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Deathwood – And if It Were True?

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Reduci da un mini tour che li ha visti scorazzare in terra tedesca, gli horror punker abruzzesi hanno recentemente presentato il nuovo lavoro And if It Were True? con un’esibizione mozzafiato al Garbage Live Club di Pratola Peligna (AQ) in compagnia dei Whip Hand, band di tutt’altra estrazione ma ugualmente valida. Messi da parte gli elogi per un contesto che è palesemente il palcoscenico più adatto alle loro canzoni, quello che resta è un disco che, se non nelle intenzioni, di certo nel risultato è una prova di maturità decisa o forse piuttosto una dimostrazione di consapevolezza dei propri mezzi.

And if It Were True? è, prima di tutto, un lavoro attento a ogni piccolo dettaglio, e in questo fondamentale è stato l’apporto dello studio Acme Rec. di Davide Rosati che ha prodotto, registrato e missato le nove canzoni così come quello di Nick Zampiello (AgainstMe!, Agnostic Front, Converge) che ha masterizzato il tutto ai New Alliance East Mastering Studio in Usa ma anche di Eeriette, l’artista che ha messo mano a cover e artwork. And if It Were True? è prima di tutto un disco Punk, un disco Horror Punk meglio, e potete immaginare da soli cosa possa significare suonare Horror Punk in Italia nel 2016. C’è solo da andare a sbattere la testa nella persistente reiterazione eppure i nostri quattro ragazzi scelgono una strada che riuscirà a dare loro la giusta convinzione e a finire per convincere anche noi ascoltatori.

And if It Were True? racconta delle storie, ovviamente spaventose, terribili, di cadaveri e fantasmi ma riesce a farlo con una sorta di velo d’ironia unico nel suo genere accarezzando trasversalmente le vicende dei singoli componenti della band ma anche le diverse leggende locali abruzzesi, affrontate con un misto di serietà e spasso che ci mette al riparo da ogni possibile critica su quanto stiamo ascoltando (non perdetevi il gioco di società inserito all’interno del libretto, che siate abruzzesi o no). In tal senso, assolutamente rappresentative le canzoni che compongono la trilogia di Quaglia Lake (“The Legend Is True”, “Lake of the Undead”, “The Day Is Over”) ispirata alle tante storie che si raccontano da generazioni sul piccolo lago La Quaglia. Ascoltare con attenzione ogni singolo brano, cercando di scavare più a fondo delle semplici note, è come stare nel bosco, attorno al falò, ad ascoltare i racconti di un vecchio incontrato per caso cercando di prestare attenzione mente la coda dell’occhio scruta l’oscurità degli alberi. Questo ci suggerisce la stessa copertina di And if It Were True? eppure la sensazione è che la metafora di quest’opera sia tutt’altra. L’Horror Punk dei Deathwood è un Horror punk che sa prendersi gioco tanto dei cliché del mondo che ruota attorno all’horror, inteso sotto l’aspetto artistico cinematografico, quanto dei cliché del Punk, qui proposto in tutta la sua semplicità, con coretti, chitarre taglienti e i giri semplici, sezione ritmica basilare e potente, voce poco attenta allo stile, ritornelli che invitano all’urlo di gruppo e, allo stesso modo, delle tradizioni del territorio da cui arrivano, spesso rilevate nei testi e nell’estetica (vedi i vari riferimenti al Parco Nazionale, agli orsi che popolano l’Abruzzo, ecc…). E se fosse vero?, si chiedono i Deathwood. Se lo chiedono come chi ti ha appena detto una stronzata, facendovi sbellicare dalle risate, ridendo con voi mentre faceva finta di volervi spaventare ma poi torna serio quando, prima di sparire nel nulla, vi ficca un dubbio nel cervello. E se fosse vero? Ed è quello che ci fotte, alla fine, il dubbio; ci rende liberi davanti al mondo e schiavi della nostra afflizione al tempo stesso. Che sia questo il mostro più temibile dentro la rassegna horror movie firmata Deathwood?

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Remains in a View – Elegies

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A distanza di quattro anni dall’ultimo lavoro i sulmonesi Remains in a View tornano sulle scene con Elegies, album che affonda le sue radici più intime e profonde nella seconda ondata Metalcore di metà anni novanta, i cui esponenti di spicco (Killswitch Engage, Trivium, Avenged Sevenfold, Atreyu) cristallizzarono le proprie sonorità filtrando l’esperienza Punk Hardcore degli archetipi (Agnostic Front, Biohazard, Suicidal Tendencies) attraverso la tormentata e struggente esigenza melodica mutuata dal Death Metal di area scandinava (più precisamente, svedese: In Flames, Dark Tranquillity, At the Gates). I Remains in a View, incanalandosi perfettamente in questo filone, propongono con Elegies nove tracce in cui una brutalità primordiale e selvaggia trova la sua ideale controparte nella costante rappresentazione di schemi armonici sognanti, rifuggendo tuttavia la seducente tentazione di incedere, come troppo spesso accade, nell’agevole sentiero del romanticismo più melenso. Un calderone sonoro coerente (e perciò credibile), da cui emerge nitidamente un’invidiabile perizia tecnica ed una fervida capacità compositiva (esplicitamente influenzata dal prolifico songwriting di band come Darkest Hour, August Burns Red, Texas in July), il tutto suggellato da una produzione cristallina e possente, estremamente curata nel cesello di ogni minimo dettaglio, in grado di conferire ad ogni singolo momento dell’album la giusta connotazione estetica e formale, l’adeguato posizionamento all’interno di una struttura armonica in continua evoluzione/oscillazione.

Elegies si configura come una discesa dantesca nel baratro della schizofrenia più contorta e disperata – luogo remoto, inaccessibile e segreto dove i turbamenti, le angosce, le ipocrisie dell’umana quotidianità vengono costantemente scarnificate e messe a nudo  dal monolitico drumming di Giacomo Ficorilli (particolarmente letale nei sanguinolenti blast beats di “Shipwreck of Existence”, “So Far from the Truth” e “The Deepest Black”), dalla camaleontica versatilità dell’impianto chitarristico, perfettamente a suo agio nel destreggiarsi tra complesse partiture al cardiopalma (vedi “Crossing the Line”, “Left Undone”, “Travelers”) e rappresentazioni pittoriche di immagini indistintamente nostalgiche, quasi svanite (come nell’evocativo incipit di “Sleepwalker Blues”, ad esempio), dai continui stupri vocali perpetuati dal singer Davide Mancini, (oggettivamente impeccabile nell’improvviso alternarsi di growl, scream e clean vocals).

Probabilmente un paio di assoli non avrebbero guastato, così come una maggiore attitudine introspettiva (sulla scia della già citata “Sleepwalker Blues”, per intenderci) e magari qualche sproloquio matematico di scuola Meshuggah. Tuttavia, come si suol dire, “Roma non é stata costruita in un giorno”, e indubbiamente i nostri quattro sulmonesi ne hanno di tempo da spendere.

Fin qui tutto bene”, direbbe Hubert.

Continuate così.

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