Radioclone -Velia

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Come non notare in questo power trio (si autodefiniscono così e ci azzeccano alla grande) lo spirito di Kurt. Ennesima dimostrazione che il biondino maledetto ha lasciato un segno indelebile dagli anni 90 ad oggi. In miriadi di band italiche spara ancora le sue cartucce, esplodendo come una bomba nello stomaco di ragazzi pronti a sfoderare gli strumenti con la sua faccia stampata negli occhi. Ci sono ancora nelle sale prove e nei concorsi regionali i sintomi di quella ribellione angosciante che ci ha insegnato il maestro del grunge? Pare proprio di si, anche se questa volta i musicanti in questione non sono proprio dei pischelli. L’esempio che vi riporto non è forse dei più “freschi”, perché a vedere le facce del trio in questione è possibile che Kurt se lo siano visto negli anni d’oro in diretta su MTV.Radioclone è un progetto che parte da Biella nel 2004 ed è al terzo episodio: “Velia”, un EP dal carattere altalenante, instabile come l’icona bionda e decadente che rivive dentro il “clone” a vent’anni di distanza. La sua ombra pare onnipresente. Si guadagna subito il suo spazio nelle chitarre dilatate della title track, e tramite i feedback sfumati a fine canzone imposta la data 1992 sulla macchina del tempo.

Il disco è protetto dalle sante chitarre taglienti (ottimo Stefano Buttiglieri alla 6 corde), che sebbene siano “sicure” non sono mai scontate, registrate magistralmente e ben intersecate con la sezione ritmica in cui spicca la rocciosa presenza di un basso Rickenbacker da schiaffi in faccia.

In bilico tra buoni spunti e banali linee è invece la melodia, in “Valle dei no” la ricerca della semplicità anni 60 (la chitarra ululante e slabbrata fa scempio di un esile beat-spensierato) vince sui contorti e scontati biascichi alla Manuel Agnelli di “Terre emerse”, salvata solo dalla solita chitarra sufficientemente fuori dagli schemi e da un buon testo incazzoso.Le sonorità poi prendono una sbandata oltre oceano e le ombre grunge vengono offuscate dalla nebbia di Sheffield. Ma tutto rimane nei binari, quando parte “La Falce” il frenetismo Artic Monkeys si sposa bene con l’attitudine da maglione sgualcito dei ragazzi. Attenzione però, questo non è il brano più deviato, “Batta” è un po’ Tiromancino un po’ Radiohead e le parole strisciate e solitarie accompagnano una struggente ballata acustica cadenzata da un riff di chitarra (di nuovo lei?) sensuale. Gran contrasto e miglior brano del disco. I ragazzi avessero rischiato un po’ di più in questa direzione invece di insistere in polverosi feedback avrebbero tirato fuori un bel gioiellino. Il resto è invece pura scuola, prendere appunti, riportare in bella copia e con nuova calligrafia preziosi insegnamenti. L’ombra riprende la sua forma madre e il clone ritorna più simile all’originale fino all’ultimo goccio: “III” ricorda tanto i Verdena ed elogia la maestria dei ragazzi in incastri ritmici e dinamica.Come in copertina, il bicchiere rimane un po’ mezzo vuoto. Una buona metà è già stata bevuta 20 anni fa dall’ombra e da tutti i suoi soci.

Last modified: 14 Settembre 2012

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