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IX edizione del Mojo Station Blues Festival: ai blocchi di partenza

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Al via la IX edizione del Mojo Station Blues Festival (31 Maggio – 2 Giugno), tra le principali rassegne -indipendenti- in Italia di musica blues e cultura nero e afroamericana, con base a Roma (Init Club), nel popolare quartiere Pigneto. 10 concerti, 6 presentazioni di nuovi dischi, dj set e proiezioni di pellicole rare dedicate al blues. La direzione artistica è a cura dell’Associazione culturale Mojo Station, affiliata alla Blues Foundation di Memphis. Tra i numerosi musicisti, spicca il nome di Mariem Hassan. Il programma completo e tutte le informazioni necessarie riguardo orari e biglietti su:  mojostation.net; facebook.com/MojoStationBluesFestival.

 

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Deep Purple – Now What?!

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Time, it does not matter”. Così inizia il diciannovesimo album in studio di una delle band più longeve e influenti della storia della musica. E nonostante la riverenza nel trovarmi davanti ad un mostro sacro, mi viene subito da storcere il naso. Della magica e barocca chitarra di Ritchie Blackmore non rimane nemmeno una timida ombra, il maestro John Lord ci ha lasciati da poco (e comunque aveva lasciato la band già nel 2002), sebbene il suo suono in bilico tra sacro e profano viva ancora nelle mani del fido Don Airey. Per non parlare della voce di Ian Gillan, gli uragani provocati dai suoi strilli forsennati ora sono carezze vellutate.
I Deep Purple ormai da diversi anni sentono il peso della loro storia. Presente che costruisce mura destinate a sgretolarsi sulle troppo solide basi del passato. Solide basi che rimangono principalmente grazie alla sezione ritmica Ian Paice/Roger Glover ancora ruggente e ben oliata.

“A Simple Song” apre le danze con la sopracitata frase incriminata e ci bruciamo già in partenza il miglior pezzo del disco. Il dolce incastro melodico chitarra/voce sfocia in un sornione e solido Hard Rock. Niente di nuovo, ma quanto basta ai vecchi affezionati per dare una spolverata al vecchio giubbotto di pelle. Ritmiche storte e arie orientali in “Out The Hand”, che ha un po’ la pretesa di suonare come la nuova “Kashmir” dei Led Zeppelin, ma risulta goffa e scade in frequenti e freddi tecnicismi. In “Hell to Pay” finalmente un po’ di Rock’N’Roll e, sebbene la voce canti un’ottava più in basso rispetto a quaranta (ho detto quaranta!) anni fa, i ragazzi ci ricordano che si fa della grande musica del diavolo anche con l’organo da chiesa. Ma il momento di entusiasmo dura poco e tornano la ruggine e il Funky tanto amato da Steve Morse.“Body Line” viene salvata solo dalla melodia e da una simpatica interpretazione di Ian Gillan, la vera sorpresa del disco. Niente più urla forsennate, un’inesorabile e onesta presa di coscienza. Il tempo passa eccome e lui rallenta la macchina, senza fretta (“mi stendo nel lungo prato, me la prendo comoda e faccio riposare i piedi […] siamo qui con tutto il tempo del mondo”, “All The Time in The World”) e con quel sorrisetto furbo ed esperto ci fa intendere che è ancora li a divertirsi. E onore a chi si diverte ancora alla tenera età di 67 anni!
Il disco scivola via senza graffiare e senza neanche provarci più di tanto, tra ripetitive e noiose melodie bluesaggianti, veloci ed inutili assoli (va bene modernizzarsi ma la scelta di Steve Morse, compiuta ormai quasi vent’anni fa, non l’ho mai digerita bene), eterni intermezzi dal sapore epico (“Apres Vous”), stacchi da far entusiasmare i migliori amanti della tecnica. C’è quasi da chiedersi cosa serve ad una band del genere fare ancora dischi. E ringrazio che Robert Plant non abbia mai voluto intraprendere ghiotte e lunghe reunion coi Led Zeppelin.

Certo la voglia sarà ancora tanta e l’ammirazione rimane immensa per questi dinosauri, ma ormai non sono altro che lenti e stanchi triceratopi. Falso dire che il tempo non conta nulla, il viola ormai è troppo sbiadito per essere profondo.

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El Bastardo – Wood & Steel

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C’è crisi (non solo economica, pare). E nei momenti di crisi siamo tentati di ritrovare l’equilibrio attraverso un riassestamento: riscopriamo le nostre radici, le nostre storie, ci rifugiamo nella sicurezza del passato, nei suoi modi, nei suoi miti, nei suoi codici. Riallineiamo il nostro orizzonte piantando al centro del nostro campo visivo un axis mundi fatto di storie già sentite, e per questo leggendarie, naturali, sempiterne. C’è crisi, ed ecco quindi tornare in auge il revival della musica popolare americana, quella vera, Blues, Folk, Country, fatta di chitarre resofoniche, banjo, kazoo, armoniche a bocca, registrata come ai bei tempi, in presa diretta, naturalmente, in valli e campagne: una musica semplice, come una volta, per farci sentire a casa.
Fa parte di questo revival anche l’ultimo disco di El Bastardo, one man band torinese che (da tempi non sospetti, è importante sottolineare) bazzica questo ambiente roots, e che decide di regalarci, in Wood & Steel(questo il titolo, che ha già un certo sapore nostalgico) nove tracce di Blues, Folk, Country dimesso e sincero, onesto e lineare, “registrato col cuore e l’attrezzatura minima indispensabile in mezzo ai cinghiali e boschi della Valsusa”.

Le canzoni sono classiche, ben radicate nel terreno dalle quali provengono. Ci sono quelle malinconiche (“Waiting For”, banjo e voce contrita, o l’arpeggiata “Growing Alone And Fighting”), ci sono quelle più ritmiche e scanzonate (“Boogie Woogie Dance”, sporca e zoppicante, “Friendship is a Fuckin’ Business”, che sembra mostrarsi più ironica), ci sono un paio di cover ( “Out on The Western Plain”, portata al successo da Rory Gallagher – l’originale è di Lead Belly –, “Hit The Road Jack” di Percy Mayfield – conosciuta ai più nella versione di Ray Charles –, e il classicone d’inizio secolo scorso “The Entertainer” di Scott Joplin).
Non è un brutto disco, Wood & Steel, ma a El Bastardo probabilmente mancano la personalità e la bravura tecnica necessarie per sostenere (su disco, perlomeno) tutto questo peso sulle sue sole spalle. Non si viene rapiti da nessun virtuosismo, né si rimane incantati dalla sua voce o dal suo tocco, che forse non sono particolari quanto servirebbe. Non che El Bastardo non sia capace o non conosca ciò di cui si sta occupando, anzi: ma in queste nove canzoni non riesce a far affiorare la sua specificità, il suo valore aggiunto.

Come spesso mi accade quando ascolto dischi di questo tipo, mi risulta sempre molto piacevole la sensazione di genuinità, onestà e sincerità di chi si lancia in operazioni del genere. Spesso, però, purtroppo, ci si ferma lì. Ed è un peccato.

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Mr. Furto & Lady Paccottilla – Water Blues Ep

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Un mondo acqueo e distorto, dove il blu della profondità diventa Blues, disordinato e semplice. Parlo del (piccolo) universo di Mr. Furto & Lady Paccottilla, duo di Cremona (gentiluomo lui, fanciulla lei, basso lui, batteria lei). Water Blues, questo il titolo dell’EP, contiene 5 brani, di cui uno, la title track, sta sotto il minuto e mezzo ed è più che altro (o almeno credo) una scusa per dare il titolo al disco. Si dicono curiosi di capire quale etichetta può venir loro affibbiata: secondo me fanno (per l’appunto) del Rock-Blues con una punta di Lo-Fi (la batteria, dritta e lineare, in primis, ma anche la semplicità caciarona delle linee di basso, distorte e blueseggianti, e la voce, cupa, scura, gonfia – che esce molto bene in un pezzo energico come “Endless Riot”, suona creepy quanto basta in “Stonhead”, nel resto naviga). Insomma, sono tipo i  White Stripes (e glielo avranno detto tremila volte), ma non è solo per il duo uomo-donna con lei alla batteria, è il mix di Rock/Blues/semplicità dell’insieme che porta la mente ai coniugi White. Poi, ok, non ne hanno la follia né il virtuosismo – ma vabbè, stiamo parlando del maledetto Jack White, non ci sono paragoni che tengano.

Mi ha cambiato la giornata, questo Water blues? Non molto, devo ammetterlo. Ma qualcosa d’interessante c’è: saltando a piè pari la prima parte, il disco si eleva all’arrivo di “Endless Riot”, muscolare e ficcante, per poi volare alto con “Kazakh March”, brano che chiude l’EP, e che più si discosta dal modus operandi messo in atto nel resto del lavoro. Meno Blues, più ossessivo, più intrigante (a mio modesto parere).
Insomma, stoffa ce n’è, curiosità di vederli dal vivo pure, manca forse un po’ di delirio, uno scombinare le carte più radicale, più energico. Forza, e avanti con un full lenght. Fatemi sapere.

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A Step To Delirium – First Step BOPS

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Registrato presso il Raw Tape Studio di Perugia, il primo Ep della band, First Step, si presenta come un lavoro ben concepito, strutturato ed elaborato sul piano tecnico. Con chitarre sanguigne, attitudine blues e tanto tanto hard rock, i quattro presentano un sound che cavalca l’onda gloriosa di band che hanno fatto la storia del genere, con un riferimento immediato e costante ai Led Zeppelin. La lezione è appresa così bene che A Step To Delirium pecca della gravissima mancanza di originalità: non c’è nessun elemento nuovo, nessuna rilettura, nessuna innovazione, neppure nella quotatissima e ruffianissima cover di “Helter Skelter” che infilano nel disco. Un primo passo, come dice il titolo stesso, senza dubbio, ma mosso semplicemente sul posto.

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Sadside Project – Winter Whales War EP

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Sadside Project sono un duo romano Garage Bluesgeneratosi nel 2009. La loro gavetta parte quando vincono il Rock Contest in Toscana e firmano il loro primo contratto e giunge fino i nostri giorni passando, come gruppo spalla, per le dieci date italiane del tour di Joe Lally dei Fugazi. Quest’anno presentano il loro nuovo lavoro Winter Whales War dove ci raccontano le loro vicende musicali psichedeliche eccitate dai racconti e dalle storie dello scrittore e marinaio Herman Melville. La copertina la dice lunga. L’album è un insieme di ballate da uomo di mare con il boccale stracolmo di birra e arriva fino alle più dure e inquieti canzoni strettamente Garage. Il viaggio inizia con “Same Old Story” un brano immediato, diretto, energetico. Il giusto tempo per rompere il silenzio che intercorre tra te e l’istante in cui pigi play. Segue “My Favorite Color”splendida ballata dove voce e mandolino evocano un ritornello che si lascerebbe tranquillamente cantare da un pubblico in preda ai fumi dell’alcool. Il disco prende bene e continua con “1959 (The Last Prom)”ballata romantica anni ’50 tutta “cuore a cuore” che lascia spazio alla più altisonante e melanconica “This is Halloween”.Carica, carica, carica è questo che mi trasmette quest’album! E arrivano le più rockeggianti; la cassa dritta di“Edward Teach Better Know as Blackbeard” e  la spartana “Nothing to Lose Blues”.

Proseguono la più psichedelica “Hold Fast” che ci accompagna al pezzo portante dell’album, “Molly”, brano duro e puro che cerca di riportarci sulla terraferma per ricordarci da dove veniamo ma poi ci lascia proseguire con una cover dei mitici Beach Boys, “Sloop John B”. Chiude l’album il pezzo omonimo “Winter Whales War” che con i suoi arpeggi ci molla a casa perché il viaggio si è concluso. Questo è uno di quegli album che si ascoltano tutto d’un fiato, senza pause, in una perfetta onda da solcare in compagnia di quei farabutti dei vostri amici.

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Depeche Mode – Delta Machine

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Delta Machine”, tredicesimo appuntamento sonoro degli inglesi Depeche Mode, non è come gli altri della prosopopeica della formazione capitanata da  David Gahan, ma si allontana dai contenuti seminali della loro storia per abbracciare un blues elettronico mantenendone sempre quelle tonalità scure e di pece, travalicando i territori della loro istintività, ratificando una vena fosca e ossessiva che è – o pare – parimenti attitudine o specchio dei tempi; Gahan, Gore e Fletch con l’avvicinarsi al blues non come sperimentazione ma come nuovo pads da colonizzare, si introducono in una differenza sostanziale che nelle ballad murder e nei suoni profondi, condensati, ritirano fuori quella nozione geografica sonora che ridona respiro e vitalità alle loro genesi per ritornare quei cavalli di razza a rimordere il freno delle grandi e buone cose.

Con i precedenti Playing The Angel e Sounds Of The Universe già si aveva in tasca l’incorruttibilità di una band che col passare degli anni dava ancora gioielli neri, ma ora con questo nuovo lavoro la colorazione si tramuta in un rosso rubino maledetto, una proclamazione di bellezza che tra beat, sintetizzatori, bave sliddate e quel trascinamento lussurioso black come la notte, vive una seconda, terza e quarta vita, bellezza tutta miscelata nella “figurazione e nell’estetica”; con la produzione di Ben Hiller, Delta Machine è una vera macchina sonora, entusiasmi sfumati e una innegabile perizia strumentale, una dimensione in cui i singoloni “Angel” e”Heaven”, il Mississippi che score venoso tra le parole di “Slow”, la dance robotica che graffia il marchio sacrosanto DM “Soft Touch/Raw nerve”, la foschia vasta che annebbia “Alone” o la memoria incancellabile di una Personal Jesus che pare resuscitare dall’hook radiofonico “Goodbye”, sono l’alchimia superiore di una profonda svolta che premia questo disco tra le migliori cose uscite in questi primi mesi del 2013, e non è una esagerazione!

I Depeche Mode non tradiscono mai, hanno nel sangue – oltre che la maledizione del bello – anche tutte le sfumature del nero infinito che altri non hanno e non avranno mai.
http://youtu.be/bxi5MlJFyvE

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Adriano Viterbini – Goldfoil

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Questo disco è il riassunto massimo di Adriano Viterbini e la sua passione per la chitarra che arriva sin alle sue radici. Un disco molto intenso, intestinale, profondo. Dopo aver chiuso il Tour DO IT con i Bud Spancer Blues Explosion, voce e chitarra, che l’ha visto impegnato per tutto il 2012, a dicembre dello stesso entra in studio per registrare Goldfoil album solista, intimo, un lavoro strumentale di chitarra primitiva uscito il 22 Marzo e coprodotto da Bomba Dischi.

Questo disco viene da molto lontano, ascoltandolo ripetutamente mi ha fatto ripercorrere con estrema emozione le origini del Blues e della chitarra. Una storia che ha inizio nel profondo Sud degli Stati Uniti D’America, Louisiana, Georgia, Texas e soprattutto Mississippi uno degli stati più poveri e arretrati del ricco continente. Lontano da tutte le metropoli, solo piantagioni, polvere, baracche e il grande fiume ci da l’idea di marginalità, separatezza e disagio di queste terre. Ed è proprio qui che Adriano Viterbini con il suo Goldfoil ci vuole portare, nella penombra, nel fango dove è germogliata una delle musiche più importanti dello scorso secolo, spontanea, fatta di artisti propensi più a guadagnarsi il tozzo di pane che a essere ricordati nei libri di storia. E come un griot dei popoli africani vuole tramandarci la sua storia fatta anche e soprattutto di Blues. Goldfoil ripercorre i pezzi che più l’hanno appassionato e alcuni scritti di suo pugno in una rielaborazione minimale fatta di vecchie chitarre, tanta passione e qualche sorpresa.

Questo viaggio comincia con la chitarra slide in re aperto, il brano è “Immaculate Conception” e ha il sapore del Cieco Willie Johnson il maestro della slide guitar, per ottenere l’effetto passava sulle corde della chitarra un coltello da tasca. Che dire un grande omaggio ad un grande. Altro brano di Johnson il terzo “God Don’t Never Change”. L’album procede con unaltroomaggio Kensington Blues un brano pieno di arpeggi di Jack Rose, artista americano di privitimism guitar. “Blue Man” è un suo pezzo tributo all’africa e alle origini. “New Revolution Of The Inoocents” è il brano che riporta questa musica ai giorni nostri con il synth di Alessandro Cortini dei Nin Inch Nails perfetto per una colonna sonora western dei nostri giorni. Altre due tracce sono suonate con la style-o guitar “No Name Blues” e “Stylo-O-Blues”veloci, saltellanti un blues frizzante tra Robert Johnson ed il più recente Alvin Youngblood Hart, Seguono quattro pezzi molto ritmati “Lago Vestapol”, “Montecavo”, “Stella South Medley” suonata con una chitarra Stella e “If I Were A Carpenter” che raccontano, come rivela Adriano i suoi viaggi, la sua casa natale e le emozioni più intime che gli hanno lasciato addosso. L’album si chiude con “Vigilante Man” un pezzo di Woody Guthrie con un assolo di chitarra da brividi quasi psichedelico.

Uno straordinario album solista d’esordio che lascia scorrere l’asfalto sotto i piedi in una calda e spensierata giornata estiva in partenza per il Sud, per le origini.

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Mama Suya – Mamasuya BOPS

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Enciclopedici, virtuosi, poliedrici. I Mama Suya, in dieci tracce in bilico tra blues, funk e qualche apertura rockettara e lounge, sanno intrattenere e divertire, ma niente di più. Musicisti raffinati, costruiscono sentieri retrò che pescano da un po’ tutta la storia della musica moderna, ritagliandosi uno spazio che però è limitato all’ascolto diffuso, da elevator music, da albergo. Per carità, i maniaci della musica ben scritta e ben suonata troveranno in questo disco tutto ciò che vogliono: assoli incendiari e pacati, groove intensi e liquidi, atmosfere brillanti e rilassate. Difficile però che vi lasci qualcosa di più dell’istinto di applaudire festosi alla bravura dei tre Mama Suya (ma le tastiere chi le ha suonate?). Mia opinione finale: un incanto per le orecchie che rimane alquanto superficiale (e d’altronde, nemmeno loro nascondono di volersi, prima di tutto, divertire: “L’idea di base è: ‘suoniamo la musica che ci piace’.”). Ascoltateli qui e fateci sapere che ne pensate.

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Geddo – Non sono mai stato qui

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Geddo, cioè Davide Geddo, cantautore ligure d’alta scuola, propone questo Non sono mai stato qui: un disco ampio, strutturato, sfaccettato (14 brani per un’ora e qualcosa di musica) che è praticamente un’enciclopedia del migliore cantautorato italiano. C’è veramente tutto, qui dentro: c’è il Folk, il Manouche, il Blues, il Rock leggero all’italiana; ci sono fiati, duetti vocali, violini, slide guitars, pianoforti. Ci sono canzoni ironiche e briose (“Piccolina”, “Angela E Il Cinema”), episodi più pacati (“La Campionessa Mondiale Di Sollevamento Pesi”, “L’Astronave Di Provincia”, “Venezia”), brani intensi e appassionati (“Equilibrio”, “Non Sono Mai Stato Qui”). Si sentono, in controluce, anche tutti i Grandi: la tradizione ligure, De Gregori (la partenza di “Un Pugno In Un Muro” sembra quella di “300.000.000 Di Topi”).

Non sono mai stato qui è un disco suonato veramente bene, dove gli accompagnamenti non si appoggiano mai, anzi, cercando di seguire le evoluzioni stilistiche del padrone di casa senza mai strafare, senza mai lasciarsi al caso. Insomma, mi ripeto, suona decisamente bene: la produzione è ottima e il livello medio degli arrangiamenti è piuttosto alto.

Devo ammettere che stavo per partire prevenuto, su questo disco: il cantautorato contemporaneo che si rifà più massicciamente al passato rischia spesso di essere una copia sbiadita degli originali, o, peggio, una caricatura in cui toni e movenze tipiche del genere si intensificano fino a sfiorare il ridicolo. Geddo invece mi ha stupito: riesce tranquillamente ad evitare tutto ciò, soprattutto grazie al suo modo di scrivere, che è alternativamente poetico e ironico, serio e divertito, regalandoci liriche a volte intense, a volte simpatiche, ma sempre intelligenti, quasi mai sopra le righe.

Se proprio qualche critica al disco dev’essere fatta, punterei sul rischio della mancanza di originalità, che è ovvio in un tipo di musica che riprende molta della storia passata del genere. E forse sulla voce del Nostro, che è sì versatile, ma non ha il timbro magico di certi cantautori del passato. Ma questo è mero esercizio retorico: prestate un orecchio al caro Geddo e fatevi raccontare una storia o due. Male non vi può fare.

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Bluesaddiruse – Bluesaddiruse BOPS

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Si chiamano Bluesaddiruse, vengono da Napoli e da quella tradizione partenopea che è il Neapolitan power, quel movimento che negli anni ’70 del secolo scorso portava nuova linfa e un sapore internazionale al meglio che la canzone napoletana avesse saputo dare. Fanno un hard rock con influenze funk e blues (tastiere e armoniche come se piovesse), molto uptempo, con qualche incursione in territori diversi (“Senza Feeling), fiati che spuntano qua e là e una voce roca e interessante (un timbro alla Giobbe Covatta): canzoni che ci ricordano che il napoletano è un’ottima lingua per il rock’n’roll, così simile (come accenti e possibilità metriche) al più ovvio inglese. Il disco è prodotto bene e suona compatto e divertente. Niente di nuovo sotto il sole (anzi, sembra di aver viaggiato con una macchina del tempo fino almeno agli anni ’80), ma come si fa a dire di no a del rock in napoletano suonato bene? Nota di demerito invece per quanto riguarda il modo in cui si propongono: la copertina più trash di tutti i tempi e il disco inviato in .wav (peso totale verso il giga…)

https://www.youtube.com/watch?v=g7DIyo7WIx4

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Come Gatti Nell’Acqua – Paranoighnen Activity

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Talvolta i musicisti, volendosi allontanare dalle etichettature e dai generi, affermano che la loro musica non appartiene a nessuna categoria ben definita, quando in realtà esiste eccome. Altre volte invece il genere musicale muta, di album in album, facendo allontanare dei fans, avvicinandone degli altri. Oppure per sperimentare al massimo si cerca di non rinchiudersi in una sola idea, spaziando attraverso le diverse combinazioni musicali esistenti, come hanno fatto quattro ragazzi di Predazzo, che in questa realtà si sentono Come Gatti Nell’Acqua. Affermazione molto chiara e condivisibile, data la condizione odierna della gioventù, sballottata tra l’idea del presente e del futuro assolutamente incerto.Tutto questo viene ben raccontato nel loro primo lavoro Paranoighnen Activity, uscito a dicembre 2012 e accompagnato da una brevissima descrizione del gruppo (“suoniamo pezzi originali, spaziamo un po’ qua e un po’ la e soprattutto ci divertiamo un casino”) formato da Tobia alla voce, Eugen alla chitarra e synth, Trudenji al basso e cori e Dalle alla batteria.

Dieci brani i cui testi fortunatamente dicono qualcosa, a differenza di molti altri gruppi emergenti e non, parlando della fede in Dio, dell’esistenza di altre forme di vita, dell’importanza del lavoro, disensazioni malinconiche, della paura, dell’amicizia e della voglia di sognare.  Tutto questo per il gruppo è un modo di comunicare, spesso in rima, quello che nella vita è importante, non pensando sempre all’idea che la scrittura deve sempre parlare dell’amore, della felicità o della tristezza legata ad esso. Spesso nelle canzoni, soprattutto in quelle più commerciali, è così, ed è una noia assoluta, perché dopo il primo brano non c’è più un’idea originale. Quindi i testi che contengono dei pensieri e delle riflessioni, ben vengano. Testi che in questo album vengono espressi attraverso un cantato poco classico, quasi parlato e talvolta sboccato, non inteso con parolacce, più che altro con finali molto aperte e libera intonazione, ma tuttofa parte del lavoro complessivo anche un po’ Punk, che inizia con una parlata alla Lino Banfi per sfociare in un timbro alla Caparezza in “Funky Cristo”. Si prosegue con “Il Blues Degli Alieni” e tutto, voce e accompagnamento, rimane in questa atmosfera, che subito cambia in “Turbopolka Del Lavoratore, in ritmo ternario e intenzione molto popolare, quasi da sagra (che va messa a punto nel ritmo, che talvolta presenta delle indecisioni). Il Funky e il Reggae si mescolano in “Qui Puoi!” con cori che dovrebbero autenticarsi un pochettino. L’atmosfera rock, invece, prende piede in “Botte e Lividi, quinto brano che all’inizio sembra ricordare Vasco Rossi ma poi cambia tangente quasi verso i Deep Purple, come in “Scimmia Maledetta”, simile alla precedente, ma più comprensibile come urlo di sfogo, nel suo breve esistere. “Come Gatti Nell’Acqua, settimo brano dell’album, si apre con un arpeggio suonato sotto il lamento sembrerebbe di un bimbo, che subito scompare per cedere lo spazio al ritmo e cantato incisivo e veloce. “Vampiri” e “Tante coccole” invece, dopo degli intro strumentali abbastanza presenti, si muovono in atmosfere rock, con sonorità simili a tastiere hammond nella prima, e metal che sfocia nello Ska nella seconda, allontanandosi dall’immaginario del titolo che fa presagire una ballata. E per finire “Tu Vuoi Ballare Con Me” è l’ultimo brano che chiude questo lavoro, che per certi versi ha tanti pregi: generi disparati, completamente diversi ma coesistenti, scrittura significativa dei testi e organizzazione musicale pensata. La voce e il colore degli strumenti non fanno impazzire, a differenza della grafica di tutto il disco, molto moderna e particolare, ma questo dipende solo ed esclusivamente dai gusti personali.

 

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