Demetra Sine Die Tag Archive

Morgengruss – Morgengruss

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Morgengruss è il nome dietro al quale si cela il progetto solista del genovese Marco Paddeu (Demetra Sine Die e Sepvlcrvm) che per questa nuova avventura si presenta con un disco, registrato da Emiliano Cioncoloni per Taxi Driver Records, che è un viaggio meditativo e minimale all’interno di sé; l’album, dal cuore Folk Drone, ed all’interno del quale non mancheranno componenti Doom e Kosmic, sarà sorretto da abbondanti dosi di psichedelia.
Morgengruss è anche il titolo di un brano dei Popol Vuh post Hosianna Mantra (dei quali non sarà difficile trovare sentori tra questi solchi), quelli del periodo che lega il loro nome a quello del regista Werner Herzog, il brano è presente nel disco Aguirre colonna sonora del film “Aguirre, Furore di Dio”, nel quale una spedizione spagnola alla ricerca della mitica terra di Eldorado verrà sterminata anche a causa del suo (autoproclamatosi) comandante interpretato dallo straordinario Klaus Kinski, pellicola girata in Perù tra la foresta amazzonica ed alcuni affluenti del Rio delle Amazzoni e capace di emanare una forte connessione spirito/natura, connessione che anche in questo lavoro di Paddeu non verrà a mancare.

Il disco mostrerà i suoi modi già dall’iniziale e suggestiva “Father Sun”, un Folk Drone ancestrale, etereo ed ipnotico, nel quale la chitarra di Paddeu ricamerà, come in buona parte del disco, trame che pur avendo un respiro più ampio rimanderanno agli Earth come agli House of Low Culture, il brano sembrerà cullarci accompagnandoci tra le braccia del sole per poi abbandonarci in un vortice apparentemente freddo ma in realtà dal cuore caldissimo. Più scura e desolante sarà “To an Isle in the Water”, nella quale troveremo la partecipazione di Roberto Nappi Calcagno alla tromba che donerà al brano un tono morriconiano, toni che diverranno più psichedelici, ma non meno cinematici, nelle successive “River’s Call” (buonissimo lavoro alla chitarra ed ai fiati) e “Apparent Motion”, fino a giungere al culmine psichedelico di “Like Waves Under the Skin”, pezzo nel quale pare si incontrino Six Organs of Admittance e The Brian Jonestown Massacre, ma che paradossalmente suona come il brano meno riuscito del lotto.
Troveremo il meglio del disco nei due pezzi conclusivi: “Vena” ci porterà in territori Dark Jazz grazie all’ottimo lavoro di Sara Twinn al sax, mentre la chitarra di Paddeu tesserà essenziali trame di psichedelia oscura, e mentre la voce sembrerà arrivare dall’oltretomba ricordando un certo Michael Gira, non risulterà difficile sentirsi in territori lynchiani, per lo meno fino all’arrivo nel finale di un vortice dronico; nella conclusiva “Hope” troveremo due ospiti (Enrico Tauraso, diapason ed effetti, ed Emiliano Cioncoloni, pianoforte e percussioni), che si adegueranno perfettamente al suono lento e distante che Paddeu desiderava per questo lavoro, tutto suonerà infatti in modo talmente minimale e perfettamente bilanciato da renderlo il brano più rarefatto e ricco di pathos del disco, qui i Popol Vuh del periodo sopra citato saranno più che percepibili per un brano ricco di tensione onirica esaltato da voci e suoni eterei e da un breve ed intenso spoken di Paddeu.

Morgengruss è un album sospeso ma denso, terapeutico ed iconologico, che raccoglie le emozioni, le paure, le nostalgie e le speranze che ci plasmano e che facendoci toccare la notte con mano riesce ad evidenziare i suoi come i nostri spiragli di luce e colore, non sarà l’Eldorado ma questo chiaroscuro è la ricchezza che a fine ascolto (sotto lo sguardo d’aria, acqua, fuoco e terra della natura) potrà sicuramente farci sentire più fortunati e consapevoli di Aguirre e dei suoi compagni di spedizione.
Disco che difficilmente avrà la fortuna che meriterebbe e che per questo, ancor di più, consiglio agli amanti del genere di non farsi sfuggire, non sarà l’Eldorado ma è sicuramente terra che merita di essere scoperta.

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L’Inverno della Civetta – L’Inverno della Civetta

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Un’aria gelida entra nelle narici, i polmoni gelano e il cuore accelera all’impazzata. Le pesanti chitarre de L’Inverno della Civetta conquistano spazi indecifrati nelle fantasie più remote. Quasi una violenza psicologica, porta uno strano piacere sottostare. L’Inverno della Civetta per mettere subito le cose in chiaro è un progetto ligure partecipato da molti artisti: Meganoidi, Mope, Od Fulmine, Isaak, Gli Altri, Eremite, Bosio, Kramers, Numero 6, Demetra Sine Die, Giei, The Washing Machine, Madame Blague, Lilium, Merckx. La pressione dei brani riesce ad essere ogni volta diversa, camminare nella nebbia fittissima e sentirsi smarriti nella Post Stoner Rock “Territori del Nord Ovest”, urla e disperazione in un concentrato di sperimentazione sonora. Ma le tante influenze presenti nel progetto hanno la capacità di cambiare velocemente le carte in tavola, i ritmi si fanno indiavolati e fuori continua a piovere incessantemente. La brevissima ma incisiva “Amaro”. L’omonimo disco rappresenta un percorso di paura, di intolleranza verso la felicità, un’avventura segnata dai forti venti e narrata da Lovecraft. Viene quasi voglia di piangere, il sole non sorge mai in “Morgengruss”, sentori di Black in “Bantoriak”. Tutto si svolge secondo una logica ben definita, sembra di vivere nella Svezia più lugubre, mancano quasi sempre le parole nei brani, le atmosfere decidono incontrastate le sorti del disco superando l’importanza dei riff. Indiscutibile la tecnica. Sembra di rivedere Il Santo Niente in “Messaterra”, in particolare per la parte cantata, il sound mi tira velocemente fuori dalla condizione mentale in cui mi ero gettato. Mi trovo spiazzato e non accetto volentieri lo scorrere del pezzo. Ma siamo alla metà del lavoro e le cose potrebbero cambiare fino alla fine.

Infatti, il disco prende una piega decisamente diversa e non nascondo la delusione, non riesco a concepirlo. Dove sono finite tutte quelle atmosfere tanto eccitanti dell’inizio? Quelle che riuscivano a farmi sussultare le emozioni? “Numero 7” addirittura assomiglia ad una canzone popolare gitana, niente contro le canzoni popolari ma non riesco a realizzare cosa ci faccia in questo supporto. Mi scende uno sconforto impressionante e tutta la mia ammirazione viene dimezzata. L’Inverno della Civetta meriterebbe la massima ammirazione fino alla traccia numero quattro, da quel momento in poi le cose cambiano in modo impressionante. Se fosse stato un Ep sarebbe stato qualcosa di epico, purtroppo non lo è, ma prendiamoci pure soltanto la parte “paurosamente” bella. Veramente un grande peccato, un viaggio finito a male.

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Demetra Sine Die – A Quiet Land Of Fear

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Se avete una certa familiarità, che so, una certa confidenza con lontani apparentamenti (ma lontani) con i Paradise Lost non sarete per niente delusi, i liguri Demetra Sine Die sfoggiano uno stile eclettico ed in un certo modo inusuale che cattura e fa prede sin dal primo istante che il loro official work A Quiet Land Of Fear allunga la sua cattiveria Dark/cosmica, la sua influenza cupa e strisciante caratterialità attraverso complici woofer per stringervi nella sua morsa onirica.

Ed è una matrice evoluta dal solito Metal macigno, una tracklist che non vuole demolire padiglioni auricolari, ma una buona matassa elettrica versata ai larghi spazi del Progressive, pur conservando le nervature e la melodrammaticità epica di settore, ed è proprio questa “devianza” a far si che il disco giri alla grande e che anche nei momenti più pesanti, si fa godere e seguire nei suoi voli impeccabilmente SunRa(tici) “Red Sky of Sorrow”; nove tracce di Doom intenso “Black Swan” alternato a sferzate malinconiche, psichedelica Folk-Dark inframmezzata da stati ieratici e sulfurei come la titletrack (molto AINC), un disco che nonostante il buio catrame di bandiera, mantiene una brillante pulizia di fondo che si  assapora per intero. Anche una certa sperimentazione cerca la propria direzione, quella ricongiunzione quasi astrale e antidepressiva che ha i suoi punti di forza nei rumors catartici e divinatori alla Pond o Stern Combo Meissen se non addirittura più in la per rimanere in compagnia dei Tool “0 Kilometers to Nothing” e “Silent Sun”, in cui le atmosfere trascinanti e rarefatte di cori, voci e chitarre allo spasimo di cordame fanno un tutt’uno con la magnificenza degli anni Settanta dei fasti e dei bardi del Prog con la P maiuscola.

Superlativi i controtempi e le trumphet che ricamano le gassosità di “Distances” e il ritmo sincopato del Rock svenato che sembra tirato fuori a tutto calore dai dettagli discografici dei tricolori Museo Rosenbach, “That Day I Will Disappear Into The Sun”, un disco questo dei DSD che non passerà certamente inosservato, l’impatto della classe è garantito e il furore delle buone idee altrettanto, poi se ci si ferma per un secondo sulla voce iniziale di donna che apre il disco e che riporta tutta l’anima virtuale  – quasi simbolica – di Luglio, Agosto, Settembre Nero degli Area, l’ascolto febbricita a dismisura.

Perversamente buono!

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