2014 Tag Archive

Ruggine – Iceberg

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Suonano incazzati e spigolosi i piemontesi Ruggine nel loro nuovo full lenght Iceberg, nove brani di distorsioni e declamazioni dai titoli esotici e affascinanti (“Ashur”, “Raijin”, “Daphnia”, “Pangea”…) che riesumano uno spirito Hardcore d’altri tempi miscelandolo ad una cupezza sonora costruita ad arte, complice il processo compositivo con due bassi e la registrazione analogica che rende la pasta scura e densa, profonda e tagliente. Il disco è un concentrato oscuro di prove muscolari e tensive che si stemperano a tratti in curve fumose e misteriche (con il picco nell’intro della conclusiva “CDS”, che dal vivo deve proprio assomigliare ad un rituale pagano). Il mix di riff spezzati e batterie sanguinanti sostiene testi interrogativi e lineari, diretti, scanditi da una voce graffiante, che ci sputa in faccia molti dubbi e poche, pochissime certezze (o forse solo una, come nella title track). Potrà mai questa tormenta essermi d’aiuto?, gridano in “Ashur”, mentre la batteria spinge ossessiva su chitarre a spirale; Quali sarebbero state le parole giuste? Quelle che avrei dovuto pronunciare allora?, si chiedono tra i colpi violenti di “Siioma”; L’incognita più grande: è questo odio o amore?, continuano sul Post-Metal plumbeo di “Caio”.

I Ruggine rappresentano più il loro moniker che il titolo del disco in questo Iceberg che di freddo ha ben poco: nella ruvidezza del suono, nell’odore di ferro ossidato di batterie scalene e nell’angoscia intensa e arteriosa del flusso distorto di chitarre e voci si scopre il metallo – proprio in senso chimico – come nella splendida copertina: rotaie divelte che curvano nella desolazione di una natura che appare fredda, immobile, distante. Dell’Iceberg c’è forse il nascondersi sotto il pelo dell’acqua, un ribollire di forme immense che stanno nelle profondità e che poco alla volta si liberano oltre la superficie. Un disco fatto con stile, con coerenza, focalizzato e compatto, che lascia la forte curiosità di poterli godere dal vivo.

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Quadrupède – T O G O Ban

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La creatura di Le Mans è uno strano quadrupede, un duo eccezionalmente versatile capace di ostentare i suoi due volti, strutturalmente simili, ma completamente dissimili nella colorazione, come suggerisce la variopinta cover a doppia facciata (opera dell’artista Akatre) nella quale due teste antropiche sono completamente sommerse da flussi di vernice dalle tonalità difformi. Due anime che si avviluppano e moltiplicano in quest’opera attraverso le aperture dell’Electronic sperimentale e del Math Rock. I Quadrupède, giovane formazione in attività da circa tre anni, espandono questo poderoso processo creativo amalgamando arrangiamenti elettronici e classica strumentazione Rock, fatta di batteria e chitarre, collaudando le proprie capacità al fianco di grandi artisti come LITE, Papier Tigre, Woodkid, Adebisi Shank e Lost in the Riots e pubblicando dunque T O G O Ban, esordio dalle rosee speranze. Il lavoro è stato mixato da Matt Calvert (Three Trapped Tigers), masterizzato nella capitale britannica da Peter Beckmann (Sun Ra, The Magic Lantern) e pubblicato dall’etichetta belga Black Basset Records.

Sette brani che non raggiungono la mezz’ora ma che riescono comunque a trascinare, almeno parzialmente, e travolgerci in un ascolto vorticoso e intenso. L’intro celestiale stile Mùm contornato da voci angeliche e monotone presto si fonde con una possente Drum’n Bass (“Beam Pool Mom”) che a sua volta si rivela stilisticamente cangiante e pronta subito a palesare le diverse sfaccettature dell’opera che seguirà. Gli indizi Glith Pop e Noise della parte introduttiva si fanno presto prove (“Via Là”) mentre con “Rhododendron” emerge la vicinanza del duo dei Paesi Bassi con la musica dei cugini Don Caballero, anzi, ancor più con i newyorkesi Battles, in questa parte più che una semplice ispirazione nella combinazione di ritmiche precise e ripetitive e inserti elettronici. Quasi completamente assente l’aspetto lirico e vocale (sospiri e cori perlopiù) mentre più forte, rispetto ai già citati autori del piccolo capolavoro Mirrored, è il fattore Rock duro e crudo che tuttavia si manifesta solo parzialmente nei vari brani con brevi sfuriate che permettono al disco di suonare più carico di quanto non sia effettivamente nella sua totalità; interessanti anche i passaggi Electro/Prog Pop (“ASTRØ”) mentre annoia un po’ la deriva Electro Ambient/Ethereal nella parte finale (“Adulhood”) risollevata dal brusco crescendo potente caratteristico di molti di questi brani. Introduzione compresa, sono ben tre gli intermezzi anche se “Oblong Opale” può piuttosto definirsi come il momento più sperimentale e inquietante dell’album, invece che semplice momento di stacco tra prima e seconda parte.

T O G O Ban è un esordio degno di nota, che colpisce al primo ascolto, anche per la curiosità nei confronti di un certo tipo di Math Rock misto a Elettronica che non troppo spesso (vedi Battles) abbiamo avuto il piacere di ascoltare realizzato con efficacia. Un lavoro riuscito quando più definito e complesso come nel caso di “Rhododendron” ma che finisce per annoiare e suonare indigente quando si dilunga in ridondanze Electro prive di carattere. Complice la brevità, non regge ad ascolti ripetuti ma può essere certo la base per qualcosa di ancor più valido magari in un futuro prossimo.

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My Drunken Haze – My Drunken Haze

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Stavolta siamo diretti in Grecia, ma non per dire c’è la crisi! c’è la crisi!, né per acquistare titoli rischiosi ad elevato rendimento. Possiamo accontentarci dei nostri guai, per adesso. Di certo non si può dire lo stesso della musica, che, si dica quel che si voglia, si ritrova ad essere sparsa un po’ in tutti gli angoli della terra. Ed in un Paese di cui tanto si sente parlare negli ultimi anni, troviamo cinque ragazzi che di ‘sta crisi proprio non sanno che farsene e preferiscono raccontare la magnifica Grecia a colpi di chitarre e musica. Eh beh, d’altra parte finché c’è musica c’è speranza no?

I My Drunken Haze nascono nel 2010 da un’idea di Spir Frelini (regista e chitarrista della band), ovvero quella di “psichedelizzare” il sound degli anni 60 e le ritmiche del Pop. La ricerca della voce adatta si rivela essere impresa tutt’altro che banale e soltanto nel 2012 la band può beneficiare dell’apporto di Matina Sous Peau, perfetta interprete dei testi di Frelini. La produzione è affidata a King Elephant che presterà la sua arte ai giovani musicisti per dar vita al primo album di debutto, dall’omonimo titolo. L’album si presenta troncato in due di netto. I primi cinque capitoli si prestano bene a raccontare una sonorità parecchio datata, ma stagionata bene al punto da sembrare tutta roba nostra. La vena Psichedelica realizza un sofisticato meccanismo di “vigormortis, in grado di confutare il ben più noto rigor, annientando la rigidità e dando spazio all’energia dell’immortalità. Una rilettura personale di un’epoca fiorente in termini di musica, di cui si fa portavoce il nuovo singolo estratto dal disco: “Yellow Balloon”. La traccia successiva si prende il lusso di scomodare un Pop’n’Roll estinto oramai da qualche decennio. Il titolo stesso sembra voler riecheggiare vecchi schemi oggi abbandonati, proponendo una “Girl who Looks Like a Boy” come non se ne vedevano da tempo.

La seconda parte dell’opera si dona personalità attraverso suoni molto più scuri ed introversi, pur mantenendo il suo style retrò. La traccia numero sei prende il titolo di “Reflections of your Mind” e sembra quasi un brano scritto dai Silversun Pickups e bene arragiato dai geni dei Mars Volta. Lo stile cambia di netto e richiama in gioco gli Animal Kingdom, quando in “Paper Planes” la voce di Matina si fa spazio fra gli strumenti ed afferma la sua posizione rispetto alla musica. L’apice si ha in epilogo, con una “Endless Fairytale” che realizza un perfetto matching fra il New Age e la cupezza caratteristica della seconda sezione dell’opera. Il risultato è strabiliante. Una perfetta sintesi di arte e melodia. Il tema ricorrente (an album starring the character of a woman in search of love, longing, separation and redemption, set against a backdrop of daydreaming, drugs and the hot sand of a summer beach, dicono di sé I My Drunken Haze) conferisce omogeneità ad un’opera dal profumo di impresa. L’esito è positivo e se la Grecia lentamente affonda, ci pensano cinque teste calde a riportare il sorriso sulla bocca di tutti.

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Edda – Stavolta Come Mi Ammazzerai?

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“Ma che voce ha Edda?!”: ti ascolti “Coniglio Rosa” e già lì senti lo spessore, la tecnica e il timbro, il tiro, il fuoco. Ho visto Edda dal vivo una sola volta, e non era nemmeno un suo concerto intero. Immediatamente ammaliato, nonostante io non avessi mai seguito i Ritmo Tribale per motivi anagrafici e i suoi altri dischi solisti, Semper Biot e Odio I Vivi, non mi avessero affascinato abbastanza da andarci a scavare. Poi arriva questo Stavolta Come Mi Ammazzerai?, e l’effetto è deflagrante, esplosivo. Edda inanella ben diciassette (brevi) episodi di Rock ritmico e stranamente accessibile, con un cantato da manuale, indomito, selvaggio, sfrenato, e testi che più che taglienti sono sferzanti, crudeli, sboccati fino all’esagerazione (“Lo sai o non lo sai / la mia ragazza fa l’attrice porno / è una succhiacazzi / ma quello che io voglio / fammela venire / con le sue facce da troia…”).

Edda è un animale, Edda non è rappresentazione ma solo realtà, con la schiettezza e la sincerità che ti fanno mettere la A maiuscola alla parola Artista, quel coraggio di essere “sempre nudi”, non importa quanto sporco ci sia, quante ombre ci spaventino. E lui canta, alto, con quel suo modo tipico, tirato, con le consonanti smangiate, a pezzi, frammentate, la gola che vibra tra un acuto e un ringhio, ed è una di quelle rare volte in cui un disco ti può prendere alla pancia, stritolarti le viscere, anche solo per simpatia, anche solo perché noti in quelle vibrazioni una qualche verità, che per questa volta è riuscita ad arrivarti addosso nonostante le interferenze e le distorsioni del mondo imperfetto che sta attorno, cornice limitata e limitante. Stavolta Come Mi Ammazzerai? è un disco molto Rock, senza compromessi, che spinge e tira, si appoggia e risale, lasciando nel frattempo il giusto spazio a questo mix di vocalità, personalità e poesia brutale, lurida, che è il personaggio Edda. Difetti? L’istrionismo, si sa, o trasporta o irrita. Ed è difficile entrare in questo piccolo mondo sporco, perché è il mondo di Edda, e per starci comodi bisognerebbe essere lui, e non si può: possiamo solo infilare la testa per un po’, fare capolino, e goderci il trambusto finché possiamo, finché riusciamo.

Il mio consiglio è: provatelo. Lasciatevi aperti all’ignoto e buttatevi in questa lordura, non scandalizzatevi e cercate quel punto dentro di voi dove c’è ancora uno spazio per riconoscere qualcosa di forte, qualcosa di importante, seppur immerso in un’apparente e sconvolta follia. Potreste rimanere sorpresi, e scoprire che questo personaggio strano, questo cinquantenne malandato che sembra avere la sindrome di Tourette e qualche altro paio di disturbi di personalità, sotto sotto racconta qualcosa anche a voi.

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Fractal Reverb – How to Overcome the Ego Mind

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Scoperti per caso, i lodigiani Fractal Reverb hanno saputo stupirmi con il loro demo homemade How to Overcome the Ego Mind, un disco di nove tracce di varia origine (home studio, prove live, unplugged, ecc.) che raccoglie alcune canzoni del trio in attesa del loro esordio sulla lunga distanza. I Fractal Reverb mettono insieme in modo molto fresco e incauto un mood Grunge, lineare e ruvido, e strutture Math Rock dai tempi spezzati e dai minutaggi infiniti, con un gusto Post Rock nel riempire i vuoti con effetti ossessivi e chitarre precise e frizzanti, sempre nel punto giusto, con un’attenzione curata alle dinamiche e ai movimenti onirici à la Tool, sebbene con molta più melodia, cosa che li rende potenzialmente accessibili anche alle orecchie più sensibili. Gli arrangiamenti sono sorprendentemente attenti agli incroci tra gli strumenti (il basso è usato in modo semplice ma arguto, la chitarra, già si diceva, è sempre nel posto giusto, la batteria non esagera in complicati virtuosismi ma sa ritagliarsi il suo spazio con facilità). Il tutto condito con una voce femminile che però non è eccessivamente delicata, e che quando è effettata e bagnata di riverberi e delay accompagna gli strumenti senza distogliere dall’atmosfera cupa e psichedelica dei brani.

Arriviamo ai lati negativi del lavoro: la parte tecnica è senza dubbio da migliorare, ma ricordiamoci che si tratta di un demo, con tracce dalle origini più disparate. Al di là del sound della registrazione, si notano comunque sbavature e ingenuità, dall’errore d’entrata della batteria alla voce non sempre al massimo dell’intenzione, dai suoni di chitarra che possono essere migliorati a strutture che possono essere asciugate o comunque affilate, trasformando le canzoni, dai patchwork che sono ora, in opere magre, taglienti, che non lascino via di scampo, magari abbandonando le atmosfere più propriamente grungy (“Dystonic Wave”) per più folli (e interessanti) cavalcate oscure e penetranti alla Kubark (“Spleen”, “Natural Sounds”).

Insomma, c’è tanto da aggiustare e da calibrare nel lavoro dei Fractal Reverb, ma mi pare di sentire in sottofondo un’anima luminosa, un guizzo di gusto che non lascia indifferenti, e che, con il giusto sforzo, potrebbe portare la band in direzioni molto, molto interessanti. Sono dell’idea che band del genere, band dove si può indovinare qualcosa di più oltre l’errore tecnico o la resa sonora, siano band da supportare, non alla cieca, ma spronandole a levarsi di dosso le sporcizie dell’immaturità per levigarsi la pelle alla ricerca dello splendore sotterraneo che, forse, nascondono. I Fractal Reverb sono una scommessa, dipende da loro quanto vincente. Io aspetto, con curiosità e un po’ d’apprensione, la loro prossima fatica.

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GramLines – Coyote

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Non è di certo una novità che il Veneto sia culla di sana musica. Abbiamo spesso sentito parlare di One Dimensional Man, progetto idea del geniale Pierpaolo Capovilla, dei Non Voglio che Clara, determinati e scuri, degli Artemoltobuffa, simpatici, indipendenti e dal carattere naif. E quanti locali hanno passato “Warp 1.9” del progetto The Bloody Beetroots o il metallo degli Arthemis. E la Patty Pravo che riecheggia per le strade. La lista è sufficientemente lunga e la conosciamo bene, ma oggi siamo interessati ad un nome soltanto: GramLines. Sono in cinque e sono di Padova. Tutta roba italiana, recitata in inglese, che ben si addice allo stile aggressive Alternative che hanno deciso di abbracciare. Nel 2012 esce il primo EP della band, sotto il titolo di Burning Lights EP e due primavere dopo, in maggio sboccia un nuovo lavoro: Coyote EP, suonato su palchi condivisi con nomi del calibro di Linea 77 e Zen Circus. Non male.

Il disco si presenta caratterizzato da tonalità molto impetuose, perfettamente realizzate nella stesura di “The Bone”, capitolo #2. L’orecchio viene inevitabilmente spiazzato da un basso incredibilmente in linea con quanto proposto dai The Strokes ed il paragone è inevitabile, seppur mancante la vena Indie, sostituita da un perfetto stile Alternative. Il risultato è di gran lunga più orecchiabile, caratterizzato da venature a tratti metalliche e a tratti Blues Rock, nulla togliendo ai mitologici newyorkesi. Nell’episodio successivo si fa spazio a tastiere ed arpeggi maggiormente melodici, accompagnati da lievissimi chorus, ma lo stile si afferma e continua a risaltare quella tendenza Blues di cui poc’anzi. Le estroverse chitarre di Stefano Bejor e la camaleontica voce di Francesco Campaioli ben sanno raccontarsi attraverso gli oltre 6’ di “The Road”. Ma Coyote EP sa farsi ben apprezzare e non ha di certo paura di sfoggiare strutture alternative attraverso l’intro Rock’n’Roll di “The Thrill of a Breakdown”, che cede presto spazio al bit bass di Alberto Pavinato. Strutture non di certo banali accompagnano l’intero brano per tutta la sua durata, donando alla traccia un carattere molto più internazionale. L’ultimo episodio dell’EP continua a manifestare lo spirito animalesco dei cari GramLines ed è soltanto a questo punto che si riesce ad apprezzare pienamente il timbro di Francesco e le doti artistiche di tutti i musicisti protagonisti del progetto. Una splendida credit track per uno splendido lavoro.

Nulla da aggiungere, a questo punto, attraverso Coyote EP la vita diviene una strada. È questo il tempo delle bestie? Amano raccontarsi così. Noi intanto raccontiamo le aspettative attraverso un giudizio dal carattere interessante, in attesa di un vero album studio.

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Finistère – Alle Porte della Città

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L’esordio dei Finistère sa di caramella senza marca, un gusto dolce e comodo che non riesci a collegare ad un nome, ad un’immagine, ad un’identità precisa. In Alle Porte della Città i quattro lombardi suonano un Pop Rock di matrice Indie che non si inventa granché, anche se riesce a piazzare qualche discreto colpo d’orecchiabilità e melodia. Carina la scelta delle due voci che armonizzano costantemente, anche se in qualche caso questa soluzione fa suonare alcune linee melodiche come eccessivamente artificiose: le rende spigolose e quasi meccaniche (“Lo So che Mi Odi”). Testi per la maggior parte ininfluenti, storie dipinte con pennellate che sembrano frettolose, generiche, confuse. C’è la voglia di raccontare, ma immersa in un’indeterminatezza che disorienta. Si poteva fare qualcosa di più.

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L’Officina della Camomilla – Senontipiacefalostesso Due

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La band-giocattolo brainchild di Francesco De Leo torna ad un anno di distanza dall’esordio con il seguito, Senontipiacefalostesso Due, titolo esplicitamente strafottente e che già dà l’idea di quell’arroganza bambinesca e sognante che sorregge tutto l’immaginario de L’Officina della Camomilla. Più che il seguito del primo disco, comunque, Senontipiacefalostesso Due è considerabile come una sua seconda parte, e ne prosegue il discorso in modo omogeneo (è cosa nota che il repertorio de L’Officina sia pressoché infinito, e che lo sia stato già da prima dell’uscita su Garrincha). Abbiamo anche qui due direttrici che fanno da scheletro ai quindici brani del disco: un cantautorato giocattolo, naif, fatto di chitarre acustiche, arpeggi, pianoforti che gocciolano, archi malinconici, tastiere e synth; e un Post-punk indie dalle chitarrine acide e la batteria pestata, distorsioni spuntate da forbici arrotondate. Personalmente riesco a farmi convincere più dal primo dei due mood (“Piccola Sole Triste”, “E Londra e Londra”, “Gentilissimo Oh”, “Bucascuola”) che dal secondo, che mi sembra un po’ più paraculo, come se fosse un vezzo più superficiale (anche se, ogni tanto… per esempio, “Rivoltella”). In ogni caso, l’asso nella manica del quintetto è la voce di De Leo, e quando scrivo “voce” non intendo solo il timbro vocale e lo stile canoro, ma tutto il punto di vista, ingenuo e tagliente, meravigliato e cinico, spensierato e lunare, malinconico e ironico assieme. È su questo fulcro che gira tutta la band, e se non sapete farvi trascinare dai flussi di in-coscienza di questo “bambino stronzo” allora per voi ascoltare L’Officina della Camomilla sarà piuttosto una tortura che uno strano, vergognoso piacere. Che possa convincere o meno, De Leo si è creato un mondo, fatto di nazipunk e kebabbari, campi a grancassa, gente col labbro spaccato e meringhe e lexotan, biciclette e squatter, licei che sembrano fabbriche, muri che sbavano… uno stile inconfondibile, che per forza di cose divide in estimatori e bestemmiatori. Io, mio malgrado, mi trovo nel primo gruppo, ma sarò capace di lasciarmi andare senza sensi di colpa solo quando riusciranno a perdere la strafottenza indie sopra le righe, ché sembra sempre che debbano strafare per convincerci a schiaffi (“Biciclettapirata”, “Ho Visto un Nazipunk sul Tram”), quando potrebbero tranquillamente sussurrare storie nella penombra e farci innamorare perdutamente (“quella giovane donna appartiene a nessuno, e a nessun altro”). Spero, ardentemente, nel loro invecchiare.

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Deerhoof – La Isla Bonita

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Lo avrete letto ovunque e questa storia vi avrà anche annoiato ma mi è impossibile non iniziare a parlarvi de La Isla Bonita senza partire dalla sua dichiarata genesi, non fosse altro per la passione del sottoscritto per i fast four. Tutta colpa dei Ramones, a quanto pare. Avrete presente “Pinhead”, brano incluso nell’album Leave Home dei newyorkesi? A un certo punto qualcuno si è chiesto perché Satomi Matsuzaki (basso e voce) e la sua banda non scrivessero canzoni di quel tipo ed ecco che Greg Saunier (batteria e tastiere) butta giù in un baleno la bozza di quella che sarà “Exit Only”, traccia numero sei che diventa il centro nevralgico dell’intera fatica. Non sarà questo l’unico omaggio diretto dell’opera; già l’opening (“Paradise Girls”) nasce come cover di “What Have You Done for Me Lately” di Janet Jackson, anche se poi il brano ha subito alterazioni tali da diventare qualcosa di nuovo mentre “Black Pitch” prende spunto da 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, realizzazione letteraria di Jonathan Crary che esplora il susseguirsi disastroso e lo sviluppo devastante del capitalismo moderno.

Quello che è indubitabile è che con circa venti anni di carriera alle spalle e una quantità non indifferente di full length, ep, singoli, live e apparizioni in compilation, nonostante i cambi di formazione, ancora è durissima trovare qualcuno che possa sedere al fianco di Ed Rodriguez e John Dieterich (chitarre) oltre che dei due già citati Greg e Satomi, sia in quanto a stile sia come qualità. Il loro Pop destrutturato è cangiante a ogni volteggio, si veste di matematiche e fredde stoccate per poi ricomporsi in melodie accattivanti o ancora aggredirci con poderose cavalcate Punk. Insegue ritmiche Dance Pop soffocate da strati di chitarre Noise da far sanguinare le orecchie che pure si rifanno a certo Math stile Battles. Art Pop che si trasfigura in un Freak Folk tra Animal Collective, Dirty Projectors e Tune-Yards per poi divenire nuovamente altro. Nulla è direttamente riconducibile ad alcunché di noto anche se ogni cosa ha il sapore vago del conosciuto. La linea vocale di Satomi regala un incredibile tocco di delirio nipponico come nella migliore tradizione Experimental del Sol Levante. Non manca inoltre di trattare temi di stampo politico, economico e sociale (“Mirror Monster”, “Last Fad”, “Big House Waltz”). Riesce anche ad allentare le tensioni con una sognante e psichedelica atmosfera caraibica che fa pensare a dei Vampire Weekend sotto gli effetti di qualche allucinogeno andato a male (“Doom”).

La Isla Bonita si chiude quasi con un gioco (“Oh Bummer”), con i membri a scambiarsi gli strumenti, voce compresa, come a ribadire una certa voglia di dire le cose per bene, fare le cose per bene ma senza prendersi troppo sul serio (lezione portata avanti con successo anche dai Flaming Lips) perché il segreto di questo disco alla fine sta tutto nella sua follia allegra, nei suoi deliri colorati, nel suo caotico ordine innaturale.

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Nicolas J. Roncea – Eight (Part One)

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Prima parte di una trilogia di album contenenti ciascuno otto canzoni, Eight (Part One) di Nicolas J. Roncea nasce da alcune considerazione dell’artista sullo stato della musica dal vivo oggi: “L’interesse per la musica dal vivo, mi riferisco soprattutto a quella di nicchia, purtroppo è calato notevolmente e che la stragrande maggioranza degli appassionati ascolti musica quasi solo ed esclusivamente su Spotify o Youtube è una verità appurata e non è da considerarsi come una grande novità ormai. Sono orgoglioso degli ultimi brani che ho scritto ed ho pensato che tentare una nuova strada, utilizzare uno strumento per me ancora inedito, potesse essere un buon modo per arrivare a catturare l’attenzione di chi magari ad un mio concerto non ci sarà mai ed allargare i miei  orizzonti”. Roncea dunque dallo scorso gennaio presenta i suoi brani in anteprima su Youtube,  brani che poi andranno a formare, per l’appunto, tre album distribuiti digitalmente e, infine, un cofanetto fisico, che li conterrà tutti e tre. La prima parte è composta di canzoni per voce e chitarra, sulla scia dei songwriter di stampo anglosassone come Damien Rice, che infatti viene omaggiato con una cover posta in calce al disco, dove appare anche un pianoforte. Eight (part one) è dunque tutto qui: otto canzoni (anzi, sette, considerata la cover) di Folk in inglese, confezionato in maniera pregevole ma senza particolari guizzi, cosa peraltro dovuta anche alla voce di Roncea che non ha la delicatezza e il virtuosismo di un Damien Rice, ma non ha neanche la malinconica stortura di un Elliott Smith. Gli arrangiamenti sono per forza di cose minimali e lineari (come si è già detto, voce e chitarra) e quindi l’ascolto un poco ne risente. Le canzoni hanno una loro forza, ma questa si stempera nella prevedibilità del pacchetto. Aspettiamo il seguito della trilogia per osservare come si evolverà il progetto in un habitat meno scarno.

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C’mon Tigre – C’mon Tigre

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Non sono trascorsi molti giorni da quando ho ascoltato il primo singolo dei C’mon Tigre e circa gli stessi da quando ho ammirato il videoclip di “Federation Tunisienne de Football”, animato dal pittore Gianluigi Toccafondo, perfetta resa video dello spettro caleidoscopico del collettivo, progetto dalle mille anime che mette al centro il crocevia culturale del bacino mediterraneo. Da quel primo contatto, tanta è stata la curiosità su come avrebbe potuto mutare la musica in un contesto full length e dunque, avere ora la possibilità di origliare l’album autoprodotto, è qualcosa che mi stuzzica particolarmente.

Il sound dei C’mon Tigre è una mescolanza di Funk, Jazz, World Music, Rock, Afrobeat tutto in chiave sperimentale e libera da ogni schema di sorta. Difficile tracciare dei paragoni mentre più agevole è viaggiare per immagini, data la natura inebriante, seducente e stimolante di tanta ostentata vena creativa. L’uso di riff ossessivi su ritmiche cadenzate e chitarre fioche che dipingono melodie dal sapore mediorientale e le mirabili illustrazioni esotiche collaborano a creare un’atmosfera vagamente psichedelica e cinematografica. I tredici brani composti dal duo C’mon Tigre e arrangiati con la partecipazione di artisti di tutto il mondo (Jessica Lurie, Henkjaap Beeuwkes, Pasquale Mirra, Ahmad Oumar, Enrico Fontanelli, Danny Ray Barragan, Eusebio Martinelli, Dipak Raji, Rocco Favi, Paolo Berluti, Malik Ousmane e Simone Sabini) divengono un’ideale colonna sonora per un film astratto che vi vedrà protagonisti dentro sceneggiature afro, tra scene di sesso bollente, sudato, sabbioso, baldacchini e profumi sinuosi che avvilupperanno la vostra mente mentre le parole raccontano tutt’altra storia, fatta di calcio e di Africa; anzi tante storie diverse. Il Mediterraneo al centro di tutto ma innumerevoli contaminazioni che sviscerano e strappano il sound di questo debutto omonimo da ogni possibile catalogazione; allo stesso modo, due forze sono quelle che hanno creato tutto questo eppure tanti sono i volti che potrete riconoscere seguendo i tredici brani. Alla lunga, gli oltre cinquantasette minuti potranno anche stancarvi, forse risultando eccessivamente ripetitivi ma l’esperienza d’ascolto di questo C’mon Tigre sarà talmente intensa da somigliare più a un rapporto sessuale che ad altro, a quel tipo di pratica nel quale cinquantasette minuti possono sembrare anche sette ore, per l’intensità e il trasporto che generano. Quello che posso augurarvi è che, il tredici ottobre, data di uscita ufficiale, possa fare ancora abbastanza caldo da ascoltare tutto, da “Rabat” a “Malta”, avvinghiati alla vostra amata, sudando sotto un sole brillante come il Mediterraneo.

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Cristina Donà – Così Vicini

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Ciò che mi sorprende dell’ottavo disco dell’incantautrice Cristina Donà è la voglia che ha ancora di giocare, di tessere le sue canzoni di dettagli e rifrazioni, di non esaurirsi nel compito, nell’abuso del già fatto, ma di procedere sempre in avanti, o di lato, anche per piccoli scarti: non è che si faccia sperimentazione, ma almeno si testano soluzioni non ovvie, soprattutto per quanto riguarda gli arrangiamenti (di Saverio Lanza), ma anche nelle armonie, nelle linee melodiche (“L’Infinito nella Testa”, “Perpendicolare”, “Senza Parole”). Così Vicini è un disco piccolo, intimo, sussurrato, ma con grazia luminosa, preziosa. Intessuto di parole dirette, scarne, semplici, ma dagli accostamenti che risuonano di un’eco profonda (“Corri da me che i pianeti si spostano / e prima o poi sposteranno anche noi”, “Corri da Me”; “Hanno chiesto di te le sedie, il tavolo, il divano / un soprammobile da poco ritrovato / era nascosto come me che ti aspettavo”, “Il Tuo Nome”). È un disco che miscela atmosfere, musica e testi imbevendoli di luce calda, e tutto sembra al suo posto, in un ordine naturale e quasi miracoloso – e che, a questo proposito, mi ricorda l’ultimo di Carmen Consoli, Elettra, anche se con altre sonorità, e un’altra poetica. Sonorità che qui vanno da un mood seventies posato e elegante (la title track) ad un Rock morbido e senza spigoli (“Il Senso delle Cose”), in un pastiche sonoro spesso incatalogabile, onnivoro, iridescente.

Cristina Donà ci racconta i ricordi dell’infanzia, l’amore per la propria terra, i bisogni e gli affetti, il desiderio anche fisico, il fascino dell’infinito e dell’imprevedibile, del sentirsi vivi e del dirsi vivi insieme, il tutto guardato dal basso, con gli occhi dei bambini, lo sguardo di chi si è appena svegliato, di chi vede le cose per la prima volta, o si ricorda di com’era scoprirle allora. Così Vicini ha il candore di una vita nuova, ed è piacevole lasciarcisi andare, lasciarsi sorprendere.

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