Stereonoises – Colours in the sky

Written by Recensioni

Hanno fatto davvero un buon lavoro questi siciliani Stereonoises, qui al decollo ufficiale con “Colours in the sky”, un nove tracce abbastanza intrigante, ben suonato e puntato direttamente oltre le scogliere di Dover, lì in quell’Inghilterra filtrata attraverso i Ray-Ban a goccia di Bono degli U2 Time”, “I’m still here”, “How long”, il Noel Gallagher “Something you should know” della spinta solitaria ed il concetto impattante di una certa ruvidezza morbida sullo stile Kelly Jones degli StereophnonicsTonight”, “Room on fire” e tutto ciò non fa altro che lievitare “in alto” le azioni di quest’album che riunisce due anime e culture diverse ma senza la presunzione d’essere “terrificante”, soltanto un buon esempio di come una qualità emergente sia all’altezza, pronta, per produzioni dalla mira verticale; la band da vita ad una ricchezza di suoni capaci di mediare brillantemente fra certe atmosfere indie che s’innestano come satelliti vaganti e lo spunto – ora uggioso, ora estetico – del brit meno glucosato, di quella concezione apparentemente non allineata che non si porta dietro i modelli generazionali, piuttosto le planimetrie riconoscibilissime di un’epoca che ha dato pathos e sangue dolciastro, fino a ritrovarle beatamente adagiate dentro questo registrato.

Buoni gli arrangiamenti ed il respiro internazionale che gli Stereonoises esaltano senza sforzo, una caratterialità quasi naturale che li rende autonomi dalle vetrofanie di tanti loro colleghi, una dosatissima miscela d’elettricità e tensioni melodiche che – una volta evidenziata dalla bella vocalità del cantante – si mette a disposizione di un ascolto molto, ma molto interessato; dunque antenne puntate sulle venature leggermente rock-wave tratteggiate nella title-track o nella punta di diamante dell’intero disco, quella ballata che ti trascina dentro consistenze vaporose e sofferte,  dove puoi incontrare sia il Billy Corgan, il despota del melone sfracellato sia il passo lento e ironico di un Lou Reed spelacchiato ed imberbe, lungo i marciapiedi umidi e tristi della Hassle Street NewyorkeseMakin’ a circle”.

Davvero un buon lavoro per una band che ha costruito le proprie basi su di un sound deciso, determinato, una dotazione sonora e poetica che sa rallentare e darsi a manetta con professionalità insospettata, che mi strappa un punto in più oltre la lode, semplicemente vincente, esordientemente grande.

 

Last modified: 16 Marzo 2012

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