Cure Tag Archive

Cloud Nothings – Life Without Sound

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Gouton Rouge – Giungla

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I Gouton Rouge riescono a miscelare il loro buon talento ad una sincerità di fondo che viene, a tratti, edulcorata da una delicata paraculaggine (ad esempio chiamare un brano “Hasselhoff” è paraculaggine) che crea un contesto totalmente svincolato dal pressappochismo che genera la musica di tendenza in Italia. Sono fermamente convinto nella buona fede del quartetto. Il loro è un lavoro molto lineare e pulito: chitarre dal suono prevalentemente crunch, batterie e bassi semplici e tastiere ricercate e presenti quanto basta. Possono ricordare immediatamente i The Drums con qualche sfumatura qua e la figlia dei primi Cure. Le creature della giungla della band lombarda si palesano con un meccanismo lento e fluido, che lascia spazio a personaggi dai contorni abbastanza netti, sintomo di una buona capacità compositiva e di una maturità artistica non molto lontana dall’essere raggiunta. “Sulle mie Labbra” è sicuramente il brano di maggiore impatto del disco, sotto ogni punto di vista. La vera forza dell’ottava traccia risiede in un riuscitissimo bridge che spinge tutto il brano ad un livello effettivamente più alto rispetto al resto del comunque piacevole CD. In definita Giungla è uno di quei lavori che potreste ascoltare due giorni e dimenticare subito dopo oppure tenere nel cuore per sempre. Io sto nel mezzo. Non mi piace né dimenticare né affezionarmi troppo.

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Ludwig Van Bologna – L’Arte della Fuga

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Si sono scelti un nome altisonante i Ludwig Van Bologna, che richiama subito la musica classica -complice anche il titolo bachiano- ma anche la malattia distruttiva di Arancia Meccanica con le sue ambientazioni Pop e dettagli Glam. E questa macedonia ideologica si ritrova anche nei brani che compongono il disco: “Gino Paoli” apre con sonorità Indie alla Best Coast, per poi finire in un arabesque di linee melodiche dissonanti. “La Tosse”, invece, è tutta tarantiniana, retta da una linea di basso calda e ripetitiva. Con “Signori Signore” si cambia completamente registro, con un’apertura a filastrocca scandita dal declamato vocale sillabico e stacchi ritmici condotti dalla chitarra. Fin qui mettono sicuramente una certa curiosità, anche se bisogna ammettere che i nostri non stanno dicendo niente. Si nota, nei testi, una certa autoreferenzialità (sul ruolo del musicista, sul comporre canzoni, su partecipare a concorsi), ma la cosa si esaurisce subito e il cervello e il corpo di chi ascolta spostano la loro attenzione esclusivamente sulla componente musicale. “Niente” ricorda i Marlene Kuntz dei bei tempi che furono, il che è sicuramente un gran complimento: chitarre distorte e dissonanti avanti e voce relegata sullo sfondo caratterizzano anche la successiva “Solo Andata”, forse il brano più introspettivo di tutti nonostante, anche in questo caso, i testi non colpiscono se non per l’intellettualoide impiego lessicale, altro gran richiamo a Godano e soci. Il dialogo tra glockenspiel e basso che regge la traccia successiva, “Idee Balorde”, su cui, in crescendo si insinua un larsen rumoroso, dà prova della bravura strumentale dei Ludwig Van Bologna. Manca forse un po’ di spessore nel messaggio testuale o un po’ di convinzione nell’esprimerlo, ma questi ragazzi sono sicuramente buoni musicisti. Lo dimostra anche la sterzata alla Plastic Passion dei Cure che caratterizza l’intro della successiva “Happy Dee Dee”, a condire ulteriormente questa macedonia di ispirazioni Noise, sonorità fredde, parolone difficili alla CSI. “Parole Cose” è il climax di questo mèlange musicale: Pop, Funky, Surf, sfumature Punk trovano spazio in un’unica traccia che si spegne, letteralmente, in “Axolotl”, per pianoforte – con un trattamento ben più moderno di quello che avrebbe fatto Beethoven del suo strumento, più malinconico ancora se possibile, più cinematografico, alla Yann Tiersen – e voce, sillabica, monotona, greve.

Non è un disco imbecille. Non è un disco che si ascolta una sola volta e si cestina a cuor leggero. Al contrario è un disco che si sente più volte alla ricerca dei numerosi pregi. Per poi tirare le somme, però, e passare ad altro.

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Television al Sexto’nplugged di Sesto al Reghena (PN)

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MARQUEE MOON – “Full Electric Show”
MARTEDI 5 AGOSTO 2014
SESTO AL REGHENA (PN) – PIAZZA CASTELLO
Ingresso: 20,00 euro + dir prev
Prevendite: www.vivaticket.it – www.mailticket.it
Apertura biglietterie ore 19:30
Apertura porte: 20:00
Inizio concerto: ore 21:30

I Television, una delle band più innovative della scena underground della New York di metà anni 70, tornano in Italia per un unico concerto imperdibile dove riproporranno in versione integrale quello che è considerato il loro indiscusso capolavoro Marquee Moon. Un disco seminale che ha marchiato a fuoco l’epopea New Wave ed ha influenzato moltissimi artisti dai Joy Division agli Echo & The Bunnymen, dai Cure a Siouxsie and the Banshees, fino agli Smiths e Interpol. Un’occasione unica per rivedere dal vivo Tom Verlaine, Billy Ficca e Fred Smith accompagnati dalla leggendaria chitarra di Jimmy Rip, già al fianco di Mick Jagger e Jerry Lee Lewis.

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Glass Cosmos – Disguise of the Species

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Esistono delle situazioni dove la razionalità non conta niente, o meglio, non viene considerata lasciando allo stomaco il potere di prendere tutte le decisioni. E come è noto, ragionare con lo stomaco potrebbe essere rischioso ma dannatamente bello. Sound tiratissimo come capelli pettinati con montagne di brillantina nell’esordio discografico dei Glass Cosmos, Disguise of the Species. Un colpo improvviso e atmosfere New Wave, le chitarre intraprendono sonorità anni novanta, le complesse composizioni racchiudono rabbia e voglia di cambiare. Disguise of the Species spinge l’ascoltatore verso un mondo parallelo, un drastico taglio alla solita vita quotidiana, si sogna per qualche tempo, e principalmente si ama. “Milestone” e “Libreville” aprono il supporto in maniera decisa, ponendo subito in evidenza le capacità esplosive della band. La vena cupa dei Glasvegas, la ritmica degli Interpol. Quasi mi scordo di avere tra le mani un disco d’esordio, e principalmente non riesco a credere che si tratti di una band italiana, il genere di suono prodotto farebbe pensare tutto il contrario. In pezzi come “It Won’t Be Long Till Dawn” ti lasceresti spezzare il collo al ritmo della batteria, le chitarre suonano dure linee quasi Stoner simil Metal, una mutazione continua della struttura dei brani dimostra buone capacità tecniche dei membri dei Glass Cosmos. “New Shores” miscela atmosfere tipicamente New Wave con accelerazioni tipiche del Punk melodico, anche la voce gioca moltissimo nel cambio di stile. Emozionalità senza confini. Non parliamo certamente di novità, ma piuttosto di sperimentazione nel mescolare i generi in maniera efficace, nel creare delle cose nuove utilizzando cose vecchie, i Glass Cosmos sono dei maestri in questo. Catalogare in un genere musicale questo disco è impossibile, nell’ascolto ho trovato dentro veramente di tutto, Disguise of the Species come contenitore ben fatto di moltissimi generi. “Chrono” esce come singolo ed è indubbiamente il pezzo più importante dell’intero supporto, carico di passione e rabbia sentimentale da vendere. Diventa familiare sin dal primo ascolto, fatta eccezione per la voce sembrerebbe di ascoltare un brano dei Cure di Boodflowers.

Ho trovato nei Glass Cosmos una valida band da competizione internazionale, qualcosa di puramente valevole da mandare in giro per il mondo, una maggiore personalizzazione del sound gioverebbe parecchio alla personalità del gruppo. Bene, finalmente qualcosa di diverso, qualcosa che esce fuori dagli schemi indipendenti italiani che sono maldestramente monopolizzati dalle solite stanche venti band. Questo disco ha un sapore internazionale, culliamoci i Glass Cosmos come fossero delle future Rock Star della musica mondiale, le capacità ci sono tutte, adesso spetta al carattere scrivere le sorti artistiche di questi ragazzi.

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The Tablets – The Tablets

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Si può combinare il Pop statunitense anni 60 di Merrilee Rush & The Turnabouts o The Ronettes con sonorità marcatamente moderne, quasi figlie di certi anni 90, compatte e ossessionanti? A questo ci pensa la messicana Liz Godoy, che prendendo il via appunto dal Pop Garage dei sixties, scorre attraverso le atmosfere Darkwave e Gothic degli 80, tra Cure, Cocteau Twins, Nick Cave, The Go Go’s e Siouxie fino a sfociare nelle grintose chitarre Shoegaze di fine Ottanta e inizio Novanta di The Jesus and Mary Chain per intenderci e nel Pop Alternativo, rumoroso, elettronico, psichedelico e sperimentale di Stereolab o Tv on the Radio. Tutto questo fatto con una cura maniacale del dettaglio che non si trasforma mai in eccesso stilistico ma che anzi, talvolta, suona come una ricerca voluta della nota imperfetta. L’album omonimo targato The Tablets è uno spettacolare esempio di Dream Pop sintetico, basato su liriche profondamente appassionate e melodie morbidissime, tutto sullo sfondo di ritmiche meccaniche e personali. Liz Godoy prende a prestito la lezione che una certa Nico ha lasciato al mondo e cerca la strada per rinnovarne i fasti e il risultato non è molto lontano da quanto probabilmente sperato.

The Tablets è un disco bellissimo, che poteva essere eccelso se solo la voce di Liz Godoy avesse avuto un regalo più grande da madre natura e se la vena artistica della stessa si fosse trovata in un particolare stato di grazia. Un album seducente perché mette insieme con naturalezza mondi apparentemente lontani anni luce e che recupera, almeno con questa sua capacità di rinnovare, i grandissimi limiti della composizione pura, delle melodie, degli arrangiamenti non sempre troppo interessanti e spesso quasi grossolani. Difficile giudicare un disco come questo perché mostrare al mondo dell’arte musicale una possibile strada per il futuro è già di per sé meritevole di apprezzamento ma non solo ciò siamo tenuti a stimare e quindi c’è un’orrenda ma necessaria strada della sufficienza da tracciare, per inquadrare con onestà un disco che non dovrebbe comunque essere ignorato.

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Be Forest – Earthbeat

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Luogo d’ascolto: davanti ad una puntata di Ballarò senza volume, il miglior modo per capire la politica, guardando solo le facce.

Umore: come di chi non si spiega perché ha voglia di pulire lo schermo con la carta igienica.

Secondo lavoro a distanza di tre anni (il primo Cold era del 2011) per i pesaresi Be Forest. Pesaro in musica, dove l’avevo già incontrata? Già, poco tempo fa avevo recensito il disco dei Soviet Soviet che condividono con i Be Forest la provenienza. Evidentemente non è un caso, seppur con mio sommo stupore considerato il clima e la vocazione estiva della città marchigiana, perché lì dove la cadenza abruzzese cede il passo a quella riminese deve esserci una scena molto devota a certo tipo di atmosfere musicali demodè e piuttosto 80’s. Non che i Be Forest siano simili ai Soviet Soviet, per carità, il punto di contatto è che entrambe le band sembrano attingere a quel lato più cupo e ipnotico di quegli anni Ottanta che furono di band come, la prima che mi viene in mente e senza nemmeno sforzarmi, i Cure. Operazione meritoria, troppo spesso e per troppo tempo quegli anni li abbiamo identificati con le spalline di Simon Le Bon e i colpi di sole di Nick Rhodes, invece in quegli anni si costruì quel movimento che avrebbe influenzato sotterranei di rock di almeno altri tre decenni, benché riconoscerlo non era facile e spesso lo si arguiva solo dai riferimenti che professavano band che risultavano molto diverse in termini di proposta musicale. In questa ventata di Alt Rock tutta italiana invece sembra di sentire proprio quell’odore di quegli anni, in maniera chiara ed inequivocabile, non solo per le armonie o le progressioni dei pezzi ma anche e forse soprattutto per i mixaggi. In Earthbeat i riverberi sembrano ricostruiti fedelmente ad immagine e somiglianza di quelli dei tempi che furono, tutto sembra esser stato scelto in funzione di un’idea onomatopeica della musica, di un disco che evochi i suoni della natura. L’uso insistito di timpano e di linee di basso ostinate sugli ottavi ricorda i addirittura i primi U2, i temi della chitarra sono così soffusi da integrarsi benissimo con la voce fredda di Costanza Delle Rose come due fari di una macchina nella neve al buio.

Il disco inizia con ben undici secondi di silenzio prima di “Totem”, il primo pezzo, ed è sicuramente una scelta rischiosa perché presta subito il fianco alla battutaccia del recensore stronzo “sono gli undici secondi migliori del disco”; non sarà il mio caso perché il disco l’ho ascoltato più volte e l’ho gradito dal primo ascolto. Inizia e segnalo un arpeggio molto simile ad una suoneria di iphone: mi ha messo diverse volte in difficoltà perché pensavo di ricevere una chiamata ogni qual volta mettevo su il disco. Tra i pezzi da segnalare in una tracklist che scorre via fluida ma anche fin troppo liquida c’è sicuramente “Ghost Dance” tutta imperniata con melodie pentatoniche dal vago sapore giapponese che sembrano scritte usando solo i tasti neri di un piano, impreziosita anche da un bel suono di synth analogico molto vintage; inoltre “Sparale”, onomatopeica e ipnotica con il suo tema costruito su una scala maggiore ripetuto fino allo sfinimento che riesce a riprodurre mirabilmente l’idea visiva di uno scintillio, che poi diventa un abbaglio e poi colpo di sole che alla fine ti stordisce per quanto è ossessiva. Complessivamente i Be Forest, rispetto al primo lavoro (lo dico senza mezzi termini, mi è piaciuto di più) cercano una normale e fisiologica evoluzione che solo in parte si è sostanziata in idee musicali valide. Sembra che vogliano andare verso una direzione ma ancora non hanno chiara la strada da percorrere. I pezzi sembrano non esplodere mai e rimangono sempre molto sospesi in un terreno emotivo in cui l’ascolto finisce per essere disorientato. In questo disco è altissimo il rischio di non ricordarsi un pezzo più di un altro, altissimo il rischio di non mettere il disco per ascoltare ma per accompagnare con il sottofondo un’altra attività, fortissimo la sensazione che utilizzare lo stesso chorus su ogni chitarra del disco finisca per azzopparne la versatilità.

Forse però il vero problema è un altro ed è il mio: forse il problema che ho recensito i Soviet Soviet prima di loro e forse, non so se succedeva anche negli anni Ottanta, al secondo disco in quindici giorni questa scena comincia a diventare moda, comincia già a risultare un po’ posticcia. In due parole mi ha rotto un po’ i coglioni.

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Okkervil River – The Silver Gymnasium

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A due anni di distanza da I Am Very Far del 2011 esce per la major Indie ATO Records The Silver Gymnasium l’ultimo lavoro degli Okkervil River capitanati dal frontman occhialuto Will Sheff e dai suoi capelli alla John Lennon. La loro fatica è un ritorno nella città natale di Sheff, una piccola town nel New Hampshire chiamata Meriden, e un ritorno alla sua infanzia anni 80 avvenuta proprio lì. Il risultato è quindi un concept album nostalgico in tutto e per tutto, a cominciare dal sito internet trasformato per l’occasione in un fighissimo videogioco Atari datato 1986 in cui il protagonista è un giovane Sheff che munito di zaino va alla ricerca della sorella avventurandosi tra bar, cimiteri, librerie, negozi di videogiochi, presentandoci così la sua vita adolescenziale. Lo scopo di tutto questo è quello di trascinare il fan (ormai diventato nerd anche lui) all’interno di un vortice Atari che gli farà comprendere meglio da dove arrivano le storie ed i luoghi raccontati in The Silver Gymnasium.
Si comincia con un piano alla “Hey Jude” in “It Was my Season” e si continua sulla stessa linea di cori e contorni beatlesiani in “On a Balcony” per poi approdare in un freddo dicembre fatto di insicurezze e di giovani speranze con “Down Down the Deep River”. “Pink Slips” è una classica ballata (drogata però, non romantica) che precede l’inizio musicalmente depressivo di “Lido Pier Suicide Car”, brano che parla delle solite zuffe tra ragazzini e che finisce diventando uno shaker di suoni allegri molto da pigliata per il culo. Belle le chitarre e la batteria in crescendo dell’intro di “Where the Spirit Left Us” (che però successivamente ricade in quell’ormai scontata e abusata forma compositiva di piano-forte = riff-ritornello). Cassa dritta, marcia militare, chitarra acustica completamente stereofonica e una voce retrò caratterizzano invece “White”, una delle migliori tracce del disco. Si continua il percorso infanzia-adolescenza con “Stay Young” (di cui non è difficile immaginare il contenuto) e con “Walking Without Frankie”, in cui a farla da padrone è un basso dritto molti anni 80 e giochi di pan tra i vari strumenti. Molto New Wave e molto Cure per intenderci. Ci avviciniamo alla fine con la penultima traccia caratterizzata da una conversazione a mo di domanda-risposta come testo, ed in cui la risposta a tutte le domande è sempre “All the Time, Every Day”, guarda caso anche il titolo della traccia. Il cerchio si chiude e Sheff saluta la sua infanzia ricordando le piccole gioie ed i piccoli dolori della quotidianità vissuta a Meriden con “Black Nemo”, ed arrivando alla conclusione che ormai è pronto per camminare su marciapiedi più affollati ed andarsene per una nuova strada che soprannominerà Okkervil River.
The Silver Gymnasium è un album con un inizio e una fine, un percorso musicale nostalgico, un ottimo ascolto per una giornata uggiosa in cui si è in vena di vecchi ricordi e di un raggio di sole che ci illumini il viso, un disco pieno di infelice speranza, ma niente di più e niente di meno.

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Girl With The Gun – Ages

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Sensuale da un lato, atmosferico dall’altro, sono queste le principali caratteristiche di Ages, il nuovo disco delle Girl With The Gun che prima di tutto si fregia della calorosa voce di Matilde De Rubertis già singer degli Studiodavoli. L’album è un concentrato di Folk, Electro e Rock, una miscela intrigante soprattutto per come proposta da questi talentuosi artisti, soprattutto Andrea Mangia, in arte Popolous, che in un modo o nell’altro è riuscito anche questa volta a rivolgere in dose massiccia i riflettori verso di se. Ages riesce a mettere sullo stesso piano o meglio, ancora in equilibrio, i generi indicati prima diventando insomma un prodotto che farà invidia. Chiaramente il disco è affascinante anche grazie all’operato di Andrea Rizzo che regala effettivamente una concreta dimostrazione di come si suoni una batteria: coordinato, veloce al momento giusto e lieve quando serve.

Tutte le tracce si lasciano ascoltare senza mai stancare ma un occhio di riguardo va anzitutto ad “Hold on for Cues” che mette subito in chiaro la bellezza pura del platter mostrandosi come una di quelle canzoni che sa nascondere e svelare il suo alone di mistero. La successiva “Fireflies” è anch’ essa singolare, una traccia che mette allo scoperto tutte le doti dei musicisti. Infine c’è “Hover”, che sembra quasi partorita dai Cure: ritmata, sprizzante ma nel frattempo calma, è un altro cavallo di battaglia di Ages.  Il gruppo è riuscito a produrre un disco di una certa qualità: da ascoltare in macchina durante un viaggio o distesi sul letto in un momento di riflessione o ancora facendo jogging, è sempre il momento giusto per Ages. Quando artisti di un certo talento e di invidiabile esperienza si accordano su di un disco fatto con intenti sinceri il risultato può essere solo buono e Matilde e soci lo sanno bene.

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Dperd – Kore

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I Dperd hanno vagato molto nell’ oscuro Underground e tutt’ oggi lo fanno con il loro cupo Rock inspirato da capisaldi come Cure e Cocteau Twins. Il paradosso dei giorni nostri lo sappiamo quasi tutti oramai: la buona musica, quella composta col cuore, partorita da brillanti artisti che se ne fregano dei dati di vendita vaga sempre nel buio, ciò dimostrato dal fatto che questo eccezionale gruppo è in circolazione dal 2003, data in cui uscì il loro primo disco con il nome Dperd, perché ricordiamo che inizialmente il gruppo nacque nel 1991 ma con il moniker diFear Of The Storm.  Dopo tanti anni il duo è ancora attivo e con diversi album nel repertorio, tutti proposti in maniera davvero originale.  Valeria e Carlo tornano  a distanza di tre anni dall’ ultimo “Io Sono Un Errore”, con un disco nuovo di zecca e colmo di chicche, questo è “Kore”. La formula magica ha alla base un tocco di sano Gothic Rock oldschool, quello sul filone della New Wave per intenderci, aggiungeteci un pizzico di Romanticismo ed il tutto amalgamatelo con la soave voce di Valeria, da qui nasce la magia del disco. E’  vero non ci sono chissà quali riff o assoli, ma le melodie e le atmosfere presenti in  “Kore” sono di una dolcezza impressionante, il coinvolgimento è immediato ma la cosa grandiosa è che una canzone tira l’ altra senza mai annoiare. Difficile indicare una traccia piuttosto che un’altra perché tutte hanno qualcosa da far notare, da far sentire, al massimo potremmo dire che “Mi Riaccenderò” è quella che con la sua melodia più ti trasporta oppure che “Sono Qui” è cosi riflessiva da farti sedere su di una poltrona dinanzi un camino e cominciarti a far pensare a di tutto e di più. Insomma per esser compreso “Kore” va ascoltato tutto ad un fiato in silenzio e con attenzione, solo cosi potrete imboccare questo  viaggio dei nostrani Dperd. La My Kingdom Music ci ha visto giusto ancora una volta, un gruppo del genere nel loro team non può che portare benefici.

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