Dark Wave Tag Archive

Top 3 Italia 2015 – le classifiche dei redattori

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I tre migliori dischi italiani di quest’anno secondo ognuno dei collaboratori di Rockambula.
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The Soft Moon – Deeper

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Decidere di fare i conti con i propri demoni non è mai un lavoro facile; se poi scegli di passare questo tempo di pura introspezione tra la nebbia dei canali di una Venezia spettrale e misteriosa, fra anonime maschere e freddi stucchi è probabile che la tua anima nera e buia si amplifichi e si dilati tanto da farti cadere lentamente in un percorso buio e tortuoso di esplorazione e solitudine. Questo viaggio, espressione di una profonda interrogazione di sé, lo racconta The Soft Moon aka Luis Vasquez nel suo terzo album Deeper. Un disco introspettivo, nero, claustrofobico, che eredita molto dai precedenti lavori, ma che al tempo stesso fa un enorme balzo in avanti in termini di sperimentazione e innovazione. Post Punk ed Elettronica continuano a essere l’humus di base, al quale però si aggiungono brani che contengono vere e proprie melodie e un cantato d’ispirazione Pop. La Dark Wave, gli anni 80, i Depeche Mode, i Kraftwerk, i Nine Inch Nails, il Kraut Rock, Minimal Man e l’Industrial e qualcosa dei Tear For Fears non sono altro che fili nelle mani di un esperto burattinaio, che con maestria confeziona undici tracce intese, catartiche, ansiogene, a tratti rabbiose, spesso sospese e rarefatte. L’atmosfera generale è dark, opprimente, seriale, il ritmo è uno degli elementi decisivi, cuore e veicolo di tutti i brani, martellante e sincopato in “Black”, modulato, esotico e primordiale nelle percussioni di “Deeper”, elettronico, ricco di bassi e danzereccio in “Feel”. Il tutto è sapientemente condito da synth distorti, incursioni martellanti di ronzii e sirene, suoni robotici, voci effettate, echi e riverberi. Tra gli undici brani le tracce più sperimentali sono “Try” dal sapore vagamente decadente e distante,  “Without” dove per la prima volta il piano e la melodia sono protagonisti e “Wasting”, che riesce a trasmettere il senso di solitudine e distacco di una base strumentale con un cantato delicato. Il gran finale, la risalita dopo la caduta, è affidato a “Being”, che ci lascia con un’ineluttabile verità e un nastro, che nel suo continuo riavvolgersi, ripete in maniera ossessiva “I can se my face”. Luis Vasquez ha realizzato un album inteso e coinvolgente, estremamente autobiografico e per questo maledettamente vero.

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Japan Suicide – We Die In Such A Place

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Scuro, cupo e ossessivo il secondo disco dei Japan Suicide, quintetto di Terni che fonde aggressività elettrica e foschia di riverberi in dieci brani di Darkwave abbastanza prevedibile ma cesellata alla perfezione nei suoi mille angoli di voci distanti e batterie gonfie, bassi cordosi e soundscape inquietanti. We Die in Such a Place (titolo dai rimandi letterari: da Javier Marias e Shakespeare) è una cavalcata buia e disillusa, “rifiutando ogni consolazione e ogni inganno, prendendo parte all’infelicità umana con lo spirito della resistenza, della cura”. Questa emotività si percepisce qua e là nella prova vocale di Stefano Bellerba che riesce a disincagliarsi dalla piattezza così angosciosa a cui spesso si appoggiano i cantati del genere. Un disco che funziona di più quando prende la strada del Noise e della distorsione gonfia (alcuni tratti di “Naked Skin”, ad esempio), un po’ meno quando suona come altri cento(mila) dischi simili. A conti fatti, una bella prova di aderenza al genere, ma che difetta in originalità.

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My Drunken Haze – My Drunken Haze

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Stavolta siamo diretti in Grecia, ma non per dire c’è la crisi! c’è la crisi!, né per acquistare titoli rischiosi ad elevato rendimento. Possiamo accontentarci dei nostri guai, per adesso. Di certo non si può dire lo stesso della musica, che, si dica quel che si voglia, si ritrova ad essere sparsa un po’ in tutti gli angoli della terra. Ed in un Paese di cui tanto si sente parlare negli ultimi anni, troviamo cinque ragazzi che di ‘sta crisi proprio non sanno che farsene e preferiscono raccontare la magnifica Grecia a colpi di chitarre e musica. Eh beh, d’altra parte finché c’è musica c’è speranza no?

I My Drunken Haze nascono nel 2010 da un’idea di Spir Frelini (regista e chitarrista della band), ovvero quella di “psichedelizzare” il sound degli anni 60 e le ritmiche del Pop. La ricerca della voce adatta si rivela essere impresa tutt’altro che banale e soltanto nel 2012 la band può beneficiare dell’apporto di Matina Sous Peau, perfetta interprete dei testi di Frelini. La produzione è affidata a King Elephant che presterà la sua arte ai giovani musicisti per dar vita al primo album di debutto, dall’omonimo titolo. L’album si presenta troncato in due di netto. I primi cinque capitoli si prestano bene a raccontare una sonorità parecchio datata, ma stagionata bene al punto da sembrare tutta roba nostra. La vena Psichedelica realizza un sofisticato meccanismo di “vigormortis, in grado di confutare il ben più noto rigor, annientando la rigidità e dando spazio all’energia dell’immortalità. Una rilettura personale di un’epoca fiorente in termini di musica, di cui si fa portavoce il nuovo singolo estratto dal disco: “Yellow Balloon”. La traccia successiva si prende il lusso di scomodare un Pop’n’Roll estinto oramai da qualche decennio. Il titolo stesso sembra voler riecheggiare vecchi schemi oggi abbandonati, proponendo una “Girl who Looks Like a Boy” come non se ne vedevano da tempo.

La seconda parte dell’opera si dona personalità attraverso suoni molto più scuri ed introversi, pur mantenendo il suo style retrò. La traccia numero sei prende il titolo di “Reflections of your Mind” e sembra quasi un brano scritto dai Silversun Pickups e bene arragiato dai geni dei Mars Volta. Lo stile cambia di netto e richiama in gioco gli Animal Kingdom, quando in “Paper Planes” la voce di Matina si fa spazio fra gli strumenti ed afferma la sua posizione rispetto alla musica. L’apice si ha in epilogo, con una “Endless Fairytale” che realizza un perfetto matching fra il New Age e la cupezza caratteristica della seconda sezione dell’opera. Il risultato è strabiliante. Una perfetta sintesi di arte e melodia. Il tema ricorrente (an album starring the character of a woman in search of love, longing, separation and redemption, set against a backdrop of daydreaming, drugs and the hot sand of a summer beach, dicono di sé I My Drunken Haze) conferisce omogeneità ad un’opera dal profumo di impresa. L’esito è positivo e se la Grecia lentamente affonda, ci pensano cinque teste calde a riportare il sorriso sulla bocca di tutti.

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