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Bandit – Crash Test

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In quel di Milano il settore artistico non conosce domeniche e propone di recente un nuovo interessante lavoro: Crash Test. Un disco scritto ed interpretato da Paolo “Bandit” Bandirali ed arrangiato da Luca “Bitti” Cirio, firmato Bandit. Il lavoro si sviluppa in una tracklist lunga nove click di Folk Rock, caratterizzato da testi impegnati (che a tratti rimanda al Rock n Roll di Bennato). Nella prima parte del disco, in particolare, si caratterizza per un alternarsi di musica ed intermezzi parlati (che richiama lo stile live degli Zen Circus), che fanno da introduzione alla traccia a seguire. Di certo una trovata molto originale (ed un’ottima opportunità per dar spazio ad un po’ di sano sarcasmo), che tuttavia spezza un po’ troppo l’armonia stessa del disco, portando l’ascoltatore allo skip degli intermezzi già a partire dal secondo ascolto del disco. Ciononostante, siamo innanzi ad un lavoro piuttosto maturo e che si fa ben ascoltare dall’inizio alla fine. L’album di debutto sembra avere seri intenti comunicativi. I temi, di elevato impatto con l’attualità, ruotano costantemente intorno al tema della vita, spaziando da intellettualismi del saper vivere, a romanticismi della necessità di amare (riprendendo al riguardo un amore a lunga conservazione già cantato dai Marta sui Tubi in “La Spesa” ben sei anni fa), a malinconiche, statiche prese di coscienza dell’io. Si esce fuori tema in traccia sette (“Quando C’Era Lui”), che, mio malgrado, suona un po’ come una nota stonata in un disco di così elevato contenuto morale. Non tanto per lo strumentale, il quale mantiene la sua vena accattivante, quanto per il testo, che la rende il vero neo del disco. Politica e musica sono due arti differenti: cantare la politica è un po’ come cantare un dipinto.

Il lavoro esordisce in prima battuta con “La Crisalide”, che senza dubbio merita qualche riga. Lo strumentale, impegnato in ritmiche Country e Folk che si fanno ben apprezzare, viene poetizzato attraverso un testo ricercato e di certo non banale. Il perno è il crivello del vivere la vita, del se è giusto o sbagliato viverla secondo lo standard collettivo. Ed all’interrogazione a scuola, nasce bene la risposta mi scusi prof ma io non ho tempo da perdere, meglio essere crisalide che ha tempo ventiquattr’ore per vivere al meglio. La scelta di aprire il disco con un pezzo così ben lavorato è (volutamente o meno) strategica e conduce inevitabilmente all’approfondimento dell’intero lavoro. La strategia si mantiene sofisticata, approdando alla terza traccia e realizzandosi stavolta attraverso uno stile cantato pressante che fa subito pensare al timbro martellante del Cristicchi (ancora una volta un forte riferimento). Il tema della vita accompagna una buona parte del disco, ritornando anche nella traccia numero cinque (che dà il titolo al disco). Stavolta si toccano le corde della malinconia, garantendo un inevitabile rifugio a chi l’ascolta. D’altra parte, la vena malinconica accomuna un po’ tutti ai giorni nostri. Ciò non toglie che siamo innanzi ad un buon lavoro, che merita molto più di un ascolto. Ottima sintesi del disco.

Il disco si chiude quindi con un mix fra il sound di Samuele Bersani e la versione Folk di Brunori Sas, addobbato ancora una volta con un testo che lascia ben poco spazio alla polemica. Il tema della vita che ha aperto il lavoro si ritrova così a ricamarne i titoli di coda con un richiamo lungo 4’02’’. Un gioco di parole lungo una canzone intera, lavorato al dettaglio fra assonanze e rime prepotenti che in modo instancabile chiamano all’appello la vita. Titolo: “La Vita”. Ed è così che il prologo si confonde con l’epilogo attraverso un piccolo dettaglio, che genera una ciclicità all’opera che si fa molto apprezzare. Dettaglio che, in questa sede, non trovo onesto svelare, ma che a parer mio, è una trovata prossima al geniale. Fossi al bar a parlar con amici, direi che è un ottimo disco, consigliandone l’acquisto (consiglio che, scoprendo gli altarini, dispenso anche a me stesso). Ma qui siamo alla correzione dei compiti di inizio anno e la severità non può essere opzionale. Il paroliere Paolo “Bandit” Bandirali meriterebbe senza dubbio un voto alla portata dei suoi ricercatissimi testi, ma il consiglio ha deciso di provocare la sua vena artistica, portandolo appena oltre la sufficienza. In rosso sul compito ho dovuto segnare le troppe ispirazioni mal celate. La musica è un tema, non un testo di reportistica.

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Voglia di X-Factor? Fattela passare. Rock the Monkey!

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Rockthemonkey

Rock the Monkey! Manuale di sopravvivenza per non perdersi nel mondo della Musica.

Oggi più che mai, causa l’avvento e l’affermazione dei più disparati reality di carattere musicale, sempre più paiono i giovani cantanti decisi a intraprendere la “carriera” del musicista ma, allo stesso modo, tantissimi, forse la maggior parte, finiscono per perdersi nelle delusioni, nelle illusorie speranze, nella fama che dura un attimo, nella scarsa preparazione. Pochissimi sono i veri talenti tirati fuori da questi pseudo talent show e probabilmente saranno più i veri talenti che per colpa di questi talent show hanno rinunciato per sempre a scavare nel proprio Io alla ricerca del meglio di se e a intraprendere le strade migliori per far sì che questo talento potesse realmente venire fuori. Per cercare di indirizzare i ragazzi più capaci verso la via ripida e faticosa che rende veri artisti, David A. R. Spezia e Massimo Luca hanno realizzato un manuale che consigliamo vivamente a tutti questi ragazzi, pieni d’idee e con la passione che poi è la stessa che muove anche noi. Per capire meglio di cosa si tratti, abbiamo intervistato i due autori di questo Rock the Monkey!.

Ognuno di noi ha sognato, almeno una volta, di diventare una rockstar. Ma la musica non è solo un sogno, per tanti è una “scimmia” in grado di creare dipendenza e di trasformare chiunque in un perenne cercatore d’oro. Quanti hanno messo in piedi una band con gli amici e hanno iniziato a muoversi nell’universo musicale italiano: i pezzi scritti in saletta, la ricerca di locali dove suonare e di un’etichetta discografica, con l’obiettivo di far conoscere il proprio talento e diventare famosi.

Ciao David A. R. Spezia (scrittore) e Massimo Luca (musicista al fianco, tra gli altri, di Battisti, De André, Mina, Bennato, Dalla, Vecchioni, oltre che compositore e produttore di talenti come Grignani e Antonacci). Come state? Andiamo subito al dunque. Rock The Monkey, un manuale per diventare una Rockstar. A chi è venuta questa idea e perché soprattutto?
David: la scintilla l’ho avuta una mattina. Erano vent’anni che non sentivo Massimo. Ho recuperato il suo numero di telefono da un amico comune e l’ho chiamato. Lui si è ricordato subito.  Io sono stato molto diretto, devo dire, col senno di poi. Gli ho chiesto: “Massimo. Vuoi scrivere un libro?”. Dopo aver spiegato a grandi linee il progetto, ha subito accettato. Qualche giorno dopo ci siamo visti e abbiamo cominciato. Il libro ha preso immediatamente la sua impronta e l’idea è stata sviluppata e portata avanti grazie alla sua grande esperienza nella musica. Come scriviamo nel capitolo intitolato ”Intro”, siamo diventati una chimera. La fusione di due entità: lo scrittore e il musicista. Da qui è nato il nostro libro.

Massimo: Sì, oggi tutti vogliono apparire e lasciare una traccia di se stessi sulla Terra. Questa è una vera e propria sindrome! La causa va attribuita ad una televisione populistica che lancia in modo più o meno evidente messaggi che esasperano troppo il senso dell’edonismo! Il libro/manuale cerca di riportare il lettore in una dimensione normale raccontando quello che sino a qualche anno fa è stato il mestiere più bello del mondo. Il messaggio è evitare di fare i fenomeni da baraccone e migliorare la propria personalità artistica attraverso lo studio e la conoscenza fino al raggiungimento di uno stato di eccellenza. La scimmia? È la passione che non ci fa sentire la fatica. È una donna che ami senza essere riamato!

Ho letto il libro e, vista la presenza di David A. R. Spezia, mi aspettavo una narrazione meno schematica, quasi più un racconto dentro il quale s’inserissero le vostre idee. Invece si tratta proprio di un manuale, nel senso più classico del termine. Come mai questa scelta narrativa?
David: io direi che la scelta della prima persona nella narrazione, abbia portato il libro a essere meno “saggio” e più “manuale esperienziale”. È vero che si trovano pagine dedicate ai trucchi del mestiere, magari con elenchi di cose da fare e da non fare, però in tutto questo si inseriscono aneddoti della vita di Massimo: le sue esperienze dirette con Lucio Battisti per esempio, o di come abbia portato Gianluca Grignani al successo del primo album. Il libro vuole dare consigli, senza essere però pretenzioso. È come se qualcuno mi raccontasse la sua vita: ciò che una volta accadeva nelle botteghe degli artigiani nei confronti del garzone. Oggi questo non esiste più: ognuno fa musica e pretende di farla senza aver voglia di imparare l’arte e il mestiere.

Personalmente non sono mai stato un grande amante dei “manuali”, quei libri che pretendono di dare risposte, preferendo i testi che favoriscono il dubbio. Tuttavia in Rock The Monkey c’è qualcosa di diverso. Cosa lo distingue sostanzialmente da un manuale per smettere di fumare, uno per perdere peso, e cosi via?
Massimo: in effetti, non è un vero e proprio manuale; il titolo è ammiccante, quasi umoristico! In realtà, a parte alcuni consigli dovuti dall’esperienza, è un passaggio di testimone tra due generazioni che sono abbastanza distanti! Qui nessuno insegna niente a nessuno! Ho voluto “restituire” il dono che ho ricevuto quando ero poco più che un ragazzo. Il “dono” è tutti gli insegnamenti che i “vecchi” mi avevano regalato e che hanno contribuito non poco a far divenire la mia carriera quasi leggendaria. Dopo cinquant’anni ho voluto restituire ai più giovani questo “dono”.

Nella scrittura ho notato alcune cose caratteristiche. Esempio, frasi brevissime, tanta punteggiatura e “a capo”. Una fluidità anche eccessiva talvolta. Inoltre, molte note talvolta elementari e ripetizione dei concetti (cosa che nei manuali si nota spesso). A cosa è dovuta questa scelta espressiva?
David: il motivo è che quando si chiede a qualcuno di insegnarci qualcosa, questa persona deve cercare di esprimersi in maniera diretta e semplice. Ogni concetto deve essere fissato con pochi e facili termini. Ripetuto più volte per essere metabolizzato. Visto che la narrazione è sempre in prima persona, bisogna immaginare che è come se ci fosse Massimo a parlarmi in quel momento. Quando c’è dialogo, difficilmente si hanno frasi lunghe, tortuose, “teatralmente compite”. Non sarei alla scuola di un artigiano, al contrario, sarei alla lezione di un professore che non farebbe altro che conciliare il sonno. Per quanto riguarda le note, invece, il motivo deriva dal fatto che il libro è davvero pensato per tutti, anche per chi non sa niente della musica. Cose che per i quarantenni sono normali, per i ventenni non lo sono per niente.Chiedi a un ragazzo chi era De Andrè.

A chi si rivolge il volume? Avete pensato a qualcuno in particolare o a una categoria precisa quando avete deciso di scriverlo?
David: Rock The Monkey! è per tutti. È per i musicisti che vivono di musica. Per chi ha tentato la strada della musica e oggi fa altro. Per chi vuole iniziare questo percorso e non ha la minima idea di quello che lo aspetta. Soprattutto, è un manuale di vita che raccoglie aneddoti e pensieri di anni di palco e retropalco in un periodo in cui la musica era spumeggiante, viva, prepotentemente alla ricerca di se stessa. Mi ha fatto piacere leggere il commento di una lettrice, non musicista, che ha scritto che il libro è una “scusa che ti fa capire come affrontare la vita”.

Nel libro si afferma giustamente l’idea che, chi ama la musica, non dovrebbe inseguire il successo. Ma in fondo chi ama fare musica desidera anche condividere le sue emozioni e il successo è l’estremo della condivisione. Dunque, sono veramente cosi antitetici la passione vera per la musica e la voglia di inseguire il successo, inteso non in termini economici ma di pubblico?
Massimo: dico sempre che il successo è “dentro” di noi. Ricordo che negli anni 60 il successo lo decretava il pubblico quando ascoltava un complesso o un cantante. La balera “piena” di gente era il successo. Significava continuità, e la continuità significava sopravvivenza! Nessuno di noi ambiva a fare dischi! Noi volevamo solo “lavorare”, cioè suonare sopra un palco sapendo che domani ci sarebbe stato un altro palco e così via. Il disco era la fase terminale del progetto artistico. Quando centinaia di migliaia di persone conoscevano quel tal cantante o gruppo, mettere un disco sul mercato voleva dire averlo già quasi venduto! Oggi la televisione parte da quella fase terminale, e cioè al contrario. Si parte dal “successo” per finire a casa propria senza che nessuno noti che siamo scomparsi. E questo perché il “gioco” prevede un nuovo vincitore. Se questa è una carriera!

Altra cosa, parlate giustamente di live e indicate questa come una delle strade migliori per fare la necessaria gavetta. Eppure (anche noi con Streetambula organizziamo eventi) non tutti riescono a trovare spazi e date, vuoi per la concorrenza spietata di Tribute Band e Dj improvvisati, vuoi perché al pubblico della musica interessa meno che mai, vuoi perché pochi sono i locali attrezzati, vuoi perché pochi sono i gestori appassionati (molti i localari, come li chiamate nel manuale). Come si può indicare un problema, come la soluzione?
Massimo: localari a parte (c’erano anche cinquant’anni fa!) il problema vero, a mio parere, è la qualità del repertorio! Oggi quasi nessuno è più in grado di scrivere una canzone di quelle che si canteranno tra trenta o quarant’anni. E quindi si capisce il successo della “Tribute Band” che replica a papera un successo già conclamato dall’originale! La gente ha bisogno di cantare le canzoni e quelle di oggi sono solo note che si inseguono spesso senza nessun talento o logica artistica. Un giorno qualcuno disse che TUTTI potevano scrivere una canzone e il risultato è purtroppo visibile! E visto che sognare non costa nulla,immaginiamo un ragazzo in una balera qualunque di periferia che canta una nuova canzone tipo “La canzone di Marinella” o “Fiori rosa, Fiori di pesco”. La gente sgranerebbe gli occhi dalla sorpresa, esattamente come avevo fatto io quando ho sentito i Beatles dal vivo nel 65.

Personalmente ho notato un certo addolcimento del Rock moderno, meno propenso a esprimersi con aggressività, sia musicale sia testuale, specie in provincia. Quanto questa tendenza può essere data dal fatto che è più difficile suonare per chi sceglie strade di questo tipo? Stesso discorso per la sperimentazione. Chi osa e cerca veramente di essere originale ha meno chance e porte cui bussare?
Massimo: il Rock moderno non esiste! Non c’è più Rock, tantomeno in Italia! Dico sempre che il Rock non è una chitarra “distorta”. Il Rock è una filosofia di vita. Il Rock, quello vero, aveva testi dissacranti, quasi pornografici. Simulavano l’orgasmo! Quello di oggi è vile Pop mascherato con chitarre “power” che simulano il SUONO del Rock ma che Rock non è. La responsabilità dei nuovi “mostri” sacri attuali è grave! Loro (forse) sanno la verità ma se ne guardano bene dal divulgarla. C’era molto Rock nelle canzoni di Bob Dylan, anche se non c’era “rumore”. Oggi c’è molto rumore per nulla! A mio parere Vasco è più rock di quello che scrive.

Nel testo, a un certo punto, fate una lunga carrellata di artisti italiani, da Vasco a Grignani. Mancano però nomi nuovi. Chi sono gli artisti che, seguendo la strada indicata nel manuale, oggi possono dirsi delle Rockstar? Intendo artisti giovanissimi.
David: dipende sempre dal concetto di “Rockstar”. Se con questo termine intendi il successo e il conto in banca, direi che ce ne sono parecchi di esempi, oggi. Come diciamo nel libro però, il successo non si misura in una stagione. Bisogna ragionare in anni. Abbiamo inserito una lunga carrellata di vincitori dei due talent televisivi più seguiti: è curioso leggere i nomi delle prime edizioni e vedere, in chi ti sta di fronte, l’espressione tipica del “non l’ho mai sentito”. C’è poi qualche altro vincitore che è finito a fare spot per operatori di telefonia mobile. Nomi nuovi non sono citati nel manuale semplicemente perché riteniamo sbagliato prendere ad esempio una carriera magari di due, tre o quattro anni. Se ragioniamo in questi termini, la vera sfida sarebbe decidere chi lasciare fuori. Il concetto di “Artista” è molto più ampio: “è uno stato genetico immodificabile” che prescinde dal look e dal successo.

Massimo: ho letto qualche giorno fa su un quotidiano che presto uscirà un film sulla vita e il successo di Marco Mengoni! Come Jim Morrison dei Doors! (ride ndr)

Perché la musica di qualità, che si tratti di Rock, Musica Leggera o Avanguardia, fa cosi fatica a emergere e attecchire?  Di chi è la colpa della mancanza d’interesse del pubblico per la qualità ma anche per la novità, sia nella musica sia nei nomi?
David: dipende dal grado di attenzione. Oggi solo una minoranza silenziosa ha l’interesse di approfondire un concetto per arricchirsi. La maggioranza è tracotante, rumorosa. Viaggia in terza corsia con gli abbaglianti accesi e suonando il clacson per sorpassare.Siamo tutti costantemente disorientati da mille stimoli. In un contesto di questo tipo, chiunque voglia affermarsi deve urlare più degli altri e utilizzare l’unico mezzo che consente di farsi notare in poco tempo: la televisione. E siccome l’interesse è poco, l’approfondimento nullo, l’affezione inesistente, il pubblico non potrà far altro che spostarsi sulla prossima novità.

Massimo: David ha espresso bene il concetto. Aggiungo solo che ogni anno nel nostro paese ci sono quindici milioni di download di suonerie stupide e banali. È la cultura, il massimo comun denominatore della qualità della vita di un popolo. È un problema anche politico.Vivere senza cultura è come affrontare il polo nord con le infradito!

Supponiamo che 1000 cantanti leggano il vostro libro. Quanti di questi pensate onestamente che possano seguirne i dettami? E quanti riusciranno veramente a suonare senza dover fare altro nella vita?
David: su mille che lo leggeranno, mille lo faranno proprio. Di questo sono convinto.Non è facile avere il tempo di leggere oggi. E quindi, chi si prende l’onore di acquistare un libro, significa che è già mentalmente predisposto a investire del tempo su se stesso. Basta solo un concetto, uno solo, che sia rimasto e per me sarà già un enorme successo.

Massimo: David è molto ottimista e voglio esserlo anch’io! Però resta il fatto che statisticamente i giovani non leggono giornali né libri tranne quelli di Fabio Volo! Speriamo almeno nei musicisti e nei cantanti “contaminati” dalla “Scimmia”!

Nell’ultima parte del libro, parlate della figura dell’artista, in musica, ma sembrate tenere fuori tutta una serie di tipologie come gli sperimentatori (quest’anno non posso che citare i Nichelodeon, i Deadburger, gli InSonar as esempio) che, raramente riempiono stadi o scrivono “canzoni”. Ci vorrebbe un altro manuale per chi vede la musica sperimentale come la propria strada?
David: il libro va proprio in questa direzione. Non esiste un prototipo di artista o musicista. Nel libro citiamo l’”olimpo degli dei”, volutamente scritto in minuscolo, per indicare quel luogo cui tutti aspirano. L’olimpo non è un QUANDO – quando sarò famoso -, ma un DOVE, proprio per indicare che il successo nasce da noi stessi e non da fattori esterni, come la riconoscenza del pubblico. Grazie all’esperienza di Massimo, abbiamo descritto situazioni di vita vissuta. Di com’era la musica quando esisteva ancora un percorso artistico. Di com’è diventata oggi. Chiunque faccia “ricerca”, sia essa sperimentale o tradizionale, sposa la filosofia di “Rock The Monkey!”, perché è alla Scimmia della Musica che noi guardiamo, non al linguaggio utilizzato. Per questa ragione, stiamo organizzando seminari nelle scuole (non solo di musica): a febbraio saremo in due eventi in una delle più importanti scuole milanesi, davanti a ragazzi di medie e liceo. E in futuro vedo benissimo una collaborazione con chiunque sperimenti percorsi alternativi di musica, anche in queste occasioni di “testimonianza” per i giovani.

Massimo: concordo con David e ribadisco che il successo è dentro di noi. Cioè tutte le volte che riusciamo a “catturare” nel buio cosmico un gruppetto di note che insieme formano una grande melodia. Anche Battisti era uno sperimentatore, ma è stato anche un artista molto popolare. Sperimentare non vuol dire “ora faccio qualcosa che capiamo in pochi”. Questo è bieco provincialismo!

Grazie mille della disponibilità.
Ditemi quello che avrei dovuto chiedervi e non vi ho chiesto. Poi, se volete, rispondetemi.
David: cito due frasi di Rock The Monkey! a me particolarmente care: “Se sarai tu a cullare la scimmia, avremo vinto” e “tutto il resto è da raccolta differenziata”.

Massimo: ma chi è ‘sto Massimo Luca?

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Sestomarelli – Acciaierie e Ferriere Lombarde Folk

Written by Recensioni

Mai sazi di musica dal sangue caldo, mai stanchi di andare a tempo con le lotte della vita e mai fiacchi di volontà alla ribellione dai comandi. Sono quelli del “combact folk ibrido” e sono quelli che in questo momento lo interpretano meglio di chiunque altro. Da cover band a band inedita a tutti gli effetti, il combo dei lombardi Sestomarelli è la personificazione dell’impegno “contro” immutato, e Acciaierie e Ferriere Lombarde Folk è l’ufficialità della loro “fede”, il primo disco per portare alla massa un nuovo terremoto di suoni, complicità e ritmi indiavolati.

Un lavoro dalla duplice anima che giunge ad animare di nuova linfa i già rodati live act del “non ci stò”, dieci tracce che appena messe in moto non smettono di far ballare, sognare, viaggiare con orecchie, cuore e cervello, canzoni nuove che parlano di oggi e ieri, moderno e  antico, storie di pace e guerra, d’amore, attualità, sogni e collane sgranate, rosari da imprecare e venti d’Irlanda che soffiano sulle idee dei cambiamento e sugli odori acri di acciaierie e ciminiere, ghise e mani sporche di lavoro che vorrebbero accarezzare un futuro e che per il momento si accontentano di sognarle; con i Pogues sugli altari delle rimembranze, i Sestomarelli agitano divinamente la circolazione ematica con le loro storie mediate e metaforiche, compongono un quadro d’insieme che rappresenta un deciso passo in avanti nel definire il patrimonio di canzoni (quello che gli anglosassoni definirebbero songbook) della formazione e nel consolidare – già da adesso –  il loro percorso da protagonisti nella moderna canzone Folk meticcia.

Ballate, prese rapide di ingegno Jiga’n’Roll “Lasciami Sanguinare”, “Gli Stones (come dicono)” caracollii, polveri d’un Bennato d’antan “Che la Festa Cominci”, “Briciole”, suggestive cantautorali  ora acustiche ora elettriche “Lo Strano Caso Del Signor Rossi” e una travolgente maturità di orizzonti sonori con pogo sfrenato come bagaglio a mano, sono le costanti febbricitanti che questi Gogol Bordello con la tuta firmano con tutto il meticcio possibile che si possa trovare ora in circolazione; tutte coordinate artistiche che questo combo armato di simpatia, turbini e cavalcate senza sella sottolinea come una botta di vita se non addirittura come benzina per corpi e cervelli intorpiditi da cretinerie seriali.

Cercate canzoni sdolcinate, disimpegno o effimeri suoni alla moda?  Fate jogging più in la grazie!

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Finley

Written by Live Report

Mentre entro al LiveForum di Assago, dove a breve saliranno sul palco i Finley per il FUOCO E FIAMME TOUR 2013, penso che io, di loro, non so proprio nulla. Come tutti, mi è capitato di ascoltare qualche loro singolo dei tempi che furono, ma adesso che hanno abbandonato la EMI per fondare la loro etichetta Gruppo Randa sono curioso di vedere se e come sono cambiati. In ogni caso, questa mia ammessa ignoranza mi permetterà di vivere il concerto da un punto di vista assolutamente neutrale, che con band del genere è già un grande risultato.
Una volta dentro, mentre la band punk-rock romana The Anthem finisce di scaldare gli animi, la prima cosa che mi balza all’occhio è la multiforme umanità che riempie il locale. Il mistero statistico che mi perseguita in queste ore non è tanto quali strati sociali abbiano votato o meno il M5S, o quante probabilità ci siano che il prossimo Papa sia nero, ma più che altro come si sia riuscito a comporre questo miscuglio di gente varia al concerto dei Finley. Mi aspettavo più che altro ragazzine e ragazzini, o magari qualche ventenne a cui i quattro di Legnano hanno suonato la colonna sonora dell’ingresso nella pubertà. Ok, i cinquantenni saranno accompagnatori/genitori, ma quella coppia di trentenni tatuati coi vestiti firmati? L’hipster con gli occhiali giganti? Cosa ci fanno qua? Mistero.
Intanto, The Anthem finisce il suo set di musica innocua e cover di Bruno Mars, e l’aria si fa più pesante. Ed ecco che dopo una pausa di un venti minuti buoni salgono sul palco i Finley: boy-rock-band prodigioprodotta, ai tempi, da Claudio Cecchetto, vincitrice di ben due Best Italian Act agli Mtv Europe Music Awards, con alle spalle partecipazioni a Sanremo, dischi di platino, eccetera.

Esordiscono con un simpatico “lasciatemelo dire, gente… Minchia!”, anche se in realtà il pubblico non è così numeroso (sarà nell’ordine delle trecento persone – e io che pensavo che i Finley potessero riempire quantomeno, chessò, l’Alcatraz). Le prime canzoni passano senza lasciare troppo il segno, prese in egual misura dai vecchi dischi e dall’ultimo Fuoco e Fiamme. È un rock abbastanza banale, morbido, inerme, musicalmente distante dal mondo punk-rock o pop-punk al quale, non conoscendoli, mi aspettavo di collegarli. A livello lirico, le banalità aumentano: tra i primi pezzi, “La Mia Generazione”viene presentata come un inno alla partecipazione (politica, immagino). Pedro ci informa che “hanno sempre detto che noi giovani siamo un problema, quando invece siamo una risorsa”, mentre in realtà nessuno s’è mai sognato di dire una cosa del genere (per quanto i fatti poi smentiscano tutte le belle parole). Sa tanto di operazione paracula, ma inizio a pensare che in questo tipo di ambiente ci sguazzino un po’ tutti, nella paraculaggine.
Mentre ci presentano il nuovo bassista Ivan (il vecchio, Ste, ha lasciato la band da qualche tempo), ci informano anche dell’uscita di un disco-raccolta, Sempre solo noi, che riepiloga i dieci anni di vita della band. Una band che, sinceramente, mi aspettavo più battagliera, più tecnica, più frizzante. Tolta la bravura indubbia del batterista Dani, e qualche uso intelligente della chitarra da parte di Ka, il resto non è di certo al livello che mi aspettavo per una band di questa portata. Forse in Italia, per fare successo, davvero basta un calcio in culo.
Pedro inizia a sbarellare su “Le Mie Cattive Abitudini”: la voce non risponde come dovrebbe, e le vocali finali iniziano a calare inesorabilmente. Brutti scherzi della stanchezza. Parte poi un medley di loro vecchi pezzi, tra cui la versione crossover di Dentro alla scatola, cover del successo d’esordio di Mondo Marcio, con il quale si erano gettati in questo featuring “all’americana”. Segue momento di vuoto e breve pausa, in cui tutti scendono dal palco tranne Dani, che si lancia in un divertissement di batteria e basi, molto electro, dimostrandomi ancora, se non altro, di essere un musicista capace, alla bisogna, di non risparmiarsi.

Le basi rimangono spesso, sotto la botta live, a riempire il suono di una band comunque scarna (batteria, basso, chitarra). Così fanno anche in “Ad Occhi Chiusi”. C’è da dire che il LiveForum non rende proprio al 100% per quanto riguarda l’audio, che spesso è confuso, distante (ci si mettono pure le ragazzine, con i loro urletti striduli, a far diventare il tutto ancora più incasinato). Una fonte mi ha informato, tra l’altro, che i Finley, per questo live, non si sono portati dietro neanche un loro fonico personale (e la cosa ovviamente non aiuta).
Proseguendo, Pedro vuole ricordarci che, cinquant’anni fa, usciva il primo singolo di una band, “quattro, belli(sic), bravi, destinati a cambiare la storia del rock”. I quattro sono ovviamente i Beatles, e i Finley ci donano la loro personale interpretazione rock di “A Hard Day’s Night”. A seguire, un ringraziamento a Bennato per aver partecipato al loro ultimo disco in “Il Meglio Arriverà”, che prontamente eseguono, tra basi di armonica e mie definitive riflessioni sulla parabola discendente del rocker napoletano.
Mentre il concerto evolve, io continuo a guardarmi intorno. Davvero, la fauna presente mi sorprende e incuriosisce. Ragazzi più che ventenni, tatuati, con magliette dei Led Zeppelin, o di Jimi Hendrix, che ballano urlando. Io non capisco. Se sono venuti qua per scopare, non avranno vita facile: la maggioranza dell’ecosistema femminile della sala è gente che sembra uscita da una fiction della Rai degli anni ’90 sugli effetti devastanti dell’eroina nella provincia italiana. Mentre penso questo, mi passa accanto una stangona dal pantalone maculato, bionda, truccatissima, col pass al collo. Ecco, penso, ribaltando il ragionamento: se i Finley, facendo tutto questo, non riescono nemmeno a scopare, sono, senza appello, dei veri loser.

Tornando alla musica: i quattro si buttano su “Bonnie E Clyde”, e quando terminano, col fiatone, ci informano di essere stanchi: “dovremmo iniziare a drogarci, ma le droghe non ci interessano”… Ciononostante attaccano con “Fantasmi”, “l’ultima!”: ovviamente no. Dopo la pausa (riempita dai cori del pubblico che intona “Diventerai Una Star” a cappella), ecco l’encore: in versione acustica, con ospite il violinista Roberto Broggi, introducono la loro entry per la compilation benefica di Punk Goes Acustic (“un gruppo di oltre 30 musicisti emergenti italiani uniti dalla passione per il genere punk”), una versione quasi-folk di “I Fought The Law”dei Clash (non male, per niente, anche se Pedro e l’inglese non paiono andare molto d’accordo…).
Il resto del concerto è già scritto: mancano quelle tre/quattro canzoni fondamentali (questo, almeno, è quello che mi dice gente più informata di me). Ecco infatti che parte Adrenalina, con relativo pogo (giuro!) di qualche tipa sovrappeso che rischia, nonostante il mio quasi metro e novanta, di sdraiarmi a terra come sogliola nel mar. (Che se questo è pogo, ai concerti dei Sick of it All è guerriglia urbana). Fumo e Cenere calma gli animi: tutti si fermano per cantarla. Un brano morbido, italiano (come direbbe Stanis LaRochelle), azzeccatissimo come penultimo della scaletta.
Infine, ecco scattare “Diventerai Una Star”: ed è subito adolescenza condivisa. Che poi la domanda che mi faccio è: cosa dice una canzone del genere al pubblico dei Finley? Dove scatta la mimesi? Cosa ci trovano, di loro, in quella canzone, che alla fine parla di una band che vuole fare successo? Posso capire che possa raccontarti qualcosa se fai (o provi a fare) il musicista. Ma per tutti gli altri, che senso ha cantare a squarciagola “diventerai una star / una celebrità…”? Un altro mistero che si aggiunge ai tanti che mi infesteranno la mente stanotte.

Chiudendo il concerto con un ennesimo “Raga, è stato fantastico” (segnare: firmare proposta popolare di legge sul divieto dell’uso pubblico del termine “raga”), seguito da “siete voi che supportate questo progetto indipendente, che ci fate sopravvivere, giorno per giorno”, i Finley mi lasciano una sensazione strana addosso.
Crederci o vendersi? I Finley ci credono, nella loro infinità banalità, o è più un “teniamo famiglia”, un “si deve pur vivere”, che, intendiamoci, in un mondo in cui la musica è mercato, è totalmente e senza dubbio legittimo? Non so cosa sarebbe peggio, nella mia Weltanschauung in cui la musica è, oltre che un mercato, anche un qualcosa di morale, qualcosa che mette in ballo le profondità – abissali – delle persone (e vale anche per il pezzo più pop e meno “impegnato”, se fatto bene).
La cosa peggiore non è tanto responsabilità della band, che fa il suo mestiere tutto sommato bene, suonando ciò che vuole (per un motivo o per un altro). La cosa peggiore è la gente che, per mancanza di strumenti intellettuali, o, peggio, per scelta, sceglie di annullarsi, di appiattirsi, a mani alzate sotto un palco. È questo morbo della facilità, per cui se i Finley ti dicono che in Italia i giovani sono considerati un problema tu applaudi e urli, ma in realtà non ti rendi conto che, detta così, è un’immane cazzata, e soprattutto non ti stai confrontando con l’aspetto reale del tema che quelle parole (in modo pessimo) suggeriscono. E badate bene che non è tanto questione di Finley, ma vale anche per altre situazioni di fanatismo (mai stati ad un concerto milanese dei Ministri? Con la sola attenuante che, se ti sei convinto, criticamente, che ciò che dicono sia giusto, almeno è l’idea a convincerti, e non una maschera, un trucco, una finzione: non è solo il potere del palco, quel meccanismo per cui un concerto è, ricordiamolo, una comunicazione a senso unico, dove il pubblico è, sempre e comunque, passivo).

Mentre torno a casa ho una visione: la mia coscienza politica che si palesa in un fantasma, uno strano incrocio tra Antonio Gramsci e Obi-Wan Kenobi. Mi dice: “la dittatura è nei gesti. L’Impero è un concerto dei Finley”. Io lo guardo, sconsolato, e scuoto la testa. È da quando esiste il rock’n’roll che esiste il fanatismo, l’idolatria, lo strapparsi i capelli, il dio-mio-quanto-so’-fichi. Anzi, che dico? Da quando esiste l’Uomo, da quando il nostro antenato nudo e peloso si è alzato sul monolite per agitare la sua accetta di selce e, così, eccitare la tribù prima della caccia. Ad ogni modo, non è certo mia intenzione farmi additare come un Mosè che scende la montagna e distrugge il vitello d’oro (già li vedo, i fan dei Finley – i fanley? che pensano “ma che cazzo vuole ‘sto qua?niente, ragazzi, si fa per dire). Sto tranquillo: so già che domani mi sveglierò e questa strana sensazione sarà svanita. D’altronde, come mi ha detto un amico, “ti fai troppe seghe mentali, sono i Finley, fanno le canzoni alla LEGO” – e no, non riesco a dargli torto.

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Ottovolante – La Battaglia Delle Mille Lepri

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Sono sempre felice come un bambino quando mi arrivano dischi come questo: scoprire che ci sono ancora band che si divertono, che non fanno il compitino appoggiandosi a ciò che veniva prima di loro, che non danno per scontato che una canzone debba avere questo, fare quest’altro, dire quell’altra cosa ancora… io so che esistono tanti gruppi così, solo che spesso me lo dimentico, e a La Battaglia Delle Mille Lepri deve essere riconosciuto almeno il merito di avermelo ricordato.
Scritto, composto ed eseguito dagli Ottovolante (al secolo Gianni Mannariti e Denial Marino), il disco si snoda in 13 tracce di rock divertito e mobile, tra echi naif (“Balliamo Anche in Soggiorno”, che però non mi esalta più di tanto) fino a piccoli capolavori d’atmosfera e melodia (“Nota Panoramica”, che mi riporta alla mente i Meganoidi più rock, con un arrangiamento di fiati e chitarre molto azzeccato).
La Battaglia Delle Mille Lepri è cantato in italiano, con una voce che a tratti mi ricorda Manuel Agnelli – e prima che gridiate alla bestemmia, specifico: come utilizzo e valore, non tanto in tecnica o capacità. I testi si indovinano interessanti, in bilico tra litania e filastrocca, ma emergono poco nel marasma, sia per come sono scritti, sia per come sono cantati (esclusi un paio di episodi, come la già citata “Nota Panoramica”, o la rilassata “Adesso Torno, tra pacatezza da Ministri – la voce e un arrangiamento di chitarre e archi fatto sottovoce, o la toccata-e-fuga acustica de “La Folla).

Il bello de La Battaglia Delle Mille Lepri è anche questo: la quantità di riflessi che s’intravedono tra le sue pieghe. “Francesca non vuole sentire” si porta dentro un’ambientazione rock aperta alla Brahaman,“La folla”suona acustica e viscerale, vedo un mezzo Bennato in Caro dittatore (1972), gli Afterhours fanno capolino qua e là tra riff di chitarra ossessivi e voci acrobatiche (“La Mente Mente e il Mondo è Pieno di Luoghi Della Mente”) . Devo ammettere che rimango più incollato agli Ottovolante negli episodi meno aggressivi (“Nota Panoramica”, “Adesso Torno”): sarà perché gli riesce meglio o sarà perché sono meno appoggiati al già sentito? Fate una prova e sappiatemi dire.
La Battaglia Delle Mille Lepri è bello perché è vario. È un disco divertente (e ciò non vuol dire che i pezzi siano tutti allegri e spensierati). È multiplo, è pieno di arrangiamenti diversi, un parco strumenti interessante (batteria, rototom, pentole, cocci in cucina, cucchiai forchette e cucchiaini, synth, kazoo, basso, chitarra elettrica, classica e acustica, pianoforte, trombette, e non vado avanti perché dal booklet leggo cose tipo vocine tupatapatapatapa o auanasheps e ho come l’impressione che gli Ottovolante mi stiano leggermente prendendo per il culo). Tre brani su tredici sono skit sotto i dieci secondi (se hanno un significato recondito, non riesco ad afferrarlo). Rimangono dieci tracce, e ne vale comunque la pena.
A qualcuno La Battaglia Delle Mille Lepri non piacerà perché è troppo semplice, troppo terra-terra, troppo insensato. Più per partito preso che per altro.
E vabbè, ce ne faremo una ragione.

https://www.youtube.com/watch?v=tlCWsLDttM4

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Marazzita – Mi gioco i sogni a carte

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“Mi gioco i sogni a carte” è il secondo EP del “riccio” giovane cantautore calabrese fuori sede Marazzita.
L’EP è composto da sei brani di durata piuttosto radiofonica (a cavallo dei tre minuti e un po’ in media). I testi sono probabilmente la parte più forte del lavoro del cantautore calabrese: tante cose da dire, tante storie che parlano del tempo, della malinconia insita nell’anima evidentemente in fase di cambiamento di Peppe Marazzita, il tutto condito da toni spesso ironici, quasi sempre tristemente arresi ad una realtà che si dimostra, con il passare del tempo, sempre meno simile al sogno del giovane calabrese. La malinconica ironia dei testi è accompagnata egregiamente da arrangiamenti minimali ed efficaci, a volte quasi volutamente trascinati, a volte irriverentemente “un passo avanti”. Plauso particolare ai synth di Gianluca Di Vincenzo nella traccia numero 4, “Un balcone coi fiori”.
L’EP si apre con “Maledetto”, una ballata dedicata al tribolato cantautore livornese Piero Ciampi. Da subito si intuisce il leitmotiv del disco, la dolce apatia e disillusione nelle parole e nella musica della generazione cantautorale degli anni zero. Volendo cercare influenze nel lavoro di Marazzita possiamo citare Max Gazzè (in particolare nella seconda traccia, “Poster”), qualcosa di Bennato, alcune atmosfere di Tiromancino. In generale però Marazzita appare originale e non categorizzabile, anche se assolutamente fruibile, commercialmente parlando.
Nel terzo brano Marazzita non lesina in quanto a metafore e si interroga, cantando su una musica spensierata e dal sapore di hit estiva da juke-box sulla spiaggia, riguardo al futuro del mare, della sua Calabria e in generale del Belpaese. La quarta traccia è un invito per una cenetta romantica con tanto di Chianti e fiori (finti) sul balcone, una scusa come un’altra per raccontare qualcosa dell’insoddisfazione e del disagio di Marazzita, con il sorriso amaro sempre sulle labbra.
Nella quinta e penultima traccia “Vai via da qua” Marazzita cita il titolo dell’EP e cioè la sua volontà di giocarsi i sogni a carte, raccontando definitivamente della sua delusione per ciò che avrebbe voluto fosse ma non è, della ricerca di un rimedio per poter cambiare le cose, magari per trovare il coraggio di andarsene. Il disco si conclude con “L’artista da giovane”, brano che racconta del recente passato di Marazzita proprio come fa James Joyce ne “Il ritratto dell’artista da giovane”.

Il cantautore calabrese si conferma un’interessantissima realtà che fa della sintesi e della semplicità del linguaggio la sua arma migliore. Le melodie e le atmosfere sono tutt’altro che underground, nonostante si possa ad oggi considerare il fuori sede calabrese ancora un abitante della famigerata “nicchia”.
Consiglio vivamente l’acquisto di questo disco a chiunque abbia voglia di ascoltare un punto di vista tutto sommato comune ma raccontato in modo originale e soprattutto sincero da un giovane che continua a “cantare i propri sogni sopra e sotto un palco, in un’estate su una spiaggia senza spiaggia”.

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