Dead Can Dance Tag Archive

Asa Tone – Temporary Music

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Il racconto elettronico di dieci giorni a Tegallalang.
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‘Chi Suona Stasera?’ – Guida alla musica live [maggio 2019]

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Built To Spill, Zu, Fennesz… Tutti i live da non perdere questo mese secondo Rockambula.
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Spiryt – Spiryt

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Un inno alle tenebre in cui si fatica a sentirsi a proprio agio e trovare la luce per uscirne.
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Piano Magic – Closure

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Corde Oblique – I Maestri del Colore

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Black Tape For A Blue Girl – These Fleeting Moments

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Nuovo album, nato da una campagna di crowdfunding, per la creatura di Sam Rosenthal a ben 9 anni dal precedente 10 Neurotics. Il progetto ha quest’anno compiuto i trent’anni di attività e con questo nuovo lavoro (trattasi dell’undicesimo full length) li festeggia nel migliore dei modi.
Se il disco precedente poteva infatti aver fatto storcere il naso a qualche fan di questa band, un culto nel suo genere, con These Fleeting Moments ritroviamo i Black Tape For a Blue Girl che tutti noi più amiamo per quanto durante l’ascolto non manchi qualche sorpresa a rendere l’album più differenziato ma mai meno profondo, e non potrebbe che essere così visto tra l’altro il ritorno della più celebre voce della band: Oscar Herrera. Il tenore, presente nei primi 7 album del gruppo, rientra quindi dopo ben 17 anni alla corte di Rosenthal e lo fa, oltretutto, accompagnandosi alla figlia Danielle, nata poco prima dell’uscita di The Rope, prima fatica della formazione.

Il nuovo album è formato da 13 canzoni per 70 minuti di durata e riporta sin dalla bellissima traccia iniziale al freddo calore dei Black Tape anni Novanta con i 18 minuti di “The Vastness of Life”, brano etereo e malinconico che non sfigurerebbe nella loro perla Remnants of a Deeper Purity. La traccia, ricca di pathos, è suddivisa in più parti ed esplora i temi fondamentali dell’album facendosi domande sulle scelte della vita, sulla propria storia personale, su quanto e come sia possibile credere ad eventuali ideali ed agire seguendoli. Il brano è inizialmente un Goth/Neofolk assai cupo dove subito ritroveremo la considerevole solennità della voce di Oscar Herrera che tanto ci mancava, nel suo sviluppo incontreremo poi una parte Neoclassica evocativa e rarefatta dominata da un violino piangente prima che le tastiere di Sam introducano alla seconda metà del brano dove faremo conoscenza con la voce fortemente espressiva di Danielle Herrera; saranno i synth ad accompagnarci al finale, la parte più intimamente gotica di questa ottima apertura di disco, che impegnerà nuovamente al canto Oscar che la figlia Danielle accompagnerà dalle retrovie con la sua angelica voce.
Nel disco ogni traccia ha un suo valore, non troviamo riempitivi. Trovo personalmente da segnalare “One Promised Love”, dolcissimo brano con meraviglioso violino e chitarra acustica in primo piano, delicatezza che fa da contraltare al canto sì delicato ma estremamente denso di Herrera (padre); “Affinity” dove la voce sognante di Danielle emerge dolce e malinconica dal mesto tappeto di synth, o l’ancor più funerea “Please Don’t Go” strumentale di ottima fattura dove la malinconia delle tastiere e degli archi (Nick Shadow è indubbiamente un altro grande protagonista di questo album) scava nei vuoti dell’animo descrivendoli con perfetta desolazione.
Nella seconda metà del disco troviamo l’intensità Tribal-Psych Rock di “Zug Köln” che ci porta ad incontrare la chitarra di Erik Wøllo (artista prodotto dalla Projekt di Sam Rosenthal) co-autore del brano, per poi trovare sentori di Dead Can Dance nei 10 minuti di bellezza ipnotica e ancestrale di “Meditation on the Skeleton” e nella dolce nenia più Folk-Pop “Desert Rat-Kangaroo” con le sue eleganti trame di pianoforte. Sarà dunque il momento di “She’s Gone” brano che mette in risalto la grazia della voce di Danielle che qui, vulnerabile, ci racconta di un amore perduto, il pezzo, triste e dolce, scandito da una chitarra pizzicata con gran delicatezza, nella parte finale va a sposarsi meravigliosamente con l’intensità portata da percussioni, violino e chitarra elettrica che forniscono l’ideale trampolino per il tuffo negli umori Shoegaze/Post Rock delle fragili e vigorose note dell’ottima “She Ran So Far Away That She Can No Longer Be Found”. Nella conclusiva “You’re Inside Me” un Oscar Herrera in gran spolvero si congederà su una base elettronica di pregevole fattura al quale il violino di Shadow andrà ad aggiungere nella parte conclusiva del brano la giusta tensione.

Un disco che offre 70 minuti di seducente malinconia in un riuscito incontro di ricchezza di nuovi spunti e magico stile datato capace di scorrere piuttosto fluidamente nonostante lo spessore (nella durata come in buona parte delle musiche e dei messaggi) che lo contraddistingue. L’opera che aspettavamo, l’atmosfera che aspettavamo, perfettamente descritta dalla copertina dell’album dove troviamo una donna rannicchiata all’interno di un violoncello fracassato all’ingresso di un bosco. Dedicategli il tempo che merita. Sam Rosenthal ed il suo romanticismo filosofico hanno ancora molto da darci.

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President Bongo – Serengeti

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Perché un artista islandese dovrebbe narrare in note terre tanto lontane fisicamente e idealmente? La risposta è nella definizione che Stephan Stephenson (suo vero nome) si è cucito sulle spalle: lui è un carpentiere emozionale e in quanto tale non può che superare ogni sorta di limite per costruire addosso a ognuno di noi l’emotività voluta. Se a qualcuno il nome President Bongo non ha detto nulla, considerando anche che questo è un disco d’esordio, il succitato nome di battesimo dovrebbe ricordarvi una band fondamentale per l’Elettronica nordica che si è sviluppata dai Novanta. Il nostro President è stato, infatti, dalla formazione al 2015 uno dei membri dei GusGus, band di Reykjavik che ha brillantemente esplorato territori vasti dall’House alla Techno, dal Trip Hop all’Elettronica passando per il Pop più “sintetico”.

Se non lo avete capito dall’incipit, Serengeti (disco uscito nell’ottobre 2015 ma, in edizione italo-francese con bonus, nel 2016) narra dell’Africa e, più nello specifico, dell’annuale e mastodontica migrazione dei mammiferi nella regione orientale del continente, raccontando attraverso una miscela molto aderente al concetto dell’opera, la ciclicità eterna di tale spostamento, in apparenza sempre uguale a se stesso ma in realtà ogni volta difforme a causa di diverse condizioni climatiche e non, piccole variazioni che rendono ogni esperienza unica. Quasi a esprimere e ampliare uno dei concetti fondamentali di Eraclito, President Bongo vuole esprimerci tutta la forza del mutamento, del cambiamento e del divenire anche quando l’apparenza sembra suggerire un’illimitata reiterazione del momento.

Per esprimere tutto questo, l’artista islandese sceglie strumenti tutto sommati simili a quelli usati nel progetto GusGus ma il risultato è certamente differente, molto più teso verso un’Ambient e un’Elettronica old style, di chiara ispirazione Eno e con elementi etnici e Afro Jazz che tanto ricordano i Dead Can Dance, oltre ad elementi Folk, Blues e Neo Classic (“Levante”) ed è proprio questa varietà che finisce per fare da legante tra le terre gelate del nord e il Serengeti.

Nonostante i pezzi siano stati scritti tra paese d’origine, New York e Berlino, il riferimento al continente nero non è solo frutto del suo ingegno ma deriva anche dall’esperienza che l’autore ha fatto su queste terre cariche di vita e musica ancestrale; e la scelta di questa terra è anche un omaggio alla sua musica che in fondo è la genesi di tutto quello che abbiamo oggi.

In atto di ossequio all’Italia, gli otto brani che rappresentano un diverso momento di questa grande migrazione, a volte attimi, a volte intere giornate, hanno tutti il nome di venti italiani (l’autore è affascinato da come ogni nostro vento prenda nome diverso secondo la provenienza cardinale) e lo stesso nome non è stato scelto a caso ma con riferimento alle caratteristiche del vento stesso e a come queste si legano con il suono del brano.

Serengeti è un disco complesso nella sua genesi e non semplicissimo all’ascolto, variegato e multiforme, la cui descrizione è fondamentale per comprenderlo al meglio. Allo stesso tempo è opera di pregio assoluto, con alcuni spunti strepitosi, decisamente in grado di esprimere tutto quello che si era preposto in fase di scrittura. Non aggiungerà molto al panorama nel quale possiamo inserirlo ma il pregio e la cura con cui è realizzato e la resa all’ascolto ne fanno uno dei migliori dischi dell’anno passato che noi poveri italiani possiamo goderci nell’anno in corso.

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Picastro – You

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Attivi dal 1998 e con un primo full length pubblicato nel 2002 (Red Your Blues) i canadesi di Toronto Picastro in rinnovata formazione giungono all’album numero sei, dopo tre anni da Fool, Redeemer collaborazione con il conterraneo duo di stanza a Berlino Nadja. Senza darne troppo risalto ma sempre con la stessa indole Slowcore degli esordi, virano decisamente verso quei lidi Contemporary Folk intravisti in Become Secret (2010) accentuandone il lato Psych e dando sempre più risalto alla parte vocale rappresentata da Liz Hysen alla quale si affiancano Brandon Valdivia alla chitarra e Nick Storring.

You si compone di dieci tracce uniformi e liquide impreziosite da featuring d’eccezione che spaziano da Evan Clarke, Tony Dekker (Great Lake Swimmers), Alex Lukashevsky fino a Collenn Kinsella e Celeb Mulkerin. Il tutto per oltre trenta minuti che scorrono via con una impalpabile naturalezza, regalando momenti di affascinante malinconia (“Two Woman”, “That’s It I Mean It”, “State Man”) ma anche di contrapposizione tra violento e inquietante disagio e paradisiaco benessere (“Mountains / Relief”, “Temur”, “February”). Il Folk minimale dei Picastro si tinge di avanguardie dal sapore esoterico in stile Big Blood (“Endlessly”, “Judas Claim”) ma riesce anche a gonfiarsi di ritmiche vagamente esotiche e orientali (“Vampires”, “Baron in the Trees”) in una sorta di Ethereal Wave alla maniera di certi Dead Can Dance.

You è un disco che ammalia e seduce nei suoni sempre azzeccati anche se ridotti all’osso eppure non solo non aggiunge molto a quanto la band nordamericana ci abbia fatto ascoltare ma finisce per sottolinearne un appiattimento stilistico preoccupante, rafforzato dall’evidente freno alla parte strumentale, mai capace di mostrarsi davvero poderosa (che non vuol dire aggressiva) così come da una voce ai limiti della sgradevolezza per la sua timbrica fin troppo arrendevole. You è un’opera che mentre scorre nel lettore non ti fa minimamente pentire di averle dedicato il tuo tempo ma che ti fa cambiare idea nell’esatto istante in cui tutto svanisce.

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InSonar/Nichelodeon – UKIYOE (Mondi Fluttuanti)

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Ogni volta che ci si prepara all’ascolto di qualcosa che sia stato forgiato dalla feconda e geniale mente di Claudio Milano, il sole della galassia InSonar/Nichelodeon, si ha sempre un po’ di riverente riguardo che non spinge istintivamente a pigiare il tasto play per far decollare le sue note. Sai che quello che ti aspetta sarà un lungo viaggio, intenso e profondo che ti travolgerà, volente o nolente, in un’esperienza che solo alla fine capirai in che misura incantevole, sulla base di quanto ti sentirai una persona migliore o meno. Serve del tempo per ascoltare, guardare, leggere, provare nel profondo del cuore tutto quello che è racchiuso in questo UKIYOE (il significato letterale è proprio mondi fluttuanti e si riferisce ad una cultura e conseguentemente un tipo di stampa nipponica) e proprio la necessità di tempo da dedicare all’arte è la peculiarità primaria che rende le opere targate InSonar/Nichelodeon quanto di più distante dall’universo musicale/commerciale attuale, dove le band durano il tempo di passare dalla neve al sole e i brani si metabolizzano come jingle pubblicitari. Questa disuguaglianza è la grande forza degli Insonar/Nichelodeon ed anche il colossale limite che forgia il destino di Milano dentro la gabbia senza sbarre della nicchia underground.

L’ultimo mio approccio con i Nichelodeon risale allo scorso anno, in occasione dell’ascolto di L’Enfant et le Ménure/Bath Salts che fu per me anche l’occasione di conoscere l’altra creatura nata dalla mente di Milano, gli InSonar, ormai diventati una sorta di gemello siamese del più noto progetto Avant Prog. Si trattava di un lavoro enorme, sia come durata (quattro i dischi che lo compongono) sia per energia; un album che mi trascinò per mesi e che, ancora oggi, mi divora lo spirito in quei giorni in cui la consuetudine non basta. Quel disco, che fu l’apice di tutti i miei ascolti di quell’anno, è diventato indiscutibilmente la pietra di comparazione per ogni altra realizzazione di Claudio Milano, che si parli delle fatiche precedenti o di quelle future, il punto massimo che probabilmente mai si potrà valicare. Proprio in quest’ottica, vado dunque ad approcciarmi al nuovo UKIYOE, cercando di tralasciare, per quanto possibile, gli aspetti formali e biografici che ormai dovrebbero essere noti a tutti o che altrimenti v’invito a ricercare negli antecedenti scritti inerenti al nostro Milano. L’opera (in uscita a novembre per Snowdonia), come spesso accade, non si limita a una proposta uditiva e, come per il precedente prodotto, si mostra come una raccolta di stelle, ospiti più o meno noti ma comunque tutti d’importanza capitale in ambito sperimentale e vocale. Troveremo dunque la complicità di OTEME, Deadburger Factory, Garden Wall/Genoma, dei compositori Josed Chirudli ed Erica Scherl, di alcune tra le più grandi voci italiane del momento come Dalila Kayros, Stefano Luigi Mangia, Laura Catrani e tanti altri. Il punto di partenza dal quale tutto muove, il concept attorno al cui orbitano parole, musica, disegni e immagini, è il mare con i suoi movimenti, la costruzione e la distruzione della forma qui trasformata in sostanza materiale attraverso il lavoro di Milano che ha condotto i diversi arrangiamenti dei tanti compositori, assegnando in studio a ognuno un canale, alzato e abbassato in maniera improvvisata per comporre una struttura sia consistente, sia luminosa, alternativamente.

Prima di passare alla musica, merita attenzione l’artwork del digipack, realizzato con le illustrazioni dello stesso Milano. Disegni splendidi, gonfi di colori freddi che si mischiano a immagini confuse creando una specie di fusione tra un mondo reale, dato dalla solidità apparente della terraferma delle umane certezze, e uno formalmente illusorio dato dalla fluidità della coscienza, dal mare e da tutti quei movimenti dell’animo che esso inevitabilmente genera e che l’hanno reso il protagonista di una vastità di opere letterarie divenute capisaldi anche della nostra personale formazione culturale e umana, da Proust a Melville, da Conrad a Hemingway. Dopo aver goduto delle illustrazioni che ho potuto apprezzare anche nel formato originale, si passa all’altro elemento non prettamente musicale dell’opera. Il Dvd che affianca il disco è un breve film del regista d’avanguardia Francesco Paolo Paladino, promotore del progetto e finanziatore dello stesso. Quickworks & Deadworks, questo il titolo, affronta lo stesso tema partendo dalle inquietudini che l’atmosfera marina suscita, ovviamente con l’aiuto della musica degli InSonar/Nichelodeon. Le fotografie del film, della durata di circa mezz’ora, saranno le stesse che, mescolate alle illustrazioni, comporranno l’artwork. Una piccola nave spiaggiata ai piedi d’un bosco, una voce fuori campo che descrive il momento, due coppie, una di giovani vestiti di bianco, una di adulti in nero, si allontanano dall’imbarcazione, avvicinando l’obiettivo. Si ritrovano su una terrazza. La telecamera è fissa e riprende il quadrato nel quale i quattro sembrano idealmente imprigionati. I giovani chiacchierano allegri sul parapetto, gli adulti, preoccupati e quasi disperati, sono seduti alle sedie d’un tavolino. I loro mondi paiono distanti ma con il passare del tempo, il salire del vento, quei mondi finiranno per collimare.

A questo punto approdiamo alla parte musicale, ai sei brani che compongono i mondi fluttuanti qui dipinti. Come i più attenti seguaci del verbo Nichelodeon potranno immaginare, oltre alle sette ottave donate dalla voce di Milano, il tutto si compone di una marea infinita di strumenti e musicisti. Violino, violoncello, arpa, viola, clarinetto, sax, voci di ogni tipo, chitarre di ogni tipo, elettronica, le più disparate percussioni anche non convenzionali e tantissimo altro. Scegliere dei punti di riferimento precisi è difficile. Si citano da Robert Wyatt all’accoppiata Nico / Cale, dagli Swans recenti di The Seer a Henry Cow, da Fausto Romitelli a Scott Walker, passando per David Sylvian, Kate Bush, Radiohead, Liars, Ulver, Carla Bozulich, Tim Buckley, Burial, Nine Inch Nails, Tool, Joy Division, Dead Can Dance, Current 93 e tantissimi altri. Talmente numerosi che pare di aver detto tutto che è un po’ come non dire niente. Perché alla fine non mente Milano quanto indica tutti questi come punti di riferimento; in fondo, ogni album che un musicista ascolta nel profondo fino a farlo veramente suo, finisce per costruire anche un solo piccolo frammento della personalità di quell’artista e, inevitabilmente, ogni pezzettino di sé andrà a costruire in un modo o nell’altro, ciò che poi è il risultato del suo estro. Tuttavia non lasciatevi ingannare da questi nomi. Le sperimentazioni di Claudio Milano solcano gli stessi mari già attraversati in precedenza. Dunque sarà la Modern Classical a farla da padrone, sullo sfondo di una voce sempre tesa tra melodia e sperimentazione (“Veleno”) o ancora le reminiscenze da scena di Canterbury (“Fi(j)uru d’acqua (Fiore/Figlio d’acqua)”), le tensioni nervose dell’Avant Prog (“Marinaio”), la teatralità di certo cantautorato (“Ohi ma(Nel Mare che hai dentro)”) che non disdegna di usare il dialetto per rendere al meglio certe suggestioni. “I Pesci dei tuoi Fiumi (Ezechiele 29:4; 29:5)” è forse il momento più terrificante, spaventoso e violento, certamente a suo mondo più moderno, quello che più si strappa dal passato per protendersi verso le future trepidazioni di un certo Art Pop sperimentale, enigmatico e apocalittico, quasi musica astratta se non fosse per le parole (in questo disco sempre o quasi in lingua italiana) che imprimono precise linee di demarcazione che altrimenti sarebbe impossibile seguire. Avanguardia pura che trova il suo compimento nella conclusiva “MA(r)LE”, che regalerà anche magnetismi autechriani ma dal sapore mediterraneo oltre ad un’infinità di altre immagini che spazieranno attraverso tutte le influenze suddette dei nostri, in una sorta di lungo excursus riassuntivo.

Giunto alla fine, resta l’impagabile soddisfazione di non trovarsi mai tradito da un artista che indubbiamente amo ed ho il piacere di seguire in ogni sua nuova esperienza. C’è da tornare però a valutare l’opera usando come pietra di paragone quel già citato L’Enfant et le Ménure / Bath Salts e, non posso negarlo, questo UKIYOE (Mondi Fluttuanti) non regge minimamente il confronto. Il fatto stesso che si tratti di una sorta di concept finisce per ingabbiare l’opera laddove al contrario, il quadruplo album precedente aveva il grande merito di spaziare e svariare così tanto da somigliare a quello che in letteratura potrebbe essere un capolavoro come Infinite Jest di David Foster Wallace. Qualcosa di tanto complesso eppure coinvolgente che a ogni ascolto/lettura ti pare di scoprire una parte di te, una sorta d’immaginifica bibbia emotiva personale che non rappresenta solo un momento della nostra esistenza, ma la racchiude in tutta la sua complessità. In questo nuovo album invece, tutto quell’universo è ricondotto e fuso in un unico elemento che, per quanto denso, risulta di più complessa compenetrazione. A livello prettamente formale, resta sempre eccelso il lavoro di Milano e dei suoi musicisti, sia come esecutore e cantante puro e sia come regista, coordinatore e demiurgo capace di far confluire idee e concezioni ineluttabilmente diverse in un archetipo comune e ben definito, che sappia prendere le lezioni di un passato che ha visto protagonisti nomi quali i già citati Buckley, Wyatt o Cale e, allo stesso modo, legarle con le nuove idee di mostri come Swans, Burial, Walker. Le frasi dello stesso Milano spiegano meglio di chiunque altro come si sia giunti a tanto: “sono autore delle linee melodiche e ho strutturato gli arrangiamenti, a cui pure ho preso parte, chiedendo a diversi musicisti di realizzarne una propria “visione musicale”. Nessuno è stato messo al corrente di quello che stavano producendo gli altri. Impiegando infine lo studio di registrazione come “un musicista a sé”, ho poi editato e montato creativamente i diversi arrangiamenti, come mossi dai flussi delle onde. In breve, tanta gente a bordo, due soli capitani, io e il sound designer Paolo Siconolfi. Le prime cinque copie del digipack saranno accompagnate da plaquette dell’artista Gloria Chiappani Rodichevski. Ognuna delle plaquette recherà tramite illustrazione (io ho un sistema di notazione assai pittorico su pentagramma) frequenza, altezza, durata e intensità della singola nota/sillaba che va a comporre il brano U-KI-YO-E che chiude idealmente il CD. Le plaquette saranno dunque tutte differenti e se lette una accanto all’altro attraverso l’incontro ideale dei singoli possessori, permetteranno di cantare o suonare il “tassello mancante” di un lavoro, di fatto, strutturato alla stessa maniera di un mosaico”.

UKIYOE (Mondi Fluttuanti) è un’opera immancabile e imprescindibile per ogni amante di sperimentazione vocale e non ed è in questo che sta forse l’unico grande difetto di Claudio Milano. Qualche giorno fa, stavo chiacchierando con Miro Sassolini, membro degli S.m.s. e voce storica dei Diaframma di Siberia, proprio di sperimentazione e circa l’importanza della voce dentro la musica. Quasi in maniera scontata si è finiti a parlare di Demetrio Stratos, il più grande utilizzatore di corde vocali che l’Italia ricordi, ed io non ho potuto esimermi dal tirare fuori proprio il nome di Milano. Sassolini ha confidato: “Claudio, che io stimo immensamente, ha studiato e ripercorso l’intera fase sperimentale di Stratos; forse non ce ne era bisogno. Forse bastava coglierne l’essenza ma questo è solo il mio punto di vista. Io e lui abbiamo cominciato più o meno dagli stessi territori di sperimentazione. Mentre io, però, ho seguito la strada della forma canzone, cercando sempre la melodia dentro la musica, lui ha braccato la purezza, legandosi piuttosto ai suoni, alla ricerca della complessità e alla metodologia estrema. Semplicemente abbiamo avuto diverse progettualità dettate da difformi esigenze personali”. Una verità tanto schietta quanto un po’ malinconica perché proprio questo disco è destinato a essere amato da pochi, come tutte le cose che osano troppo e la consapevolezza che, in tal senso, ci sia stato quasi un passo indietro rispetto al passato, mi getta in una triste realtà in cui pare non esserci spazio per chi ha veramente qualcosa da dire, sa esattamente come farlo eppure parla una lingua sconosciuta a un popolo troppo pigro per imparare.

*un ringraziamento speciale a Miro Sassolini per la piacevole e intensa chiacchierata sul lavoro proprio di Claudio Milano e per i suoi preziosi consigli

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