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Kill Your Boyfriend – Kill Your Boyfriend

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Benvenuti nei deliri onirici dei veneti Kill Your Boyfriend, trio elasticizzato, che nel loro omonimo debutto garantiscono l’effetto straniante e accentuato di un bellissimo elettro-post rock e filamenti punk-wave, una digressione o meglio una imponente estensione di suoni, larsen, nenie e cosmique thing che desta attenzione nonché una buona e stralunata vertigine che si innesca sin dalla prima delle otto tracce in scaletta.

Dunque una prorompente onda color pece che si affaccia nella consapevolezza e tra le divagazioni della musica indipendente, un progetto sonico che vede in Marco Fontolan, Matteo Scarpa e Roberto Durante e nelle manipolazioni in fase di missaggio di Nicola Manzan (Bologna Violenta) la tiratura emozionale di un disco buio ma illuminato da accecanti ed impenetrabili flash di lontani anni Ottanta – ma di quelli svegli – sui quali si possono rileggere i sospiri malati di  Joy Division, Jesus & Mary Chain, Velvet Underground, quel fustigato senso maledetto che – nonostante gli anni di mezzo – esponenzialmente seguita a crescere incredibilmente, diaboliche fitte nel cuore che questa formazione contribuisce a riprodurne i fasti e le convinzioni dentro un viaggio sonoro, notturno,  a cinque stelle.

Con l’annaspo filettato di certi Sigue Sigue Sputnik che agitano la robotica di “Chester”, il disco comincia a macinare pazzie amplificate, nichilismi avanzati e coma vigili che si diffondono immediatamente nelle angolarità sintetiche di “Jacques” come negli inneschi ad ingranaggio cosmico che si fanno mantrici nelle volte di “Xavier”; è  un esordio teso, stupendamente teso che attacca togliendo il fiato fino ad incantarti del tutto, togliendoti momentaneamente un pizzico di ragione mentale in una gemma ipnotica dai sapori orientali “Tetsuo”, traccia col numero sette del lotto che su fusioni psichedeliche e tratteggi etnici-elettronici ti domina e ti fa suo al pari di un amore sacrificale.

Già sapevano di avere tra le mani un piccolo capolavoro, ed ora è inutile dire che ci avevamo visto, pardon, sentito bene!

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Oslo Tapes – un cuore in pasto a pesci con teste di cane

Written by Recensioni

Nella musica uno degli elementi fondamentali è emozionare l’ascoltatore, non importa il tipo di emozione provata, l’importante è emozionarsi. Ognuno di noi deve farlo per sentire viva quella parte intima che altrimenti rischierebbe di soffocare.

Ed ecco che Marco Campitelli (The Marigold e Deambula Records) incontra l’estro passionale del sempre attivo Amaury Cambuzat per dare vita al progetto Oslo Tapes  (un cuore in pasto a pesci con teste di cane), atmosfere cariche di nuvole pesanti sopra un cielo rumoroso di quasi primavera. Non c’è molto da rivendicare se pensiamo ad un disco ricco di spunti melodicamente sporchi e pieni di significato, non credo tanto nella banale categorizzazione del semplice rock italiano, qui abbiamo tanto nord Europa dentro picchiato a forza dalle chitarre comandate come fossero angioletti cornificati dall’esperienza di Cambuzat. Campitelli sorride come un diavolo quando può avvalersi della complicità artistica di musicisti come Nicola Manzan e Giole Valenti (solo per citarne alcuni), il prodotto finale assume uno spessore rilevante al quale bisogna in ogni caso rendere omaggio, la differenza si sente. Impercettibili vibrazioni mandano in affanno il cervello.

Oslo Tapes al contrario di una tradizione passata adottata dalle produzioni vicine a Campitelli che voleva solo liriche in inglese inizia una sperimentazione dei testi (se pur brevi) in italiano, possiamo considerare questa scelta molto importante ai fini della divulgazione nei circuiti indipendenti italiani che non vedono di buon occhio lo sperperare della lingua britannica ai soli fini d’esportazione e musicalità. Insomma, siamo Italiani e nonostante tutto ci piacciono anche i pezzi cantati in italiano. Oslo Tapes (un cuore in pasto a pesci con teste di cane) racchiude undici brani diversi ma con un percorso molto concettuale, situazioni mistiche in ambienti prevalentementi cupi, la new wave indirettamente trova il proprio spazio all’interno del disco, ascoltare brani come Distanze e Attraversando per farsene un idea precisa. La vita non lascia certezze a cui aggrapparsi, meglio perdersi in infinite spirali senza fine (Nove Illusioni e Tremo) per dimenticare di essere sovrastati da un sistema brutto e decisamente pesante. Il finale viene affidato ad una ballata profonda (Crux Privèe) alla quale il progetto Oslo Tapes decide di affidare la firma dell’intero lavoro senza nessuna remissione di peccato.

Era tanto tempo che non mi caricavo di tanta fragilità mentale, Oslo Tapes suona come un ipnotico
gioco di prestigio in una serata di pioggia, un progetto molto importante per la sperimentazione musicale tricolore, qualcosa che riesce a smuovere le menti della gente.
Qualcosa di tendenzialmente bello e importante. Il disco uscirà il 12 Marzo, nel frattempo qui sotto vi lasciamo un assaggino.

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BOLOGNA VIOLENTA E DISCHI BERVISTI PRESENTANO: THE SOUND OF…

Written by Senza categoria

Qual è  il vero suono di una band? Ma soprattutto, avete mai pensato  di poter ascoltare contemporaneamente tutta la discografia della  vostra band preferita?
Ora è possibile grazie a THE  SOUND OF…, una raccolta di quaranta discografie delle band più amate del pianeta, curata da BOLOGNA VIOLENTA (ecco la recensione dell’ultimo album e qui l’intervista a Nicola Manzan) per DISCHI BERVISTI in dieci  pratiche uscite settimanali.
Un tempo, per  sentire l’intera discografia di una band o di un artista dovevamo  fare un sacco di inutili e stancanti ricerche. Al giorno d’oggi con  internet si può sentire o scaricare tutto e subito. E il futuro?  Forse in un futuro più o meno prossimo riusciremo ad ascoltare  centinaia di brani contemporaneamente e soprattutto a gustare appieno  il sound inconfondibile di ogni band, con le sue mille sfaccettature  e le sue peculiarità.

THE SOUND OF… vuole  essere un simpatico esempio di ciò chepotrebbe essere il futuro  della musica e della sua fruizione.

Fortemente ispirata alle collane di  musica ambient da edicola, THE SOUND OF… non  vuole di certo essere una release esclusiva per audiofili o  maniaci delle frequenze più bizzarre: oltre alle vostre  orecchie, già impegnate ad esplorare nuove sonorità, anche i vostri  occhi curiosi potranno gustare le nuove  copertine (nate dalla fusione di tutti gli artwork dei dischi  presi in causa) che andranno a creare un immaginario ai limiti  dell’astrattismo, ma sempre perfettamente in linea con la cifra  stilistica delle band trattate.
Ognuna delle dieci  uscite (rigorosamente in free download) conterrà quattro band o  artisti a confronto.

GLI  ARTISTI COINVOLTI: Abba, Alice in Chains, Art of Noise, Barry White, Bathory, Bee Gees, Black Flag, Black Sabbath, Bob Marley, Boston, Carcass, Charles Bronson, Dead Kennedys, Death, Donna Summer,  Eagles, Faith No More, Genesis, Jefferson Airplane, Kansas, Kyuss, Led Zeppelin, Michael Jackson, Negazione, Nirvana, Os  Mutantes, Pantera, Pink Floyd, Queen, Ramones, Siouxsie and the  Banshees, T.Rex, The Beatles, The Clash, The Doors, The  Police, The Velvet Underground, The Who, Thin  Lizzy, Whitney Houston.

Quaranta  rivisitazioni dei classici della musica moderna.
Un’occasione unica  ed imperdibile per tutti gli amanti delle sonorità d’altri tempi.

PRIMA USCITA LUNEDì 4 MARZO 2013 IN FREE DOWNLOAD SU BOLOGNAVIOLENTA.BANDCAMP.COM [1] Per tutti gli aggiornamenti sulle uscite:

www.bolognaviolenta.com [2] facebook.com/dischibervisti [3] Nunzia TamburranoUfficio stampa Dischi Bervisti/Bologna Violenta
dischibervisti@gmail.com [4]

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A. Hawkins – Demo 2012

Written by Recensioni

A volte non è questione di fare il critico stronzo, saputello ed egocentrico. A volte è veramente complicato giudicare il lavoro di artisti o pseudo artisti che magari si fanno il culo tra un “lavoro vero”, come lo definirebbe un padre un po’ all’antica e la loro passione. Il fatto è che, per quanto si possa apprezzare l’impegno e tutta la grinta di chi non ha nessuno alle spalle a pompare la loro carriera, è impossibile giudicare in maniera corretta se lo stesso musicista non riesce, per mancanza di mezzi, a esprimere completamente la propria idea di musica. Non è sempre questione di peculiarità artistica ma anche di qualità di registrazione. Non è una cosa da poco, perché influenza la proposta in maniera decisiva. Un conto è desiderare un suono decisamente lo-fi, un altro è esserne forzatamente costretti. L’importante è non fare l’errore di confondere la validità del musicista con quella della musica.
Probabilmente Alberto Atzori, alias Albert Hawkins, è uno che di musica ne capisce parecchio. A cinque anni comincia a suonare il pianoforte, a tredici la batteria e a quindici è già pronto per formare le prime band “adolescenziali”, punto di partenza obbligato di tanti che poi di musica hanno vissuto. È una di quelle persone che nascono con la melodia nel sangue, ma la cosa, molto spesso, non basta a regalare l’Olimpo. A diciannove anni decide di cimentarsi anche con le sei corde e l’anno successivo stabilisce che è ora di provare a fare tutto da solo. Da qui prendono piede l’idea del progetto solista A. Hawkins, l’idea delle quattro tracce del demo di cui stiamo parlando, l’idea di cercare qualcuno disposto a produrre il giovane artista. Dentro il demo c’è tutta la tragedia della musica italiana, c’è tutta la sofferenza di chi si fa il culo sperando di poter esprimere al meglio quella che è la propria vita, c’è tutto un mondo di talenti che non possono emergere e di merde col bel faccino che qualche pappone ha piazzato nel programma Tv giusto.
Nell’ascolto dei quattro pezzi, nel quale troviamo oltre ad Atzori, la sola partecipazione di Stefano Gueli per l’assolo di chitarra in “From A Storm”, brano d’apertura, emerge una disomogeneità preoccupante tra la varietà di strumentazione, quasi come se ogni elemento fosse un’entità a se stante che se ne fotte del fatto che si trova incastrata in una canzone. E cosi la chitarra, che dovrebbe aver nella musica di Hawkins un ruolo chiave, diventa quasi un accessorio incapace anche solo di esaltare la sezione ritmica. Nel secondo brano “I’m Here”, nel suo andamento più sfumato, inquieto e intimo, si può notare la banalità esecutiva del basso e della batteria, cosa che ritroviamo in realtà in tutto il lavoro, anche se con meno enfasi. In “Rain To Rest”, sembrano risolversi alcuni dei problemi ascoltati in precedenza, la chitarra prova a riprendere corpo e la voce, di cui tra poco parleremo, riesce a mescolarsi con maggiore efficacia al sound di Alberto Atzori, anche se seguendo una linea più precisa e monotona. Il tutto si chiude con “Rock’n Love” e il suo pseudo blues acido da strisce bianche e malinconie sixties.
Stavamo parlando della voce, se non erro. Ripeto che la qualità è scadente e quindi ogni giudizio va preso con le pinze ma di certo non stiamo parlando del nuovo Freddie Mercury. Il timbro non ha alcuna particolarità che possa rendere il suo suono unico, non ha estensione invidiabile, spesso l’intonazione non è perfetta. Diciamo non è la voce di uno che possa fare il cantante. A meno che…
C’è un’altra cosa che non mi torna. Una persona che ha studiato cosi tanto la musica, che strimpella da prima che iniziasse ad andare a scuola, che sa suonare tanti strumenti, che decide di non aver bisogno di una band che lo aiuti a esprimere le proprie idee, si mette inevitabilmente sulle spalle un grosso carico di responsabilità. Quello che ci si aspetterebbe è un uomo che utilizzi tutta la strumentazione in maniera irreprensibile e brillante e magari che sia capace di creare melodie superbe. Pensate a multistrumentisti come Nicola Manzan e la sua Bologna Violenta ad esempio, oppure, in ambito internazionale, a Luis Vasquez, in arte The Soft Moon. Invece, ad Alberto Atzori non riesce nessuna delle due cose. Basso, batteria e chitarre sono suonati in maniera elementare, quasi dozzinale, spesso senza che riescano a legarsi tra loro. Le linee di basso, in particolare, sono al limite di una prima lezione di corso per principianti e inoltre, anche a livello di melodie, non c’è traccia alcuna di qualcosa che possa dirsi sufficientemente orecchiabile oppure ricercata. Su una cosa sono sicuro. Con altri mezzi, A. Hawkins avrebbe fatto tutt’altra figura ma non possiamo ridurre a questo la scarsa proposta dell’artista. La piattezza del sound, la voce mediocre, le melodie assenti, le poche idee messe sul piatto, non sono cose che dipendono dalla qualità di registrazione. Forse A. Hawkins avrebbe bisogno di una band più di quanto lui stesso possa pensare.

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Bologna Violenta

Written by Interviste

Un lungo trip alla scoperta dell’uomo Nicola Manzan, demiurgo dell’one man band Bologna Violenta. Dall’amore per il Grindcore e i Napalm Death, fino alla creazione del nuovo album. In mezzo, tutta l’ anima di una delle più belle proposte alternative della scena musicale italiana.
Parola a Bologna Violenta.

Ciao Nicola. Per prima cosa, come stai?
Abbastanza bene, nonostante il clima tenti quotidianamente di minare la mia salute, mi sembra che per ora non ci siano problemi di questo tipo. Ho tante cose da fare, quindi faccio finta di niente e vado avanti per la mia strada.

Come si vive a Bologna?
Non vivo più a Bologna da otto mesi, ormai. Ci ho vissuto parecchi anni, tra alti e bassi, ho avuto dei periodi in cui ci stavo benissimo, altri meno, ma ad essere sincero non ho ancora capito se mi manchi oppure no. Ora vivo dove sono cresciuto, nel trevigiano, e nonostante culturalmente ci sia un abisso tra le due città, per il tipo di vita che faccio devo dire che sto bene anche in mezzo alla campagna.

Sei al secondo album dopo l’esordio di due anni fa con “Il nuovissimo mondo”. Quali differenze ci sono tra le due opere?
Ci sono parecchie differenze. Questo disco non si basa su riferimenti cinematografici, quindi l’ispirazione per i brani viene da momenti di vita vissuta e non da situazioni prese dai film. Poi per la prima volta sono riuscito a coniugare due linguaggi molto lontani tra loro (almeno apparentemente), ovvero l’hardcore con la musica classica. Se prima gli interventi di archi erano solo in contrasto con le parti distorte, adesso sono parte integrante dei pezzi, nel senso che l’orchestra (per quanto simulata) suona insieme al trio chitarra-basso-batteria e questo non era mai successo nella mia musica. Diciamo che sono riuscito a mettere insieme le mie due anime, quella del musicista classico e quella del grinder…

Quali sono state le principali difficoltà affrontate nel tuo percorso artistico e nella creazione di Utopie e Piccole Soddisfazioni?
Le difficoltà sono innumerevoli, come per tutte le cose, credo; soprattutto perché faccio musica, ovvero arte, e quindi (teoricamente) non una cosa fondamentale per la vita di tutti i giorni. Se penso a BOLOGNA VIOLENTA nello specifico, mi viene da dire che la difficoltà più grossa sta nel fatto che il progetto è stato preso sul serio poche volte, quindi agli occhi di molti è sempre sembrato semplicemente “il lato oscuro” del musicista che però per campare fa altro, suona con gruppi affermati (e quindi all’apparenza più seri) e approfitta del tempo libero per far casino e suonare in giro con un progetto che più che altro fa ridere. Finalmente con quest’ultimo disco sembra che la gente abbia cominciato ad accorgersi che le cose non stanno così. Questo è il mio progetto personale in cui metto tutta la mia vita, quindi è per forza serio, anche se il genere è di nicchia e anche se non uso le parole per esprimere i miei sentimenti e le mie emozioni.
Non ho avuto particolari difficoltà nel creare Utopie e piccole soddisfazioni, alla fine suonare è forse la cosa che mi riesce in maniera più semplice, quindi più che altro c’è stata un po’ di ansia per vedere cosa sarebbe uscito alla fine. In genere non registro dei provini, ma quello che finisce nel disco è il frutto del momento in cui mi metto a comporre, anche se ovviamente poi passo un bel po’ di tempo ad “accomodare” il tutto per far sì che rispecchi al 100% il mio gusto personale.

Quali sono le tue principali influenze musicali? E chi pensi sia più vicino, nel mondo della musica (sia in Italia sia all’Estero) a te e al tuo modo di vedere il mondo?
Le mie principali influenze musicali vanno dalla musica classica al grindcore, dall’elettronica minimale alle colonne sonore degli anni sessanta. Davvero faccio fatica a distinguere quali sono i dischi o i generi che mi influenzano di più nel momento in cui mi metto a comporre la mia musica. Non ho neanche un’idea ben precisa su chi sia l’artista o il gruppo più vicino a me in questo momento. Mi piacciono molto i Napalm Death, oltre che per il tipo di musica che fanno, per la loro coerenza e per il loro impegno sociale (per quanto io non sia così impegnato su questo fronte). Per il resto non saprei davvero chi mi sia davvero vicino; magari ideologicamente (passami il termine) sono molto vicino a molti gruppi che però fanno un genere molto diverso dal mio, quindi le similitudini sia con gruppi italiani che esteri sono sempre abbastanza relative.

L’ultimo disco che hai ascoltato? E il tuo preferito?
Ultimo disco ascoltato: Sufferinfuck – In boredom (Grindcore Karaoke, 2011).
Disco preferito (uno dei miei preferiti, difficile dire quale sia IL preferito): Nino Oliviero / Riz Ortolani – Mondo Cane Soundtrack.

L’ultimo libro e film? E i preferiti?
Ultimo libro letto: American Punk Hardcore di Steven Blush, mentre tra i preferiti devo mettere i romanzi di Bret Easton Ellis e i romanzi russi ottocenteschi (Bulgakov, Dostoevskij).
Per quel che riguarda i film, ultimo visto: Laputa – castello nel cielo di Miyazaki. I miei film preferiti sono tanti, potrei citare Milano odia – la polizia non può sparare, Shining, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Mondo cane, ma sicuramente ne sto dimenticando qualcuno di fondamentale.

Che cosa pensi del Peer-to-peer, del controllo di Internet, di Facebook, della chiusura di Megaupload, di tutto questo?
Penso che internet dovrebbe essere controllato per evitare fenomeni schifosi come la pedofilia, ad esempio, ma mi sembra che chi dovrebbe controllare non sia in grado di farlo. Credo che internet sia cresciuto in maniera molto più veloce di chi dovrebbe essere in grado di regolamentarlo e di controllarlo, e per controllo intendo anche solo monitorare quello che succede, senza per forza intervenire con censure o chiusure dei siti. In pratica i vari fenomeni di condivisione dei file, siano essi tramite Megaupload e simili oppure tramite il peer-to-peer, sono diventati una consuetudine prima ancora che chi doveva regolamentare la distribuzione dei diritti d’autore si rendesse conto che questi “fenomeni” non solo erano nati, ma erano diventati ormai la norma per quando qualcuno voleva ascoltare un disco, vedere un film e così via. Ora corrono ai ripari mettendo in galera il proprietario di Megaupload, che ha sì la colpa di non aver rispettato le norme sui diritti d’autore, ma allo stesso tempo non gli viene riconosciuto il fatto di aver segnato un passo storico nel mondo della rete, andando a rendere “normale” la fruizione in streaming di film e video vari, giusto per dirne una. Sinceramente mi sembra una situazione molto ridicola. Di base manca un certo tipo di educazione che porti la gente a capire che i diritti d’autore sono importanti per chi crea qualcosa, d’altra parte penso anche che grazie ad internet e proprio alla diffusione e alla condivisione di file più o meno legali ora siamo molto più privilegiati di un tempo. Il file sharing dovrebbe essere utile, ad esempio, per conoscere un artista prima di spendere magari venti euro per comprare il disco a scatola chiusa senza sapere se ci piacerà o no. Se ho la possibilità di sentirlo prima, tanto meglio! Certo è che in tutto questo le case discografiche, soprattutto i grandi colossi, sono rimasti troppo indietro, non hanno tenuto il passo di chi stava portando avanti questa politica di condivisione massiccia, quindi ora corrono tutti ai ripari nella maniera spesso più stupida.
Penso che i social network abbiano cambiato il mondo, e non poco. A meno che non si utilizzino per niente, chi c’è dentro ha cambiato spesso il proprio modo di vedere il mondo, le distanze si sono accorciate ed il termine “privacy” ha cambiato il suo significato. Penso che per chi fa musica, come me, siano strumenti molto utili e molto comodi perché si riesce ad arrivare nelle case delle persone con molta facilità. Questo, se da un lato ha appiattito il panorama generale, dall’altro sta facendo sì che chi ha qualcosa da dire riesca a dirlo, se ci crede e se ha la voglia e la forza di farlo, ma soprattutto, ovviamente, se piace a qualcuno. Alla faccia delle grandi case discografiche e dei grandi investimenti finanziari per portare il proprio nome in giro per il mondo (anche virtualmente).

Com’è nata l’idea del progetto Bologna Violenta e come nascono le tue canzoni?
L’idea di fare un progetto grindcore era nell’aria da parecchi anni, ma solo nel 2005 si sono create le condizioni (avverse, mi viene da dire) per cui mi sono messo a registrare pezzi da solo. Avevo un lavoro part-time che mi faceva male (all’anima), lo studio di registrazione libero, tante ore a disposizione e tanta energia negativa da sfogare. Quindi mi sono messo a registrare un pezzo al giorno, partendo dalla programmazione della batteria, suonandoci sopra la chitarra e completando il tutto con vari sintetizzatori o theremin, in base all’esigenza del caso. Questo metodo compositivo è quello che prediligo, nonostante siano passati parecchi anni e parecchi dischi da quando ho iniziato. Diciamo che se riesco a creare una batteria “espressiva” e completa, nel senso che mi trasmette già qualcosa da sola, in genere significa che sono sulla buona strada e continuo mettendoci sopra i vari strumenti (tenendo conto che di base la struttura sonora deve essere quella del power-trio, quindi batteria-basso-chitarra).

Oltre che membro dell’one-man-band hai collaborato spesso con nomi importanti della scena indie (e non solo) italiana come Baustelle e Non Voglio che Clara. Con chi ti piacerebbe suonare?
Mi piacerebbe suonare con gli Zen Circus dal vivo, perché mi sembra che riescano ad essere se stessi anche sul palco e riescano a comunicare davvero tanto al pubblico. Inoltre c’è anche da dire che mi piacciono molto anche i loro dischi, quindi chissà, magari un giorno succederà!

Che cosa significa Bologna Violenta? Quali sono le Utopie e le Piccole Soddisfazioni di cui parli?
BOLOGNA VIOLENTA non ha un significato ben preciso. Per me è un omaggio alla città che mi ha ospitato per molti anni, che mi ha insegnato molto e che ha anche dato i natali al progetto. Aggiungendo anche l’aggettivo “violenta” diventa subito chiaro anche il riferimento al cinema poliziottesco che a suo modo ha influenzato la mia crescita e ha ispirato i pezzi del primo disco. Inoltre è un aggettivo che sta bene anche alla musica che faccio, quindi è un po’ come quando i Metallica facevano metal ed avevano un nome che rimandava al genere suonato (non so se sia l’esempio giusto, ma mi sembra che calzi).
Le utopie sono quelle grandi idee che muovono il mondo, ma che alla fine restano lì dove sono in quanto irrealizzabili per definizione stessa del termine: penso alla pace nel mondo, ad una giustizia globale, alla fine della fame, insomma, tutte quelle belle cose che non si avvereranno mai. Le piccole soddisfazioni sono ciò che ci resta dopo aver cercato di raggiungere, appunto, queste utopie; mi sembra che se riuscissimo a concentrarci di più sulle piccole soddisfazioni di ogni giorni potremmo vivere meglio e magari arrivare alla fine del nostro passaggio su questa terra con meno rimpianti. Per me una piccola soddisfazione è l’aver potuto fare un disco come questo, nonostante la crisi del mercato discografico, nonostante il download selvaggio, in pratica autoprodotto ed autopromosso, dimostrando che si può ancora fare, nonostante a volte sembri il contrario.

Credi in Dio?
No. Credo nel fatto che però l’essere umano è spinto per sua natura verso una spiritualità più o meno accentuata, forse per giustificare tutte le cose che ci succedono e non ci piacciono, ma anche quelle troppo belle ed inaspettate. Quindi non sto a giudicare chi crede in dio, è libero di farlo. Solo non sopporto l’uso meschino che si fa della religione, troppo spesso utile a circuire i deboli e a creare odio fra i popoli.

Chi è stata la persona che ti ha reso, in campo musicale, quello che sei oggi?
Non c’è una sola persona che mi ha fatto diventare ciò che sono oggi. Ho sempre cercato di imparare dalla gente che mi girava intorno, musicalmente parlando. Ho imparato dal mio maestro di violino cosa non dovevo diventare (praticamente mi sono sempre sforzato di essere il contrario di lui), da altri maestri ho imparato a stare sul palco, l’importanza di suonare bene, perché la musica è un’arte e come tale va rispettata. Ho imparato dalle persone che hanno suonato con me, sul palco, in studio. Il mio obiettivo è migliorare, sempre; riuscire non ad essere il migliore (ci sarà sempre qualcuno più bravo di me), ma ad essere unico, in quanto portatore di molte esperienze, alcune delle quali ho vissuto sulla mia pelle.

Che cosa ascoltavi da piccolo?
Da piccolo ascoltavo di tutto, un po’ come oggi. A cinque anni ho imparato a far funzionare il giradischi di mio padre e mi mettevo in taverna a casa dei miei (la stessa da cui sto facendo quest’intervista, per capirci) a far finta che fosse una specie di discoteca (o di radio) in cui io ero il dj e proponevo ad un pubblico immaginario gran parte della collezione di dischi di mio padre, che comprendeva un bel po’ di musica classica e anche un po’ di musica italiana, tra cui De Gregori e De André, che mi hanno sempre fatto impazzire, sia per i testi che per le musiche. In genere, comunque, per me c’era poca differenza tra i vari generi, se la musica mi dava qualcosa a livello emotivo, era giusto proporla al mio pubblico virtuale.

Che cosa ami e odi dell’Italia?
Penso che l’Italia sia un posto fantastico per i turisti, ci sono le montagne, il mare, la storia, il cibo.
Non so di preciso cosa odio, ma di sicuro mi dà un po’ fastidio il continuo piangersi addosso degli italiani e la corruzione che c’è praticamente a tutti i livelli.

Che cosa pensi dell’industria e del mondo musicale italiano?
Penso che l’industria musicale sia in un periodo di grandi cambiamenti. Da una parte abbiamo le major che si muovono nei canali più grossi, che investono ancora parecchio su dischi che sperano di vendere, ma non sempre accade. Dall’altra abbiamo una microeconomia che si muove tra l’autoproduzione e l’autopromozione, quindi investimenti piccoli e copie stampate in numero basso in modo da non rischiare. Tutto ciò significa che il panorama musicale è vivo e vegeto, che ci sono molte persone che lavorano nell’ambito e quindi che c’è del fermento, ci sono ancora idee. Poi, sai, i gusti son gusti, quindi non sto a valutare il valore “artistico” di ciò che esce…

A chi pensi possa o debba piacere la tua musica?
Penso che la mia musica possa piacere a chiunque, praticamente, a patto che abbia voglia di sentire qualcosa del genere e non fermarsi a giudicare in base a schemi “normali”, nel senso che nel mio disco non ci sono molti pezzi facili o con strutture classiche da musica leggera. Se qualcuno ha voglia di sentire qualcosa di veramente forte, secondo me ha trovato pane per i suoi denti.

Che cosa pensi di te? Credi di essere veramente bravo (io dico si) e di meritare il successo che hai o avrai in futuro? Hai qualche rimpianto?
Penso fondamentalmente di essere un musicista normale con parecchi difetti, un po’ come tutti, insomma. Penso che il successo che sta avendo il progetto sia anche dovuto al fatto che la gente sente che sto facendo una cosa completamente mia, quindi con una certa personalità. Non voglio diventare una rockstar famosa, mi interessa suonare il più possibile la mia musica per farla arrivare ovunque e penso che tutti gli anni di dedizione e sacrificio ora mi stiano ripagando, dandomi modo di suonare molto e di fare dischi a mio nome.

Come ti vedi tra dieci anni?
Mi vedo con la barba ed i capelli più grigi di ora. Non ho un’idea ben precisa di quello che succederà, so che non ho nessuna intenzione di fermarmi. Mi piacerebbe “da grande” potermi dedicare di più alla produzione di musica mia e di altri.

Credi si possa vivere di sola musica?
Io ci riesco, ma bisogna tenere in considerazione che non è tanto “vivere”, quanto “sopravvivere”. Dalla mia vita ho tagliato tutto il superfluo, in modo da non avere in testa e attorno cose inutili che mi portano via tempo e soprattutto denaro da reinvestire per stampare dischi, fare il merchandising e tutto ciò che riguarda il progetto stesso. Questo è il mio caso, ci sono anche turnisti che vivono di musica, tra l’altro anch’io collaboro con parecchi gruppi che mi coinvolgono nelle loro registrazioni, quindi dei minimi introiti li ho anche da “terze parti”.

Quale sarà il passo successivo a Utopie e le Piccole Soddisfazioni?
Non lo so ancora. Ho un sacco di idee, devo capire da che parte andare e provare. Molti gruppi mi hanno chiesto di fare degli split, ma devo capire come sono messo col tour, che al momento è la mia priorità, quindi non so quanto tempo avrò a disposizione per registrare pezzi nuovi.

Senza la musica, cosa saresti e cosa faresti?
Non ne ho la più pallida idea. La mia vita è sempre stata gestita in funzione della musica, quindi se penso di togliere questa fetta di vissuto, non saprei cosa resterebbe. Nella prossima vita vorrei saper volare, magari sarò un pilota acrobatico, magari semplicemente un insignificante uccellino.

Come vorresti essere ricordato?
Vorrei essere ricordato per aver dato una spinta avanti nella ricerca musicale, senza per forza stravolgerla, ma anche solo per aver messo il mio piccolo tassello nel progresso di questa arte.

Cos’è per te la vera violenza?
E’ l’imposizione di se stessi sul prossimo, senza badare alla libertà altrui. Questo a tutti i livelli, da quello fisico a quello mentale. E’ una cosa che mi dà molto fastidio e di cui soffro parecchio.

Hai mai pianto? Quando?
Piango spesso, penso che l’ultima volta sia stata alla fine di un concerto di BV, quindi sul palco, in pubblico. A volte mi lascio andare, penso che sia davvero importante per un musicista sapersi lasciare andare, senza per forza scadere nel ridicolo (mi viene in mente GG Allin, ma lui non era ridicolo, faceva paura…).

Cosa ti fa ridere?
Mi fanno ridere un sacco di cose, mi piace osservare attentamente tutto ciò che mi circonda per poterne vedere sempre il lato più ridicolo, che a ben guardare c’è sempre. Ad esempio quelle frasi dette a mezza voce a fine discorso, che non vogliono dire niente, ma sono solo una coda delle frasi precedenti, quasi un balbettìo, ecco, quelle mi fanno scompisciare.

Guardi la tv? Cosa soprattutto?
Guardo la tv solo quando non sono in tour, a casa non ho la televisione. Guardo molte televendite, anche se in generale faccio zapping compulsivo e vedo quante volte riesco a fare il giro dei canali.

Segui lo sport e hai mai fatto sport?
Non seguo lo sport, ma da piccolo ho fatto tre anni di rugby (fino ai dodici anni, poi sai, dovevo suonare il violino, quindi avevo paura di farmi male alle mani…).

Ascolti molta musica? Che cosa ascolti?
Direi che ascolto molta musica. Non so quale sia la media nazionale, ma devo dire che non passo molte ore in silenzio. Ascolto un po’ di tutto, dai demo che mi passano i gruppi via email ai vinili che ho a casa, senza troppe distinzioni di genere, ma semplicemente cercando di assecondare l’umore o la curiosità del momento.

Hai un idolo, fuori dal mondo musicale?
No. Non ho un idolo neanche nel mondo musicale, se è per questo…

Il tuo sogno?
Spero sempre di non svegliarmi e rendermi conto che era tutto un sogno.
Però al momento vorrei sentire i miei pezzi suonati da una band vera, con tanto di orchestra e coro.

La tua paura più grande?
Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo. E’ successo già un sacco di volte che mi trovassi a pensare: ok, anche questa cosa è finita, adesso riparto, vediamo che succede. Vorrei un po’ di tranquillità.

Come passi la tua giornata tipo?
Mi alzo tardi, preparo la colazione per me e Nunzia, guardiamo le notizie in internet, giusto per non perdere il contatto col mondo, poi scendiamo in studio, giro di email e poi mi metto a lavorare (il che può essere rispondere alle interviste, come in questo caso, oppure provare i pezzi, registrare, insomma, solite cose) finché non si pranza tardi (e questo a volte non succede), poi uguale fino alla cena (tardi) e quindi letto (magari con un film, giusto per perdere il contatto con la realtà). Direi che questo è quanto… ah, due o tre volte la settimana in tarda mattinata vado in posta a spedire dischi.

Cos’è l’arte e cos’è la musica?
L’arte dovrebbe essere quella cosa che nutre la nostra anima e ci fa crescere spiritualmente. La musica è una delle arti, ma mi rendo conto che spesso questo concetto non arriva alla gente. Del resto a volte non arriva neppure a chi la musica la fa, quindi penso non si possa pretendere un granché dalla gente che non ci capisce. Per quel che mi riguarda, cerco di trattarla sempre come un’arte, quindi con la massima dedizione ed il massimo rispetto.

Ho letto alcune critiche sulla scelta di una cover dei C.C.C.P. Io l’ho trovata bellissima. Come mai la scelta di fare una cover, quella cover?
A dire la verità non ho letto delle critiche a riguardo, ma mi piacerebbe capire cosa ha infastidito chi l’ha sentita. La storia di questo pezzo, tra l’altro è molto semplice, perché mi è stata chiesta per una compilation di tributo ai CCCP, appunto, e la scelta è caduta immediatamente su Valium Tavor Serenase perché mi è sempre sembrato uno dei loro pezzi più hardcore, sia negli intenti che nella tematica trattata. Quando il disco era quasi pronto ho deciso di inserirla in scaletta, secondo me dà una bella ventata d’aria in quel punto del disco.

Come sono nate le collaborazioni con Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids e con J.Randall degli Agoraphobic Nosebleed?
Quando mi hanno chiesto la cover, appunto, ho subito pensato che Aimone fosse la persona giusta per cantarla, quindi, visto che già ci conosciamo da un po’, gli ho proposto la cosa e lui è stato ben felice di contribuire.
Con J. Randall le cose sono andate diversamente, nel senso che sono stato contattato da lui direttamente un annetto fa perché gli interessavano i miei primi due lavori, che sono poi usciti anche per la sua etichetta Grindcore Karaoke. Mi aveva anche chiesto di poter registrare qualcosa per questo nuovo album ed ho pensato di mandargli il pezzo che forse era più in linea con la produzione degli Agoraphobic Nosebleed e gliel’ho fatto cantare. Ovviamente le cose non sono state esattamente così semplici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta!

Che cosa rende diversa la tua musica da quella dei primi gruppi Grindcore o comunque da chiunque altro? Come definiresti la tua musica?
Innanzitutto la mia è musica in prevalenza strumentale, quindi la prima differenza direi che è questa. Inoltre uso molta elettronica, cosa che ovviamente non avveniva con i primi Napalm Death, giusto per citare i più rappresentativi. Poi ci sono gli archi, con l’uso che ne faccio credo diano un tipo di sonorità abbastanza particolare e personale alla mia musica.
Non so mai come definire la mia musica, dipende da chi me lo chiede. Quando trovo gente che non se ne intende, in genere dico “Avanguardia” o “Sperimentazione” (sì, proprio con le virgolette e la maiuscola), ma più che altro per darmi un tono e vedere le faccia che fa. Quando poi mi guarda con una faccia strana perché non ha capito dico: “faccio casino” e si rasserena.

Ti piace suonare dal vivo? Quali sono le differenze per un polistrumentista come te tra suonare dal vivo piuttosto che in studio e cosa deve aspettarsi chi viene a vederti dopo aver ascoltato l’album?
Mi piace moltissimo suonare dal vivo, penso sia ancora la parte che preferisco. Ma mi piace suonare in generale, quindi anche in studio ci sto volentieri. In generale quando registro penso di star facendo qualcosa di importante per me, ma spesso anche per gli altri, da chi fa la musica a chi alla fine la ascolterà, quindi lo faccio col massimo impegno e la massima energia, pensando però sempre che l’esecuzione dev’essere vicina alla perfezione. Dal vivo è diverso, perché è un momento che dev’essere irripetibile ogni volta, anche se le canzoni sono sempre le stesse. Alla fine sto intrattenendo a mio modo il pubblico e voglio che ogni sera sia speciale, che chi mi ascolta (soprattutto dopo aver ascoltato il disco) riconosca perfettamente le canzoni, ma che colga quell’elemento in più che è dato dall’energia del momento e che le imperfezioni diventino parte integrante dell’esibizione dal vivo. Con questo non voglio dire che mi sta bene suonare male, dico che a volte ci sono quei piccoli dettagli che rendono il tutto veramente vivo e speciale.

Tra le tante band con cui hai lavorato, di chi hai il ricordo più bello e più brutto e perché?
Ho così tanti ricordi belli che non saprei quale ricordare come “il più bello”, in più devo dire che anche le esperienze più brutte mi hanno fatto diventare quello che sono, quindi al di là di qualche episodio un po’ amaro, devo dire di essere stato molto fortunato, da questo punto di vista. Di sicuro i momenti più belli li ho passati in tour, quindi con Alessandro Grazian, i Baustelle, Il Teatro Degli Orrori, i Non Voglio Che Clara, giusto per citare quelli con cui ho suonato di più.

Ti senti la stessa persona di qualche mese fa, ora che il disco è uscito? E’ stata una liberazione oppure una sorta di esame di maturità? Cosa ti aspetti dall’album?
No, mi sento diverso, e anche parecchio, se devo essere sincero. Mentre il disco nasceva ero letteralmente un fascio di nervi, ho dormito davvero poco per cinque mesi perché sentivo la responsabilità di star facendo qualcosa che mi doveva soddisfare al 100% e soprattutto perché in base al risultato dipendeva anche il mio futuro (e non solo il mio). E’ stata proprio una liberazione, anche perché questo disco ha cambiato anche il mio modo di comporre e di vivere questo progetto.
Mi aspetto che questo disco venga recepito per quello che è, mezz’ora scarsa di musica con dei messaggi più o meno subliminali. In generale, poi, tendo a non aspettarmi niente, nel senso che vado avanti per obiettivi a breve scadenza e vedo quello che arriva.

C’è un filo che lega sia musicalmente sia culturalmente i tuoi lavori con gli anni ottanta e novanta?
Ovviamente la risposta è sì. Sono cresciuto proprio in quegli anni, quindi ovviamente la mia musica è anche una conseguenza della cultura musicale che mi ha circondato. Ho iniziato nel ’94 con la mia prima band, quindi facevo musica in linea con quello che andava in quel periodo, quindi non posso non dire che quello che faccia ora non sia legato a quegli anni. Direi, forse, che BOLOGNA VIOLENTA è una specie di spremuta culturale di quel ventennio, anche se ci metto degli ingredienti che arrivano da altri periodi storici.

Questo Utopie e le Piccole Soddisfazioni pensi abbia uno scopo oltre la semplice proposta musicale alternativa?
Dovrebbe avere lo scopo di far passare mezz’ora della vita di qualcuno in maniera diversa. Una specie di viaggio in cui lasciarsi andare a sensazioni, immagini e tutto quello che passa per la testa.
Con questo disco ho cercato di non avere scopi di altro tipo, non mi interessa, ho puntato proprio sulla musica stessa senza troppe contaminazioni esterne che ne fanno perdere la spontaneità.

Ultima cosa, La scelta della famosa prigione (il Panopticon) in copertina è una tua idea? Cosa vuole rappresentare?
A dire la verità, in copertina è raffigurato un emiciclo e, ad essere preciso, proprio l’aula del parlamento italiano. L’idea è mia e l’ho sviluppata con Nunzia Tamburrano, la mia compagna e collaboratrice, che l’ha per così dire “sistemata” dal punto di vista grafico, togliendo ad esempio tutti i banchi ed i posti a sedere, come a dare l’idea di un parlamento pulito. Ma non è solo questa la chiave di lettura, perché in mezzo si può scorgere il profilo di San Pietro a Roma, quindi un po’ il dualismo tutto italiano “Stato/Chiesa”. Inoltre, come noti tu, alla fine l’idea che esce è quella che sia un panopticon, ma in realtà non lo è. Quindi Stato/Chiesa/Carcere. In generale, è una figura che mi piace molto, perché rappresenta anche gli anfiteatri greci, oppure la struttura di un teatro, quindi in linea con la musica all’interno del cd. Mi sembra che sia un’immagine che fa riflettere, quindi direi che è perfetta per questo disco.

Dimmi quello che vuoi dirmi e non ti ho chiesto:
Cos’è il Bervismo?

Il Bervismo è un nuovo modo di vedere la vita, in positivo ed in negativo, ma più in positivo. Una specie di trionfo della ragione su superstizioni, dogmi, falsa politica.

NESSUNA POLITICA
NESSUNA RELIGIONE
BERVISMO PER PIU’

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Bologna Violenta – Utopie e Piccole Soddisfazioni

Written by Recensioni

Partiamo da lontano circa metà anni ottanta. In un buio scantinato freddo e puzzolente, tra rifiuti, siringhe usate, bottiglie rotte e sorci neri e grossi che si divorano gli uni con gli altri, sopra un materasso intriso di piscio giallo e sperma rinsecchito, l’Hardcore, strafatto come al solito, si stava trombando violentemente e senza precauzione alcuna quella fighetta dell’Heavy Metal, non sappiamo quanto consenziente. Poco tempo dopo ecco il parto tanto (in) atteso. Come un alieno verde, con la lingua biforcuta in bella mostra, dalla vagina della fighetta in tutta la sua furia estrema, in tutta la sua follia, senza lacrime, sulla terra fa la sua comparsa una nuova specie. Grindcore è il suo nome e come un vampiro presto inizia a nutrirsi del sangue degli ultimi, inizia a diffondere il suo verbo urlando e a spargere il suo seme dal Regno Unito al mondo intero come una pioggia di psicopatica violenza acida. Napalm Death e Carcass sono i primi apostoli poi convertiti al Death Metal. Proprio Mick Harris (drummer dei Napalm Death) battezzò il nuovo genere parlando di grind, tritacarne, per definirne i tratti caratteristici. Pezzi brevi come esplosioni, liriche sociali, rumore nero e parole a tratti incomprensibili. Nicola Manzan (c’è lui dietro la one-man-band Bologna Violenta) è molto giovane all’epoca ma segue la crescita e lo sviluppo del genere in maniera apparentemente maniaca. La prole dell’originale Grind si è spostata fisicamente, soprattutto in terra Americana (U.S.A.) e ha cambiato alcuni dei suoi tratti somatici. Spesso si è fatta più precisa, ad alto livello tecnico, con riff discordanti tra loro, struttura spesso molto complessa e dilatazione dei tempi di esecuzione, sfociando nel cosiddetto Math-Core (The Dillinger Escape Plan una delle band più rappresentative del genere). In altri casi si è allontanata verso le terre del Metal, sia Death sia Brutal, mantenendo intatte, in questo caso, alcune peculiarità quali la velocità nel riffing o il martellamento della batteria oltre i 200 Bpm, riducendo però la voce a qualcosa d’incomprensibile e quindi mettendo il secondo piano l’aspetto sociale delle liriche.

Nicola Manzan (trevigiano classe 1976, diplomato in violino e polistrumentista, già collaboratore con Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle e tanti altri) oggi ha quasi quarant’anni e uno spiccato senso di malinconia propositiva, di voglia di passato, un forte legame con le radici ed anche tanta attenzione agli aspetti evolutivi sia del genere sia della società in cui ha vissuto. La nostra società occidentale, italiana fino al midollo. Nel bene e nel male. La nostra musica di chitarre e pelle che bacia l’elettronica. Pseudo nichilismo teatrale e teatralizzato in una sorta di colonna sonora di un film fantasma (anche se stavolta sono assenti i riferimenti diretti al mondo cinematografico). Esiste un legame tra la “nostalgia” con la quale riprende il Grindcore originario plasmandolo e mescolandolo con l’elettronica e con schegge impazzite avanguardistiche che possono essere voci distorte, trasmissioni radio, inserti di musica classica, jazzismi, cover (splendida) dei C.C.C.P. (Valium Tavor Serenase cantata da Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids), electro-music e tanto altro, con quelli che sono i riferimenti testuali sociali e letterali delle canzoni (canzoni è il termine meno adatto per le esecuzioni di Bologna Violenta) che tanto si rifanno agli anni ottanta, proprio gli anni in cui il genere è nato.

Bologna Violenta è palesemente ben oltre il Grindcore. Utopie e Piccole Soddisfazioni, secondo album dopo l’ esordio datato 2010 “Il Nuovissimo Mondo”, è un insieme di tante cose. E soprattutto è una degna evoluzione, logica prosecuzione, eccelso sviluppo di quanto fatto nell’ album precedente, con notevoli miglioramenti strutturali e compositivi, maggiore lucidità, visione più ampia e meno incentrata sulla sola tagliente chitarra elettrica. Un enorme passo avanti. Il Grind è la materia prima penetrata da citazioni, digressioni splatter, intellettualismi, parole del Presidente della Repubblica Saragat del 1967, canti polacchi, il bambino Dario e la signora Maria, Arturo Taganov  e altre follie. Utopie e Piccole Soddisfazioni è accozzaglia, babele, cagnara, confusione, disordine, guazzabuglio, macello, pandemonio, sconquasso, trambusto, il risultato defecato dalla società italiana in digestione dagli anni settanta fino a oggi, che un Demiurgo chiamato Bologna Violenta ha lavorato come creta per creare qualcosa che disturbasse il perbenismo in maniera mirata e apprezzabile da chi riesce a saltare la schematicità della classica forma musicale tipo canzone e una volta creato qualcosa di bello ci ha pisciato sopra per rendere l’opera ancora più viva nella sua ripugnanza. Come abbiamo detto, dall’analisi del disco e delle sue singole parti, emerge una varietà notevole di elementi. Dalle parole del PdR di “Incipit” e la violenza della chitarra, si passa alla purezza (nel qual caso non prendete la parola alla lettera) di “Vorrei sposare un Vecchio” e il suo coro di bambini, fino a sperimentazioni elettroniche Harsh stile Kazumoto Endo, pseudo improvvisazioni noise degne dei Dead C o dei Flipper e follie pregne d’impulsi sessuali avantgarde memento dei geni della provocazione Butthole Surfers. Ci sono collaborazioni importanti (oltre alle citate ricordiamo quella con J.Randall degli Agoraphobic Nosebleed, con Nunzia Tamburrano, compagna e collaboratrice che recita in Remerda e con Francesco Valente, batterista de Il Teatro Degli Orrori, che urla in Mi fai schifo) e inserimenti di violino, ci sono parole di rabbia, ci sono cover, c’è una ricerca metodica e spasmodica, c’è rassegnazione e speranza, ci sono ballate dall’aspetto folk che raccontano una novella finto De Andrè (Remerda) come a prenderci per il culo, ci sono intermezzi che sarebbero perfetti con le foto delle piazze italiane sullo sfondo, c’è la decadenza culturale e politica, c’è la decadenza dell’arte musicale, ci sono cori monastici squartati dalle urla della chitarra, c’è tutta Bologna Violenta, fino alla fine, ovvia come la morte, triste come la vita. C’è cosi tanto che descriverlo, è impossibile. Utopie E Piccole Soddisfazioni è parte dell’unico strumento a nostra disposizione per distruggere dalle fondamenta il Panopticon nel quale la mente della collettività è stata rinchiusa in completo potere psichico dal guardiano della società moderna. Tutto è smitizzato,tutto è ridicolazzato. Ora sta a voi.

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