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Settembre ci porterà via con sé

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300 secondi o poco più di tanta roba!
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Recensioni #16.2017 – Hawaii Zombies / HÅN / Cumino

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Recensioni | novembre 2015

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Max Richter – Sleep   (Modern Classical, Post Minimalist, 2015) 7,5/10

Capolavoro totale per il compositore britannico (lo trovate qui) che confeziona un’opera titanica la quale, anche per la durata che supera le otto ore, vuole essere realizzazione perfetta da assimilarsi durante il sonno. Disco dell’anno, se siete capaci di andare oltre le barriere del Rock e della forma canzone.

Ought – Sun Coming Down (Art Punk, 2015) 7/10

Secondo album eccelso per la band degna erede dei grandi Television. Tra le migliori e più originali formazioni Post Punk di ultima generazione, qui raggiungono il loro apice creativo.

Kathryn Williams – Hypoxia (Folk Pop, 2015) 7/10

Arrivata all’undicesimo album, la cantautrice britannica compone un concept ispirato al romanzo La Campana di Vetro della tormentata poetessa Sylvia Plath. Atmosfere soavi, minimaliste, ma di una notevole intensità. Da ascoltare in solitaria. Consiglio l’esilio su un’isola deserta.

Dhole – Oltre i Confini della Nostra Essenza (Post Hardcore, 2015) 6,5/10

Pregevole incastro di strutture sonore Post Rock e cantato Scream per questo quartetto lodigiano agli esordi, matasse di distorsioni da cui lasciarsi avvolgere mentre le liriche colpiscono violente. Un debutto meritevole di spazio nel consolidato panorama nostrano del genere.

Open Zoe – Pareti Nude (Pop Rock, Post Punk, 2015) 6,5/10

Carico di echi delle esperienze Alt Rock italiane anni 90 il primo disco di questa band veneta, armata di tradizionali basso-batteria-chitarra, a cui si aggiungono pochi tocchi di elettronica e un timbro vocale femminile che conferiscono un gusto catchy e contemporaneo al risultato finale.

Il Mare Verticale – Uno (Alternative Pop, 2015 ) 6,5/10

Non è semplice fare un bel demo. Bisogna essere esaustivi nel saper dar sfoggio di sé e delle proprie abilità compositive, senza strafare e risultare pesanti. E su questo Il Mare Verticale, con Uno, ha saputo davvero fare bene. Il disco apre con “Tokyo”, un brano Alternative Pop delicato, a cavallo tra Afterhours e sonorità Indie nordeuropee, che chiarificano subito timbri e accorgimenti che la faranno da padrone: arrangiamenti mai scontati per quanto perfettamente in stile, liriche (in italiano) trattate più come pretesto fonico che come significanti, atmosfera galleggiante e onirica, che sfocia naturalmente in “Non Luoghi”, con i suoi echi alla Radiohead. “Spuma” è forse la più italiana di tutto il lavoro della band romana, con richiami alla produzione di Benvegnù e Gazzè su tutti. Il disco chiude con “Elaborando”, che, quasi in maniera volutamente descrittiva, si connota in fretta come il brano più complesso tra i cinque, con i suoi ritmi marcati e il sound più cinematografico.

Prehistoric Pigs – Everything Is Good (Instrumental, Stoner, Psych Rock, 2015) 6,5/10

Distorsioni e spazi immensi, sabbiosi e oscuri. Un viaggio interminabile (otto brani per quasi un’ora di musica) tra i più desolati deserti  descritti da un trio non sempre impeccabile e fantasioso, ma che cerca perennemente il suo suono, incastrando la chitarra di Jimi Hendrix nel caldo torrido dell’Arizona. Peccato manchi la voce, avrebbe potuto dare maggior senso e maggiori vibrazioni a questo serpente sporco, vorace e velenosissimo.

La Casa al Mare – This Astro (Dream Pop,  Shoegaze, 2015) 6,5/10

Viene da Roma il terzetto che compone La Casa al Mare, con sonorità che non posso che richiamare subito una certa produzione Pop anni 80: voci indietro sullo sfondo, chiamate a far le veci di un vero e proprio strumento aggiunto, chitarre quasi prepotenti, seppure senza giri virtuosistici, effetti trasognani e riff ariosi e cantabili. This Astro apre con “I Dont’ Want To” che per i primissimi venti secondi sembra richiamare quasi gli Smashing Pumpkins e poi cede il passo allo Shoegaze in “Sunflower” e “M, particolarmente interessante per le aperture armoniche e il trattamento della dinamica. La mia preferita del disco risulta però essere “At All”, che suona come un brano degli Indiessimi Yuck. La costruzione dell’impianto sonoro cambia leggermente in “Tonight or Never”, in cui ogni elemento emerge con una brillantezza che sembrava mancare nelle tracce precedenti. L’EP chiude con “CD girl”, una traccia à la Raveonettes o My Bloody Valentine. Nulla di nuovo dunque, ma neppure qualcosa da cui rifuggire come la peste.

A Copy for Collapse – Waiting For (Electronic Synth Gaze, 2015) 6/10

Interessante duo barese che si muove agevolmente sulla via dei vari Telefon Tel Aviv, Mouse on Mars e The Postal Service. Qualche richiamo alla Dance Music poteva essere evitato. Sound anni 80 per chi non è fanatico degli anni 80.

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Showstar – Showstar

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Il quarto album omonimo (che ipotizzo possa essere presto rinominato Sorry no Image Available, causa copertina, come accaduto per il self titled dei Kyuss) traccia il vero punto di non ritorno per la band belga, ormai attiva dal 1996 e che mai è riuscita davvero a persuadere il pubblico, a partire dall’esordio We Are Ready del 2003. Un transito tanto importante per Chris Danthinne (voce e chitarra), David Diederen (chitarre), Antoni Severino (basso e voci) e Didier Dauvrin (batteria) quanto in linea con le produzioni precedenti e che continua a perseguire la strada disegnata dal Jangle Pop degli Smiths seppure con un’attitudine Indie moderna e fresca, in contrapposizione alle liriche talvolta crude, disincantate e non troppo raggianti (“lavora, lavora, lavora fino alla morte”). In tal senso, non si potrà certo confutare una discreta crescita compositiva nell’ultimo lavoro targato Showstar, una maturità che ha reso le dodici tracce vagamente encomiabili e credibili pur se gonfie di innumerevoli similitudini e rimandi.

Shoegaze il più pulito possibile, veloce e danzereccio (“Adults”, “Casual”) si miscela al già citato Jangle Pop di morriseyana memoria (“Nightbird”), di tanto in tanto squarciato da falsetti che vanno dai Beach Boys ai più vicini Everything Everything (“Casual”). Chitarre taglienti scuola Parts & Labor (“Mistakes on Fire”, “Rumbling”), ritmiche cadenzate (“Rumblings”) e un sound che, inevitabilmente, tanto deve ai mitici Stone Roses (“Mistakes on Fire”, “Rumblings”, “The Trouble Is”, “Full Time Hobby”, “(I Wish I Was) Awake”) al quale si aggiungono brani dalle melodie più dirette e insistenti (“The Liar”) e altri lampi più intimi (“Follow me Follow”) che sanno trasformarsi in vere bombe soniche (“Happy Endings”).

Non aggiunge molto al suono degli Showstar la voce di Angela Won-Yin Mak che si affianca a Chris Dantinne in “Smile. No”. Showstar è disco della maturità, lo era fin dalle premesse ed in parte lo conferma l’ascolto, eppure non può essere considerato un vertice dentro una discografia tanto piatta. A tratti banale, ripetitivo, ridondante, anche troppo gelatinoso nella sostanza, è l’ennesimo buco nell’acqua di una band alla quale non è il caso di chiedere di più.

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Le Ceneri e i Monomi – La Sciarpa

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Bologna, classe 1995. Irene Cassarini (voce, chitarra), Luca Jacoboni (voce, tastiere), Andrea Turone (basso, cori) e Nicolò Formenti (batteria) portano alla luce un progetto decisamente interessante, celato dietro un nome altrettanto interessante: Le Ceneri e i Monomi. Appena diciannovenni, danno vita, corrente mese, al loro terzo EP: un disco pienamente invernale, dalle sonorità all’immagine di copertina fino al titolo: La Sciarpa. Il lavoro si realizza attraverso cinque capitoli perfettamente amalgamati in grado di donare un ascolto omogeneo e lineare che in nessun momento riesce pesante e che scorre dal primo all’ultimo episodio pulito e vergine. Apre con un malinconico inno alla fuga, per poi dare spazio a sonorità in perfetta linea con quelle proposte da band quali Il Disordine delle Cose o Amycanbe. Probabile che si tratti di pura casualità, ma mi si perdoni il paragone: è inevitabile. “Aspetti” è il capitolo numero uno e traccia dopo traccia, le due voci si alternano in un dialogo in riva al mare in una notte di novembre, raccontando i disagi ed i sogni di una gioventù in balia degli eventi. Ma non di quelle gioventù bruciate e fredde di cui oggi, bensì di una generazione che non smette di sperare nel domani. Che si tratti di un domani reale o di un domani artistico non ci è dato sapere, ma il messaggio è l’idea, la metafora, non di certo la materialità della cosa. I capitoli successivi si articolano fra chitarre e synth tutt’altro che invadenti ed in perfetta armonia con le voci e la delicatezza della batteria, che trovano la massima ispirazione in “Irene in D maggiore”, capitolo numero tre dell’opera. Dopo soli 19’ e 38’’ i quattro emiliani ci salutano con il brano che dà il titolo all’intero EP: “La Sciarpa”, la perfetta sintesi fra malinconia, speranza, realtà e musica. Si lascia sufficiente spazio ad uno strumentale che fa vibrare corde Alt Rock, ma senza prepotenza e senza stonare nel complesso.

In buona sostanza il disco si presenta candido, ma al contempo dal carattere pretenzioso. Ascoltarli è trovare un quadrifoglio e poi riderci su, dicono di loro. Il messaggio è quello di quattro amici con la voglia di fare musica e null’altro, ma di farla bene. Lievi difetti stilistici sparsi fra i vari capitoli e qualche piccolo errore che soltanto il tempo sarà in grado di correggere. Non siamo innanzi ad alcuna pietra miliare, ma di certo non siamo neppure in presenza di un lavoro da poco. Sono giovani, la strada e lunga e di scalini ce ne sono ancora tanti, ma la cosa certa è che queste Ceneri sanno proprio il fatto loro ed hanno ben afferrato la strada da seguire: una strada fatta di sonorità organiche e composte, leggere, ma sapienti. Dunque, non ci si può aspettare virtuosismi e prestazioni da capogiro, ma, personalmente, ancora una volta voglio accordare fiducia a questi giovani emiliani e lascio un voto di mezzo, a metà fra qualcosa di bello e qualcosa che è soltanto alle prime luci del Sole. Magari chissà, novembre che viene potrei andare anch’io a fare una passeggiata in riva al mare.

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Aa. Vv. – Happy Birthday Grace!

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Ci sono album e musicisti che la bravura e il destino hanno reso immortali, imprimendoli nella memoria e nell’immaginario di molti. Jeff Buckley è sicuramente uno di loro, una vera meteora che ha illuminato per troppo poco la scena musicale mondiale, ma che ha saputo in così breve tempo lasciare un’impronta indelebile nella storia del Rock. Nell’agosto del 1994 usciva il suo capolavoro, Grace; vent’anni dopo, lo studio di registrazione QB Music di Milano, pubblica in free download una compilation che ne celebra il ricordo. Parlare di semplice tributo non è corretto perché il lavoro di reinterpretazione e omaggio alle dieci tracce che compongono Grace va aldilà della semplice “coverizzazione” dei brani. Gli artisti presenti hanno saputo, grazie alle sapienti mani dello studio, creare qualcosa di veramente nuovo e non scontato, basando il lavoro su una forte ricerca dei suoni e degli arrangiamenti, portando le melodie di Grace negli anni 2000 attraverso la New Wave, il Funk, l’Elettro Pop e le sperimentazioni musicali. Capita spesso che le reinterpretazioni e i tributi, nella ricerca dell’omaggio perfetto a tutti i costi, inciampino nella miope rete dell’emulazione e finiscano per essere solo delle brutte versioni dell’originale. QB Music e gli artisti coinvolti sono riusciti invece a trovare il giusto equilibrio e mix  tra la versione originale e le diverse personalità degli interpreti che si susseguono, offrendo un punto di vista differente e tratti irriverente e un po’ impudente. Così ci si ritrova ad ascoltare “Mojo Pin” in versione New Spleen Wave, dove la carica interpretativa di Buckley viene resa materiale dai synth effettati degli Starcontrol; una veloce e ritmata “Grace” “groovizzata” grazie alla sorprendente voce ed energia di Naima Faraò dei The Black Beat Movement.

Tra le dieci tracce ce ne sono due che si contraddistinguono per intensità e sperimentazione, anche se lo fanno muovendosi su territori ben distinti e sono la scura “So Real” in cui i Two Fates, attraverso un tappeto di suoni sintetici, attualizzano il senso claustrofobico e di angoscia affidati a basso e batteria  nell’originale, e “Corpus Christi Carol“ solenne e celestiale che si trasforma in terrena e quasi tribale grazie alla ritmica dei piatti e dei tamburi dello Zenergy Trio. Due interpretazioni altrettanto interessanti e ricche di emozioni sono quella di “Lilac Wine” che diviene un blues scarno e graffiante con la sensibilità di Sergio Arturo Calonero, e dell’immortale “Hallelujah”, uno dei compiti più ardui, che gli Io?Drama superano brillantemente grazie alle grandi capacità vocali di Fabrizio Pollio e al violino di Vito Gatto. Happy Birthday Grace! È un lavoro curato,  bello da ascoltare, cha valorizza gli artisti che vi hanno partecipato e rende omaggio alla grande musica e alle capacità interpretative di Jeff Buckley con altrettanta qualità, sempre con la giusta consapevolezza del confine tra imitazione e tributo.

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Io?Drama – Non Resta che Perdersi

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Che indifferenza fa una vita in più? quello che abita al piano di sopra di Fabrizio Pollio, la voce, che ha la madre fatta di Lexotan e suona il violino, non è Vito Gatto, estroso, gran segaiolo delle crini di cavallo maschio in “Vergani Marelli”. Ma che indifferenza fa una vita in più? A me non me ne frega un cazzo. Non perché non me ne freghi un cazzo. Ma non ti credo. Credo molto più al Califfo e credo non ti sia mai drogato bene nella vita. Disarmonie in Madreperla che non capisco e che non trovo. Morgan ha già scritto “Altrove” e “Cieli Neri” e Andy le ha suonate da paura. Ma d’altronde esiste Moltheni, fanno le tournè estive i Subsonica. Pace.

Se fossi padre ti direi: “Ragazzo mio non ti racconterò favole i mostri sono altri, non sono quelli nei libri. Impara a conoscere i tuoi e non cercare di descrivere i mostri degli altri che finisce che te li fai venire davvero.” Poi ho capito che Non Resta che Perdersi,  e che la musica non è Lexotan ma tutt’al più Guttalax. Anche la musica. Forse è solo Indie, Alternative. Sono al quarto disco gli Io?Drama e non sembrano volersi fermare. Piacciono anche a qualche mio amico. Non a me, ma lo giuro l’ho ascoltato per intero, “Non resta che perdersi”, tante eco, e non ho smesso mai di pensare alla mail dell’amministratrice di condominio, al vino in frigo, al formaggino Tigre. Continua a fare quello che ti piace Io?Drama o finirai come me, col formaggino e il vino fresco di frigo.

“Amore mio al di là ci aspetterà l’alba più raggiante, ritrovarci ancora a luci spente.”

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Maximo Park – Too Much Information

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Classico mix tra chitarra distorta VS. riff di note a tratti quasi Country, batteria dritta, synth, ed un senso di spensieratezza: questo è il sound che apre il quinto lavoro degli ormai consolidati Maximo Park. Certo, “Give, Get, Take” suona bene ed è sicuramente il singolo di punta di Too Much Information, ma alla fine risulta fin troppo ripetitivo, tanto da apparire quasi un brano noioso nonostante l’allegria che trasmette. Più pacata è invece “Brain Cells”, canzone distesa che mischia una voce lenta con sonorità Indie che vanno a braccetto con la UK Garage tanto in voga ultimamente. Si continua sulla stessa onda elettronica aggiungendo però un tocco di Future Pop con “Leave This Island” e “Is It True”, dove grazie alla voce profonda di Paul Smith e i Synth mono-nota in stile anni 80 si viene proiettati in una dimensione completamente inversa rispetto al resto del disco. Un po’ come se queste tracce fossero delle macchie grigie adagiate su di uno sfondo a colori, macchie si sbiadite e malinconiche, ma allo stesso tempo macchie che risaltano e si fanno apprezzare. Torniamo ad un suono British quasi balneare con “Lydia, the Ink Will Never Dry”, più energiche e briose sono invece “My Bloody Mind”, “I Recognise the Light” e “Her Name Was Audre”; quest’ultima decisamente più veloce ed aggressiva rispetto a tutto il resto dell’album. In “Drinking Martinis” troviamo il ricordo di una relazione ormai finita e descritta in modo lucido (sia alcolico che per il tempo passato) attraverso metafore sul modo di bere. Atmosfere simili anche per il singolo “Midnight On the Hill” (il video lo trovate qui sotto), ed una chiusura invece romantica con l’incerta ballata “Where We’re Going”, dove ad emergere sono i dubbi di una generazione allo sbando ma ancora sognante.

Mah, devo essere sincera? A me Too Much Information non ha convinto per nulla, l’idea di fondere sonorità oscure ed elettroniche con quelle dell’Alternative Rock brioso regala risultati poco omogenei e poco chiari rispetto al filo che lega i singoli brani. Insomma le canzoni non si incastrano a dovere per creare un unico puzzle, ci sono pezzi che si completano ed altri invece che rimangono abbandonati a se stessi. Dunque qual è il punto focale che la band di Newcastle avrebbe voluto comunicare? Spiegatemelo voi, perché io ancora non l’ho capito.

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Stumbleine feat Violet Skies – Dissolver

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Solo qualche mese orsono vi ho parlato io stesso dell’Ep Chasing Honeybees, del duo Peter “Stumbleine” Cooper / Violet Skies muovendo tanti dubbi sia sul sound in sé sia sulla voce della nostra Violet ma anche rilevando gli aspetti positivi dati soprattutto dalla brama di fare Pop senza rotolare nelle convenzionalità del genere. Molte di quelle notazioni devono essere considerate ancora adesso opportune ma comunque alcune diversificazioni nette sembrano sollevarsi nell’ascolto di Dissolver. Si allenta notevolmente il legame con Dream Pop e Ambient, con il sound spectoriano anni 60 e con le atmosfere eighties di Cocteau Twins e My Bloody Valentine mentre tutto diviene molto più Pop o meglio più banale e stereotipato, anche se in certe congiunture (“Heroine”) Stumbleine pare seguitare a rendere omaggio a un passato sempre più remoto nel tempo tanto quanto attuale nella sua riscoperta. La voce di Violet Skies ostenta maggiormente la sua impostazione Soul e R’n’B, ma siamo lontani dai successi e dal livello qualitativo di un James Blake per intenderci. Le dieci tracce che avrebbero dovuto mettere sul piatto quanto di affascinante mostratoci nell’Ep Chasing Honeybees segnano invece una mezza sconfitta. Stumbleine e Violet Skies scelgono una strada sicura che però non fa altro che evidenziare ancor più i limiti del duo che, ancora una volta, butta via l’occasione di confezionare saggiamente qualcosa di alternativo dentro il sempre più deludente mondo della modern  popular music. Non mi stancherò mai di ripeterlo, la musica è più di una buona voce e capacità di usare uno strumento che sia un pezzo di legno o un groviglio di fili e bottoni. Se qualcuno dovesse apprezzare la voce femminile di Violet Skies magari potrebbe provare col suo esordio solista (la prima traccia uscita è “How the Mighty”) oppure, se come me è proprio quella voce che mal digerite, potreste provare con i lavori del produttore Stumbleine, ultimo Spiderwebbes, che uniscono Dream e Ambient Pop con Chillstep; ma non aspettatevi troppo, ve l’ho già detto, potete anche andare oltre senza perdere troppo tempo.

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Two Fates – /tree

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Chi crede che il Fato abbia a che fare con l’essere sottoposti a volontà ignote che appaiono casuali  quando in realtà non lo sono, ma guidano il susseguirsi degli eventi secondo un ordine non modificabile, sarà d’accordo con me che probabilmente non è un caso nemmeno il fatto che il destino dei Two Fates, duo elettro-acustico composto da Loredana Di Giovanni (LorElle) e Giuliano Torelli (Tiresia), li abbia portati a percorrere insieme la strada della musica. Probabilmente non credono nemmeno loro alla casualità dell’evento, vista la scelta del nome del gruppo. Il loro primo EP porta il titolo di /tree, un albero che affonda le radici nella terra della conoscenza e nell’esperienza in ambito musicale, ma che ha le fronde e lo sguardo rivolti verso un cielo ed un futuro ricco di sperimentazioni. Più che di un albero, si tratta di una foresta di suoni, capace di evocare le atmosfere magiche e surreali che ruotano attorno al mondo della Natura. Tecnicamente, il segreto di questa moltitudine sonora, sta nell’utilizzo della Two Fates’ Machine, una “macchina” assemblata dallo stesso duo, che senza l’utilizzo di basi precostituite, permette di registrare al momento stesso dell’esecuzione le varie parti che compongono i brani e di assemblarle in tempo reale. È chiaro quindi che l’ascolto di /tree possa assumere ancora più valore durante le esibizioni live.

L’evocazione al mondo della natura e all’alone di mistero che l’avvolge è chiara già dalle prime tracce del disco, “Blu” e “Verde”; la prima, del colore del cielo, si eleva sempre più in alto verso una serie di inquietudini in un crescendo sia di tonalità che di suoni che si vanno aggiungendo man mano; la seconda invece si lascia trasportate principalmente dalla voce di LorElle e si compone di suoni che richiamano atmosfere decisamente più calme. Con “My Story Is not My Destiny” subentra la lingua inglese; la protagonista è ancora la voce di LorElle che traccia la melodia sulla quale si articolano i suoni elettronici caratteristici del duo. “Il Sogno, l’Addio” è il brano che meglio esprime le caratteristiche principali dei Two Fates, dal richiamo a dimensioni surreali, alla predominanza dell’Elettronica, alla realizzazione di testi di un forte impatto emotivo, (che in altri pezzi perdono però di intensità), alla forte presenza vocale della cantante. “It’s the Rain”, secondo brano in inglese è ancora una chiara evocazione alla Natura, che avviene stavolta in modo palese introducendo suoni come quello della pioggia al quale si intrecciano le sonorità elettroniche caratterizzanti il duo. “Sangue”, il brano a chiusura del disco, si differenzia dal resto con l’introduzione di un ritmo “spagnoleggiante” portato avanti da chitarre acustiche.

Se di esordio vogliamo parlare (anche se questo è il loro primo EP, il duo è impegnato da anni nel mondo della musica, durante i quali ha privilegiato maggiormente le esibizioni live) quello dei Two Fates è sicuramente degno di nota. Un buon inizio che inizio non è, vista l’esperienza di entrambi i componenti. Comunque sia andata, mi voglio fidare del proverbio che dice chi ben comincia è a metà dell’opera. Per la seconda metà dell’opera, non possiamo far altro che aspettare il loro prossimo lavoro.

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Peter Piek – Cut Out the Dying Stuff

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Il poliedrico artista teutonico, polistrumentista, cantautore e pittore oltre che fondatore della comunità artistica del PPZK, nato Peter Piechaczyk a Karl Marx Stadt, oggi Chemnitz, trentatré anni orsono, ricompare con un nuovo prodotto disegnato sapientemente per elevare la sua sfavillante voce oltre la banale beatitudine. Una voce fantasticamente imperfetta, almeno al primo ascolto e solo nella timbrica un po’ aspra ma che non impiega troppo a palesarsi in tutta la sua bellezza data anche da un’ampiezza vocale non comune. La sua veste di artista a tutto tondo prende forma in fase compositiva e anche durante le esibizioni live miscela musica e arte, facendo vedere foto scattate ascoltando brani e fornendo cuffie per udire i brani che hanno suggestionato i suoi quadri. Musica e pittura e arte in generale che si compenetrano, vicendevolmente e senza soluzione di continuità, lasciando emergere l’unica differenza tra le diverse espressioni artistiche rappresentata dal tempo. Questa sua triplice (non disdegna neanche il ruolo di scrittore) veste lo porta spesso a girovagare per la Germania e il mondo intero, dagli Stati Uniti alla Cina e proprio la promozione di Cut Out the Dying Stuff lo ha condotto anche a toccare i lidi della nostra penisola.

L’album è il terzo capitolo della saga personale di Peter Piechaczyk, dopo Say Hello to Peter Piek del 2006 e I Paint It on a Wall di circa quattro anni fa e rispecchia alla perfezione quell’aura d’internazionalità acquisita con le circa cinquecento esibizioni internazionali. La stessa opening altri non è che un’innamorata dedica alla città spagnola (“Girona”) ma non mancano intromissioni in terra inglese, cinese addirittura e ovviamente tedesca. Nonostante l’astrattismo possa essere definito come uno dei punti cardine per orientarsi nell’oceano pittorico di Piek non si può dire lo stesso della marea di note che danzano dentro i dodici brani di Cut Out the Dying Stuff. Al contrario, le liriche presentano strutture Pop melodiose e orecchiabili e raramente fuori dal comune e una forma canzone tutto sommato canonica e anche troppo lineare, con una miscela tra strumentazione sostanziale e arrangiamenti e voce che ricalca le più consone strade del Pop moderno che si affaccia presso i lidi del Contemporary R&B, del Pop Soul, del Cantautorato alternativo e dell’Indie.

Le canzoni di Piek nascono dentro dialoghi spirituali tra la parte più intima del sé e quella che è l’esteriorizzazione artistica della propria anima, sulle orme dei grandi artisti del passato, da Neil Young a Dylan, da Nick Drake a Van Morrison, sempre però con una carica tipica piuttosto di un certo Britpop in stile Oasis o Blur. L’opera di Peter Piek non è, dunque, destinata a cambiare le sorti del mondo, neanche di quel piccolo universo chiamato Musica eppure trasuda amore e libertà, indipendenza che solo certi artisti possono veramente sventolare come un drappo di vittoria al cielo, autonomia da etichette, mercato, autogestione espressiva totale e che non necessariamente deve collimare con concetti legati all’estremizzazione di avanguardie e sperimentazione. Un disco per chi ama, fatto da un innamorato.

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Kyle – Space Animals

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Secondo album, dopo This Is Water di due anni più vecchio, per Michele Alessi, l’unico membro che si dissimula dietro il nome di Kyle, già chitarra baritono dei Captain Quentin oltre che membro di Maisie e Distape. Ai più attenti basteranno questi nomi per capire che improbabilmente la proposta dell’artista potrà incanalarsi nel più classico Pop nostrano, o ancor peggio, nella consuetudine della musica leggera che, ripudiati i fasti di un tempo, arranca oggi in un vortice di banalità. Anche questa volta Michele Alessi riesce a meravigliare, non solo giacché mette da parte l’attenzione maniacale per le chitarre acustiche ma anche perché amplia il progetto Kyle, che trasfigura per l’occasione da one man band a gruppo vero e proprio e non unicamente per i live. Scelta quanto mai azzeccata perché mettere insieme chitarre, sax, ukulele, flauti, mandolino, vibrafono, farfisa, banjo, wurlitzer, toypiano, rhodes, contrabbasso, batteria e voce è cosa più agevole tanto quante più sono le teste al servizio della musica. Ed è cosi che anche Yandro Estrada, Aldo D’Orrico, Ignazio Nisticò e Federico Mari entrano in studio con Alessi per arrangiare le dieci tracce di Space Animals e far si che Kyle diventi, in modo più palese, il nome di una band, o almeno di un progetto eterogeneo, invece che il semplice pseudonimo d’un singolo artista, che comunque resta il centro nevralgico, sia in fase compositiva sia espressiva.

Lo strambo titolo non lasci interpretare alcun richiamo sovrabbondante alla psichedelia cosmica britannica (i riferimenti beatlesiani sono piuttosto in chiave melodica) o teutonica anni settanta perché in Space Animals lo spazio che viene evocato è inteso in senso più ampio, come vuoto sì aereo, ma soprattutto psichico e interiore e come l’insieme di una molteplicità di mondi vitali che plasmano la vita stessa e l’esistenza umana, anche nelle sue fasi più materialistiche e animali. Un album che canta le vastità interstellari, ma anche le piccolezze atomiche attraverso il racconto dell’umana normalità e lo fa attraverso le vie del Pop più dinamico, immediato nelle melodie ma non certo banale o semplicistico, attento all’orecchiabilità ma che non si vende alle stupidità dei ritornelli da classifica. Attraverso una strumentazione multicolore, ukulele (oggi tornato tanto in voga) su tutti, i Kyle prendono la lezione Beat Pop dei Fab Four e ne fanno musica nuova, percorrendo inflessioni che spaziano in modo giocoso e festaiolo, dentro la World Music, la musica da strada dei quartieri parigini, il Jazz Pop, lo Swing Revival ma anche più meramente nel moderno Indie Pop/Rock, nel Folk e nel Country di lingua inglese, con arrangiamenti spettacolari dalla forma espressiva incredibile, specie se paragonata alle solite insulsaggini del Pop italiano, cui siamo abitualmente esposti.

Dieci canzoni dal sapore fumoso del tempo ma anche freschissime, grazie all’uso puntuale di tutto l’armamentario a disposizione, brani che non hanno bisogno di essere presentati uno a uno ma che v’invito a scoprire uno dietro l’altro, per coglierne le sottili differenze e lasciarvi trasportare in un magico mondo stracolmo di note. Un album bellissimo che pecca solo per l’assenza di brani veramente memorabili, di quelli che hai voglia di riascoltare anche dieci volte di seguito. In fondo sono le canzoni, quando si tratta di album densi, che fanno la differenza tra un bel disco e uno eccezionale. E poi ci sarebbe anche un sound che per quanto suoni articolato e gradevole al tempo stesso, non pare certo fissare le peculiarità distintive di una band ma lascia dei buchi un po’ ovunque, rendendo difficile una qualsivoglia interpretazione del marchio di fabbrica distintivo dei Kyle. Non è tutto oro, dunque, ma questa è un’altra storia, torniamo semplicemente a godere.

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