dire che, soprattutto grazie allo stile canoro bucolico di Celeste Carboni, la popolarizzazione del loro sound non sembra possa mai trasformarsi in mera banalizzazione, ma sarà tuttavia il futuro a darci tutte le risposte in merito.

Dopo le note leggere e dreamy di “Tomasz” arriviamo alla parte più interessante dell’album, che inizia con la spettacolare “Yaca”, fatta di chitarre acidissime, tribalismi martellanti e atmosfere lisergiche anni sessanta/settanta. La voce lucente di Celeste vibra in un’apparente monotonia ipnotica, quasi a ricordare Grace Slick e i Jefferson Airplane di “White Rabbit”. La chiusura è affidata a “The Sound of Death”, litania languida in crescendo di quasi solo voci (in questo caso Celeste non è sola), con accompagnamento chitarristico Slow/Sadcore e velatamente folkeggiante che diventa sempre più folle, distorto, pazzoide e frastornante a mano a mano che l’enfasi vocale aumenta la sua intensità. Il modo migliore per chiudere un disco che mantiene le promesse fatte cinque anni fa e che lascia nuove speranze per i talenti del nostro paese. Un disco assolutamente da ascoltare e una band da non lasciarsi sfuggire.

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