Musica fatta con anima e corpo | intervista a Marina Herlop [ITA/ESP]

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[ITA]

“Che fanno?”, le chiedo mentre passiamo sotto all’iconico pannellone solare in direzione del palco Adidas, dove si stanno esibendo i suoi compagni di etichetta Doble Capa, ma prima ancora di arrivare si sente già la batteria pestata a dovere da Arianne Picón, metà di questo esplosivo duo di autodefinitisi trashblueseros. Marina è barcellonese di adozione ed è un’ottima occasione per guardare un festival internazionale con gli occhi degli ospiti. L’ho incontrata poco fa davanti allo stand Rough Trade, in questo caldissimo secondo giorno di Primavera Sound 2018, una tipa sorridente che poco corrisponde alle foto che ho visto di lei sul web, che la ritraggono serissima e quasi sempre in un distinto bianco & nero. Mi presenta due amici e mi chiede se mi va di accompagnarla al concerto prima di sederci a chiacchierare. È spontanea e appassionata mentre parla di musica, che si tratti della sua o di quella di altri, e mentre cerca di spiegarmi a parole il senso di ciò che fa la sorprendo a gesticolare come un’italiana, a indicarsi il centro del petto con entrambe le mani come a cercare il punto esatto in cui nasce il tutto – il cuore, lo stomaco, o magari un luogo esattamente a metà tra i due. A soli 26 anni Marina Herlop ha già talento e personalità da vendere, ma soprattutto – ci tiene a precisarlo più volte – l’umiltà per comprendere che quello di un musicista che fa della sperimentazione il proprio mantra è un percorso difficile che non deve fermarsi al primo traguardo.

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Già due album come Marina Herlop ma la tua carriera musicale è iniziata all’interno di una band, giusto?

Sí. Avevo 19 anni, eravamo un duo, Viva Vladimir. Io cantavo e il tipo suonava la chitarra. Non abbiamo fatto molti concerti ma è durata abbastanza per farmi tornare la voglia di ricominciare con la musica e tornare a suonare dal vivo.

Era un progetto molto diverso rispetto a quello che fai ora come compositrice col tuo progetto da solista?

Abbastanza, si trattava pop folk, ma sempre in chiave alternativa, mi è sempre piaciuto sperimentare. Inoltre cantavo in modo molto differente – avevo dei noduli alle corde vocali, ora il cantato è molto più studiato per evitare di procurarmi danni – e soprattutto non ero io a comporre. In ogni modo quello che volevo fare era suonare, per cui dovevo comporre, ed ero circondata di gente che lo facevo per cui fu una cosa del tipo “ok, posso farcela anch’io”.

E ti sei anche rimessa a studiare.

Sì, perchè a livello tecnico mi sentivo poco preparata. Il mio strumento è da sempre il pianoforte però mi rendevo conto che la tecnica mi mancava sia da quel punto di vista che dal punto di vista della voce. Ho ripreso gli studi musicali anche se mi toglievano tempo utile per comporre, però poco a poco le mie dita acquisivano scioltezza. Ho ancora molto da imparare ma credo che adesso posso farcela, non sono più imbarazzata quando suono in pubblico, posso cavarmela!

Addirittura ti imbarazzava?

È che erano tanti anni che non suonavo quando è iniziata coi Viva Valdimir. Quando ero un’adolescente ho abbandonato il pianoforte perché lo sentivo come un obbligo. Anche se continuavo a dire “suono il piano” in realtà non lo facevo, dicevo a me stessa “un giorno ricomincerò a suonare” ma poi c’era sempre qualcos’altro, prima la scuola, poi l’università… Poi un giorno questo ragazzo che conoscevo mi dice di voler formare un gruppo e mi chiede se conosco qualcuno che suona il piano. Così abbiamo iniziato a suonare insieme ma lui era molto più bravo di me, per cui abbiamo deciso che io avrei cantato. Mi piaceva ma continuavo con questa cosa di voler aggiungere anch’io qualcosa a quello che scriveva lui. Alla fine arrivò l’illuminazione: dovevo smetterla di fare cose che avevano già smesso da tempo di interessarmi e dovevo mettermi a studiare musica. Ho avuto la netta sensazione che, se davvero volevo farne il mio lavoro, stava per passare l’ultimo treno disponibile.
Quello che è accaduto quando mi sono messa a studiare è che ho iniziato a rendermi conto di quanto è grande la musica e di quanto poco ne sapevo io. A quel punto ho avuto una specie di crisi perché sapevo di volerlo fare ma non ero capace di dirlo ad alta voce, vedevo che il mio giudizio cresceva molto più rapidamente rispetto alle mie capacità, e dopo sei mesi di studio mi sentivo ancora più ‘piccola’. E poi pensavo “voglio fare la musicista, ma come glielo spiego ai miei?”. Suonavo un sacco ma lo facevo di nascosto, ma alla fine un po’ alla volta tutto ha preso forma. In questo mi ha aiutato molto il fatto di aver iniziato con un progetto tutto mio, di aver creato qualcosa che aveva un buon riscontro tra i miei amici e anche tra i miei insegnanti – sono sempre stata molto ‘accademica’, molto dipendente dal giudizio di quelli che considero le ‘autorità’. Per cui all’improvviso mi sono accorta che sì, anch’io avevo qualcosa da dire, ed anche che ero capace di farlo. Credo che chiunque faccia qualcosa, chiunque lo faccia realmente, deve sentirsi insignificante, anche solo per il fatto di essere umano, ma anche non sarò capace di fare qualcosa di perfetto continuerò a farlo con lo stesso impegno. Non mi importa se comporre significa rinunciare a un certo tipo di benessere, se mi sento distrutta ma sto lavorando come voglio mi sta bene così.

Sul tuo primo lavoro hai detto una cosa: “Per quanto possa sembrare una cosa sdolcinata, la ragione per cui è nato Nanook è perché porta il nome che avrei voluto dare al mio primo figlio. In qualche modo, questa è la prima volta che metto al mondo qualcosa che prima non esisteva”. Io la trovo una cosa intensa e niente affatto sdolcinata.

Io credo che quello che sei venuto a fare al mondo lo farai più o meno verso i 30 anni, per cui prima di allora c’è da prepararsi. Sembra che tutti qui siano nati per farsi una famiglia, comprare casa e fare figli, mentre io sto prendendo una strada molto diversa, anche rispetto ai miei genitori, quelli che sono il mio riferimento di vita. Il contesto sociale e familiare fa sì che uno si senta a disagio nel volere qualcosa di diverso, ma quando sono venuta a vivere a Barcellona ho iniziato a circondarmi di persone diverse dalla mia famiglia e a sentirmi a mio agio in ambienti distanti dagli affetti della mia infanzia. Forse non sono venuta al mondo per formare una famiglia ma per fare musica. Per vivere in un altro modo. Ho 26 anni adesso e biologicamente sono pronta per avere dei figli ma è qualcosa che vedo molto distante da me. La persona che sono e quella che gli altri si aspettano che io sia mi sembrano come due placche tettoniche che iniziano a separarsi, ma adesso so che esistono tanti modi di essere felici e di donare qualcosa al mondo, e questa consapevolezza mi da tranquillità.

Nella sezione info della tua pagina Facebook non hai compilato il campo “genere”, c’è solo l’emoticon di un sorriso.

Se sei su Facebook significa che puoi andare su Spotify e ascoltare qualcosa, no? (ride, ed.). Seriamente, credo che la musica non debba classificarsi in base alla strumentazione o ai ritmi, ma più che altro secondo la volontà con cui è stata creata. La mia musica è sperimentale, nel senso che faccio musica per vedere cosa trovo, cosa c’è che non ho ancora trovato. Questa è la ‘carota’ che rincorro, perché se non facessi questo cos’altro potrei fare nella vita? C’è gente che fa musica per fare soldi, altri perché lo fanno con i propri amici ed è quello che li unisce, gli intenti sono molti. Se definiscono la mia musica contemporanea o neoclassica o qualcos’altro, per me fa lo stesso.

Ogni artista compositore vuole fare una musica che sia sua, ma poi c’è sempre qualcun’altro con cui relazionarsi, anche quando si tratta solo di produttori ed etichette. Per il tuo primo disco hai lavorato con James Rhodes (Nanook è uscito nel 2016 ed è stato il primo album pubblicato dall’etichetta del compositore inglese, ndr). Che succede quando quello che fai si confronta con gli altri e qualcuno ti chiede di cambiare qualcosa, della tua creazione artistica o magari anche di te stessa? Riesci a far sì che la tua musica continui ad essere tua?

Sì, e non credo che potrebbe essere diversamente. So di sembrare un po’ sfacciata nel dirlo però se così non fosse non avrebbe senso. La gente mi da ogni tipo di consiglio, cose come “ehi, potresti parlare tra un brano e l’altro” o anche “potresti portare i capelli raccolti così”. Tutta la questione di dover pensare all’estetica non la sopporto, anzi, credo che le foto di me che ci sono sul web generino un’immagine di me che non è quella reale…

…Questo è vero, è la prima cosa che ho pensato prima quando ci siamo incontrate! In alcune delle foto che ci sono su internet sembri più grande di età, e poi sei così seria!

Lo so! E anche la musica che faccio, mi fa sembrare così seria… ma in realtà quello che faccio mi diverte! Intendiamoci: quando scrivo, quando registro, là sì che sono seria da morire. Non può esserci nemmeno una nota messa a caso, tutto dev’essere al suo posto, e questa è una cosa che mi consuma, mi fa soffrire, ma allo stesso tempo mi riempie e mi soddisfa. Quando ti infili in questa specie di Sottosopra che è il mondo della musica e poi torni indietro alcune cose del mondo ‘umano’ iniziano a sembrarti stupidaggini. Che mi importa dei miei capelli? È assurda la quantità di tempo sprechiamo in sciocchezze, ma in fin dei conti la vita è un attimo, e credo che il fatto di concepire alcune cose come molto profonde e importanti è per istinto di sopravvivenza.

Sono totalmente d’accordo. Quindi? Cos’è importante per te?

Tutti noi abbiamo bisogno di credere che ciò che facciamo in qualche modo sia importante. Di certo per me la mia carriera è importante, anche suonare al Primavera Sound è importante, però il fatto di chiudermi nella mia stana a comporre mi ha aiutato a focalizzare meglio e a rendermi conto dell’insignificanza della vita umana se la si paragona alla grandezza dell’arte. Tutto ciò che è umano è sporcato dagli affetti e dalle passioni, è imperfetto. Al contrario, nelle forme d’arte come la musica c’è qualcosa di divino. Io non credo in Dio ma ora sto iniziando a scorgere l’esistenza di altre dimensioni, e quindi tutto ciò che sta succedento mi fa sorridere un po’, rido di me stessa quando salgo sul palco e la prendo tanto sul serio e sono così nervosa. È che sin da piccola sono abituata così, a prendere tutto molto seriamente, e il mio corpo conosce la mia paura di fallire. Anche ora che l’ho razionalizzata, è come se non riuscissi a comunicarglielo.

E questo è un qualcosa che influisce sul tuo modo di fare musica?

Secondo il mio insegnante di armonia – poiché sono una persona molto precisa e voglio fare sempre le cose per bene – con la mia musica rifuggo sempre le cose semplici, le scelte convenzionali come quelle dei giri armonici tipici del pop, nelle cose che faccio il prerequisito è che devono essere ‘strane’. Forse ha ragione, chi lo sa come funziona la mente umana?

Tra i tuoi due album è arrivata l’elettronica. Qual è il suo ruolo? È che oggi la gente va ai festival di musica rock e si lamenta del fatto che ci sia tanta musica definibile come ‘elettronica’, ma a me sembra che non abbia molto senso perché in realtà stiamo parlando di uno strumento, di un espediente, non di un genere musicale vero e proprio.

Certo, e credo che – se avessero potuto – anche Debussy, Ravel o Chopin lo avrebbero utilizzato. Io stessa se avessi potuto l’avrei utilizzato già nel primo disco. Non c’è un vero e proprio cambiamento ora, è che prima non avevo le risorse, non conoscevo gente che poteva darmi una mano in questo senso, era una cosa ‘piano e voce’ perché suono il piano e canto – ossia, se avessi suonato la batteria ce l’avrei messa. Stavolta volevo arricchire un po’ il suono, dargli altri colori, sebbene nel primo album ci sia molta sperimentazione a livello armonico – mi fa impazzire l’armonia, è ciò che mi stimola di più, la cosa che mi emoziona di più quando ascolto un brano sono i giri armonici, che sono un po’ come lo scheletro. Però allo stesso tempo da parte mia questa è una visione un po’ riduttiva, perché come non conosco gli altri aspetti e ho sempre timore dell’ignoto – cose come la timbrica, il ritmo, la struttura dei temi – penso “ok, questo non è il mio campo, il mio campo è l’armonia”, ma poi mi sono detta “no, devi iniziare a darti da fare anche con tutto il resto e occuparti di tutti gli elementi della tua musica.” E ieri vedendo Björk ho avuto lo stesso stimolo.

Già, incredibile, è stata estremamente ispiratrice… e non solo per un musicista.

Sì! Per me è stato qualcosa del tipo “che ci fai qua? Vattene a casa a fare qualcosa di buono!”. E quindi sì, in questo secondo lavoro (Babasha, pubblicato il 15 maggio scorso dall’etichetta Aloud Music, ndr) è stato come “ok, basta piano e voce soltanto”. A livello timbrico Nanook è molto piatto, serviva più movimento.

L’impressione che ho avuto io ascoltandolo è che Babasha contiene più elementi, ma al tempo stesso il risultato è più minimal. Come se tu avessi voluto fare di più ma alla fine paradossalmente ci fossi riuscita togliendo qualcosa.

Sì. Quello che volevo fare in Nanook era sorprendere, di continuo e a tutti i costi. Una cosa un po’ da adolescente, un fare un po’ il bastian contrario. Di Babasha ho la sensazione che in fondo ti conduce allo stesso punto ma guidandoti, tenendoti per mano. Como se ti dicesse “saliamo su queste montagne scoscese però tranquillo perché ti ci porto io, e mentre camminiamo ti racconto un po’ di cose che alla fine non ti accorgerai nemmeno della fatica, andiamo nello stesso posto in cui eravamo con Nanook ma il viaggio sarà più gradevole”. Non volevo che Babasha fosse indigesto. Volevo che le dissonanze fossero più eleganti, e soprattutto che per me non fossero un presupposto scontato. Avevo timore che le strutture si ripetessero, che alcuni passaggi fossero troppo pop. Avevo paura di fare cose prevedibili, e che il tutto risultasse troppo convenzionale, poco lavorato. Però a volte bisogna farle perché è la musica stessa a chiedertelo. Volevo che fosse tutto più soffuso, legato e variegato nei temi, però per esempio c’è un brano in cui non cambia mai il tempo, è sempre in 3/4. Ci sono cose che mentre le facevo pensavo “Marina Herlop non farebbe questo”, e subito dopo “ma cosa stai dicendo? Ti stai auto-etichettando, e per di più dopo un solo disco!”, e in realtà è esattamente questo ciò che voglio continuare a fare: cose che Marina Herlop non farebbe (ride, ndr).

Che succede dal vivo? So che di recente hai suonato a La Pedrera. Come devono essere i luoghi per ascoltare un tipo di musica come la tua? C’è qualcosa che non può mancare?

Devo ascoltarmi bene mentre suono. A volte capita di fare il sound check rapidamente e non sono molto convinta ma al tecnico dico che è tutto ok, poi quando inizio a suonare è tipo “oddio, mi sento malissimo” e quindi sto agitata per tutto il concerto. Da parte mia, ci sono alcuni giorni in cui sto tranquilla e me la posso godere ma di solito non è così, suonare dal vivo mi fa ancora ‘soffrire’ un po’ ma sono fiduciosa del fatto che un po’ alla volta mi passerà. Per quanto riguarda le location al chiuso non ho problemi. Ho fatto pochi concerti all’aperto per cui è qualcosa che è ancora nuovo per me, così come suonare di giorno. La verità è che non è tanto lo spazio a coinvolgermi quando la gente, i loro volti. A volte si crea una specie di aura, un silenzio tra il pubblico che ti dice che da quelle parti sta succedendo qualcosa, e quando capita è molto molto fico. Allo stesso modo in effetti è vero che in luoghi molto belli i concerti sono venuti fuori altrettanto belli. E non solo in posti suggestivi come La Pedrera: può essere un luogo qualsiasi ma magari al tramonto, che è una cosa che mi connette molto con lo spazio intorno. L’altro giorno ho fatto una piccola performance in spiaggia, c’era la luce del faro… Quindi sì, credo che alla fine la location finisca per influire in qualche modo.

Se penso ad artiste donne che musicalmente hanno preso una direzione simile alla tua, il primo nome che mi viene è sicuramente quello di Joanna Newsom, ma in realtà ho l’impressione che siano poche quelle che si mettono a fare musica con intenti sperimentali – o forse ce ne sono, ma io non le conosco.

Non so. Io credo che l’ambito della musica sia – o meglio, dovrebbe essere – abbastanza asessuato. Ogni volta che mi capita di chiedermi se voglio davvero fare musica nella vita, una delle poche cose che non mi fanno venire dubbi è il fatto di essere una donna.

Ok, anch’io credo che da queste parti non dovrebbero esserci differenze di genere, però allo stesso modo temo che esistano. In realtà sono sicura che esistano donne che sperimentano e che lo fanno con talento, ma che siano meno note dei colleghi maschi. Quando penso ad artisti che hanno iniziato dal piano e man mano hanno aggiunto elementi durante il corso della propria carriera penso a Nils Frahm, a Ólafur Arnalds…

Forse è così, ma è che io non la penso mai come una cosa uomo/donna. Ok, mi sento più vicina a Joanna Newsom che a Nils Frahm, ma non perché sia una donna. Ieri ho ascoltato Frahm, ero in seconda fila, e ho pensato “bello, respect” ma l’ho trovato molto piatto musicalmente. A livello di suono e di performance mi è piaciuto molto però non mi ha sorpresa, mentre con Joanna ti fai certi viaggi che dici “woo, dove mi trovo?”. Anche Beth Gibbons dei Portishead è una tipa che mi piace molto, ma in realtà per me fa lo stesso se sono uomini, donne o extraterrestri.

Altre ispirazioni?

Il mio ex insegnante di pianoforte, e il mio insegnante di armonia. E non perché suonino bene o ne sappiano tantissimo di musica, ma proprio come esseri umani credo che difficilmente possano esserci persone più top di loro. Quello che mi ispira è come affrontano quello che fanno. Mi hanno insegnato tanto in quanto a umiltà e al fatto di sentirsi insignificanti facendo musica – e questo non in un’accezione negativa che ti porta poi a rinunciare. Io voglio fare il meglio che posso e voglio condividerlo con gli altri, e mi piacerebbe se questo avesse una qualche influenza positiva su altre persone – perché il mio ego sta là ansioso in attesa di successo – e mi piacerebbe suonare qui alle 11 di sera così come piacerebbe a chiunque ma in realtà no, so che il senso di tutto non è questo, so che se finisco per diventare una drama-queen vanesia non la sto prendendo nel verso giusto. Quello che mi capita col mio insegnante è che, anche quando mi spiega cose che non capisco, imparo il messaggio perché mi arriva lo stesso: sei lì a lavorare su una composizione di Debussy e a un tratto ti fermi ad osservarlo e dici “Oddio, con che coraggio faccio musica io mentre esiste già questa? E come fa la gente a dirmi che apprezza la mia musica? Significa che questa non l’ha mai ascoltata”. E così mi rendo conto di quanto può essere grande la musica e di come può esser fatta in maniera tanto sofisticata, elegante e bella, e questo è quello che mi spinge a dirmi “bene, non farò la prima merda che mi viene in mente, mi impegnerò a fare le cose per bene, come forma di rispetto verso la musica tutta”.

C’è qualcuno tra gli artisti che suonano oggi che mi consigli?

The Internet, sicuramente. E anche ArcaThundercat e Tyler The Creator.

Bene, allora ci si vede più tardi!

Certo! Sarò lì a darci dentro!

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[ESP]

“¿Qué tipo de música hacen?”, le pregunto mientras estamos pasando debajo de el icónico panel solar, andando hacía el escenario Adidas, donde en este momento estan tocando su compañeros de sello Doble Capa, pero antes de llegar ya se puede escuchar distintamente la bateria agresiva de Arianne Picón, mitad de esta explosiva pareja que se autodefine trashbluesera. Marina vive aquí en Barcelona y para mi es una buena ocasión para ver a un festival internacional desde el punto de vista de los anfitriones. Nos hemos encontrado hace poco en frente del stand de Rough Trade, es este caluroso segundo día de Primavera Sound 2018, una tía sonriente que no pega mucho con la que vi en las fotos en internet, donde sale muy seria y casi siempre en distinto blanco y negro. Me presenta a unos amigos suyos y me pregunta si me gustaría ir con ella a ver el concierto antes de sentarnos y charlar. Es espontánea y apasionada mientras habla de música, tanto de la suya como de la de los demás, y mientras intenta explicarme con palabras el sentido de lo que hace acaba gesticulando como si fuera una italiana, indicandose el centro del pecho con ambas manos, como buscando el lugar exacto de donde sale a la luz todo – el corazón, o el estómago, o a lo mejor un punto exactamente en el medio de los dos. Con solo 26 años, Marina Herlop ya tiene talento y personalidad para vender, y sobretodo – como ella misma quiere aclarar más de una vez – la humildad para comprendere que lo de un músico que hace de la esperimentación su propio mantra es un camino difícil que no debe pararse al primer logro.

Dos albums como Marina Herlop pero tu carrera musical empezó con una banda, ¿verdad?

Sí. Tenia 19 años y éramos un duo, Viva Vladimir. Yo cantaba y el chico tocaba la guitarra. Hicimos pocos conciertos pero fue lo suficientemente guay para que quisiera volver a hacer algo y también volver al escenario.

¿Era algo muy diferente de lo que haces ahora con tu propio projecto como compositora?

Bastante, era pop folk. Pero siempre algo alternativo, siempre me ha gustado esperimentar. Además cantaba de  manera muy diferente – tenía nodulos en las cordas vocales, ahora mi voz es mucho más projectada por evitar hacerme daño – y sobre todo yo no componía. Pero lo que quería hacer era tocar, entonces tenía que componer, y estaba rodeada de gente que lo hacía, así que fue como “vale, yo también puedo”.

¿Y tambien volviste a estudiar?

Sí, porque a nivel tecnico me sentía poco preparada. Mi instrumento siempre ha sido el piano pero veía que me faltaban recursos pianisticos y vocales también. Retomé los estudios musicales aunque me quitaban tiempo para componer, y poco a poco fui ganando soltura con los dedos. Aún me queda mucho para recorrer pero ahora creo que puedo hacerlo, ya no me averguenzo de tocar el piano en público, ¡puedo defenderme!

¿Asì que al principio te avergonzabas?

Es que antes de Viva Vladimir llevaba muchos años sin tocar. Cuando era adolescente dejé el piano porque lo sentía como una obligación. Aunque seguía dicendo “yo toco el piano” no lo tocaba de verdad, decía “algun dia tocarè” pero siempre había otras cosas, la universidad, el bachillerado… Luego un dia este chico me dijo que quería hacer un grupo y me preguntó si por casualidad conociera a alguien que podía tocar el piano. Empezamos a tocar juntos pero el lo hacía mucho mejor que yo, entonces yo me puse a cantar. Me gustaba pero yo seguía querendo añadir algo a lo que hacía el. Así que al final tuve una revelación: tenía que parar de hacer cosas que habian acabado de interesarme y tenía que ponerme a estudiar música. Tuve como la sensación que, si realmente quería hacer de esto una profesión, ya estaba a punto de pasar el ultimo tren.
Lo que pasó cuando me puse a estudiar fue que empeze a darme cuenta de lo grande que es la música y de lo poco que aún sabía yo. Tuve como una crisis, porque quería dedicarme a esto pero no era capaz de decirlo, veía que mi criterio crecía mucho más rapido que mi abilidad, así que después de seis meses de estudios me sentía aún más pequeña. Y también pensaba “yo quiero ser músico pero ¿como le digo esto a mis padres?” Clandestinamente tocaba mucho pero no lo decía, pero poco a poco todo fue cogiendo forma. Me ayudò mucho el hecho de empezar con mi propio projecto, el hecho de que algo que había salido tuviese una cogida muy buena entre mis amigos y también profesores – siempre he sido muy ‘academica’, muy pendiente de la opinion de los que considero ‘autoridad’. Entonces de repente me di cuenta que sí, yo también tenía algo que decir y que además era capaz de hacerlo. Lo que creo es que qualquera persona que haga algo – y lo haga de verdad – tiene que sentirse insignificante, aunque fuera solamente por el hecho de ser un humano. Pero aunque se que no voy a hacer algo perfecto, siguo haciendolo con sacrificio. No me interesa si hay que renunciar a mi ‘ben estar’ para componer, me da igual de estar hecha una mierda si estoy componiendo un montón.

Sobre tu primer trabajo has dicho “Por cursi que pueda parecer, la razón por la que Nanook tiene derecho es porque quería darle este nombre a mi primer hijo. De alguna manera, esta es la primera vez que estoy entregando algo al mundo que no existía antes”. Yo creo que sea muy intenso y no me parece cursi para nada.

Yo creo que lo que has venido a hacer al mundo lo vas a hacer a los 30 más o menos. Entonces antes hay que prepararse. Parece que a este mundo hemos venido para formar una familia, tener un hogar, hacer hijos… Pero en este momento veo que para mi todo esta tomando un camino diferente de lo que tomaron mis padres, mis ‘referentes’. El marco social y familiar te va presionando para que tu te sientas incomoda querendo algo diferente, pero cuando vine a vivir a Barcelona empezé a rodearme de otros ambientes y a sentirme comoda con personas distintas a mi entorno  familiar y a las afinidades de la infancia. Igual no he venido aquì a tener una familia, igual he venido a hacer musica. A vivir de otra manera.  Tengo 26 años ahora, y biologicamente estoy en edad de tener hijos, pero es algo que veo muy muy lejos. La persona que soy y la que se esperan de mi me parecen como dos placas tectonicas que se empiezan a separar, pero ahora se que hay una variedad muy grande de ser feliz y de aportar algo al mundo, y esta conciencia me da tranquilidad.

En tu pagina Facebook en el campo ‘género’ no has puesto nada, solo hay un emoticon de una sonrisa.

Si estas en el Facebook significa que puedes ir al Spotify y escucharlo, ¿no? (se rie, ed.). En serio, yo creo que no hay que clasificar la musica segun instrumentos o tiempos, si no segun la voluntad con la que ha sido creada. Mi musica es esperimental, en el sentido que hago musica para ver lo que encuentro, que està allì que yo aun no he encontrado. Es una zanahoria que persiguo, porque si no hago esto ¿que hago el la vida? Hay gente que hace musica para ganar dinero, otros lo hacen porque tienen colegas y es lo que le unes entres ellos, hay tantos tipos de voluntades. a mi si me dicen musica contemporanea o neoclasico, ¿yo que se? vale, me da igual!

Uno quiere hacer su propia música pero siempre hay gente con la que relacionarse aunque fueran solo los productores y la discográfica. Trabajaste con James Rhodes por tu primer disco (Nanook salió en 2016 y fue el primer album publicado por la discográfica del compositor ingles, ed.). ¿Que pasa cuando lo tuyo se cruza con los demás y alguien te pide que cambies algo de tu arte o hasta de tu misma? ¿Consigues que tu música siga siendo tuya todavía?

Sì, y creo que no podria ser de otra manera. Sè que puedo parecer un poco sassy diciendo esto pero si no va a ser asì no le veo el sentido. La gente me da todos tipos de consejos, cosas como “oye, podrías hablar entre canciones” y también como “podrías recogerte el pelo asì”… Eso de tener que pensar en la estética no lo aguanto. Creo que mis fotos en internet generan una imagen de mi que no es la real.

De verdad, esto es lo primero que pensé antes, cuando nos hemos encontrado! Hay fotos en el web en la que pareces mayor de lo que eres en realidad, y tan seria!

¡Lo se! Y tambien la música que hago parece como que voy muy en serio… pero en realidad lo que hago me divierte! Entiendeme: cuando estoy componiendo, cuando estoy grabando, allì sì que voy en serio, voy a muerte. No puede haber ni una nota que no esté allí porque tiene que estar, y esto es algo que me consuma, me hace sufrir, y tambien me encanta y me llena. Cuando te metes en esta especie de Upside Down que es el mundo de la música y luego ‘vuelves’, hay cosas del mundo humano que te parecen como monigotes. Me da igual mi pelo. Es absurdo cuanto tiempo gastamos en tonterias, pero al fin y al cabo vamos a estar aquí un rato y creo que el hecho que concebimos algunas cosas como muy profundas y muy importantes es por un instincto de supervivencia.

De acuerdo 100%. Entonces, ¿qué es lo importante para ti?

Cada uno de nosotros necesita pensar que lo que hace es importante. Mi carrera es importante, tocar en el Primavera también es importante. Pero meterme en mi habitación y componer me ha llevado como un poco a hacer el zoom y darme cuenta de la insignificancia de la vida humana si la comparas con lo grande que es el arte. Todo lo humano está muy manchado de los afectos y de las pasiones, muy imperfecto. En cambio, en el arte, en la música, hay algo allí como divino, yo no creo en Dios pero estoy empezando como a imbuirme de otras dimensiones, y entonces me da un poco de risa todo esto que está pasando, me doy risa siendo Marina Herlop y tomandomelo tan en serio cuando salgo a tocar y me pongo tan nerviosa. Es que de pequeña me creì mucho que todo iba en serio, entonces como mi cuerpo aprendiò eso – come una especie de miedo al fracaso. Ahora es como si racionalmente he llegado a otra conclusión pero no se lo puedo comunicar a mi cuerpo.

¿Y esto es algo que influye en tu manera de hacer música?

Según mi profe de armonia, como yo soy una persona tan recta y siempre quiero hacer las cosas bien, igual por eso en mi música siempre intento escapar de lo sencillo, de lo convencional como los giros armonicos tipicos del pop, para hacer cosas que como premisa tienen que ser extrañas. A lo mejor tiene razon, quien sabe como va la mente de uno!

Entre los dos albums ha llegado la electrónica. ¿Cual es su rol? Es que hoy la gente se va a festivales rock y se queja del hecho que haya música que definen electrónica, pero no le veo muy el sentido porque en realidad lo de que estamos hablando no es un genero si no una hierramienta.

Por supuesto, y yo creo que – si hubieran podido – también Debussy, Ravel o Chopin lo habrían utilizado. Yo misma, de haber podido, hubiera puesto electronica ya en el primer disco. No es que haya hecho un cambio ahora, es que yo antes no tenia recursos, y no conocía a gente que pudiera ayudarme, era algo ‘piano y voz’ porque toco el piano y canto – o sea, si hubiera tocado la bateria tambien la habría puesto. Esta vez yo queria engordar un poco el sonido, ponerle otros colores, aunque en el primer disco hay mucha experimentación a nivel armonico – me flipa la armonia y es lo que mas me “mueve”, y tambien la cosa que mas me emociona escuchar de las canciones son los giros armonicos, que son un poco como el esqueleto. Pero igual, esta vision es un poco reduccionista por mi parte porque, como desconozco los otros campos y siempre tengo miedo a lo desconocido – cosas como el timbre, el ritmo, la estructura de los temas – pienso “bueno, esto no es mi cosa, mi cosa es la armonia” pero fue como “no, tienes que empezar a ponerte las pilas con todo lo demás y ocuparte de todos los elementos de tu musica”. Y ayer viendo a Björk otra vez me entraron estas ganas.

Ya! Increible, ha sido super inspiradora… y no solo para los musicos.

Sí! Para mi fue como “¿que estas haciendo aquí? ¡Vete a tu casa y haz musica!” Pues sí, en este segundo album (Babasha, publicado el 15 de mayo de 2018 por Aloud Music, ed.) fue como “vale, piano y voz solo ya enough”. A nivel timbrico Nanook es muy plano, hacía falta más movimiento.

La impresión que tuve yo al escucharlo es que Babasha guarda más elementos pero al mismo tiempo es mucho más minimal. Como si quisieras hacer más, pero al final lo conseguiste quitando algo.

Sí. En Nanook yo quería todo el rato sorprender a toda costa. Era un poco adolescente. Era todo como “llevar la contraria”. De Babasha yo tengo la sensación que, en el fondo, te lleva a los mismos sitios, pero te conduce, te lleva de la mano. Como si te diga “vamos a ir a esta zona de montañas escarpadas pero tranqui, porque te voy a llevar, y mientras tanto te voy a charlar de unas cosas así que al final no te vas ni a enterar, vamos a llegar al mismo sitio donde estabamos en Nanook pero el viaje ha sido mas agradable”. No quería que Babasha fuera indigesto. Quería que las disonancias fueran más elegantes, y sobre todo que para mi no fueran un axioma. Yo tenía miedo de repetir estructuras, de incluir pasajes pop. Tenía miedo de hacer lo que uno se espera y de que esto resultara muy convencional y muy poco trabajado. Pero tal vez hay que hacerlo porque es la musica que te lo pide. Quería que todo fuera más sutil y con más pegamento, y tambien quería que los temas fueran más variados. Pero por ejemplo hay uno en que nunca cambia el compás, es en 3/4 todo el rato. Hay cosa que mientras la hacia pensaba “Marina Herlop no haria esto” y luego “pero ¿que dices? no tienes que encasillarte en ti misma, y además después de solo un disco!” y en realidad es exactamente esto lo que quiero seguir haciendo: cosas que Marina Herlop no haria”. (rie, ed.)

¿Qué pasa en directo? Sé que recientemente tocaste en La Pedrera. ¿Como tienen que ser los sitios para escuchar tu tipo de musica? ¿Hay algo que no puede faltar?

Para mi, que me escuche bien. A vez pasa que la prueba de sonido es muy rapida y me sabe mal, pero al tecnico le dico que està bien, luego cuando empiezo es como “dios, me oigo fatal” y entonces estoy rayada por eso durante todo el concierto. Por mi parte, hay algunos dias que estoy tranquila y puedo disfrutarlo pero no es lo habitual, tocar en directo aún me hace ‘sufrir’ un poco pero confío en que poco a poco eso irá cambiando. Por lo que se refiere a la sala no hay problemas. He hecho pocos conciertos al aire libre y es algo que aún es nuevo para mi, y tampoco muchos durante el día. La verdad es que yo no estoy muy conectada al espacio, sobre todo me fijo en la gente, en las caras. A veces se crea como un aura, hay un silencio por el publico que te dice que allì està pasando algo, y cuando es asì es muy muy guay. Igualmente es verdad que los conciertos que he hecho en sitios muy bonitos al final han sido muy bonitos. Y no hablo solo de sitios como La Pedrera: puede ser un lugar cualquiera pero por ejemplo al atardecer, y esto me conecta mucho al espacio. El otro dia toqué en un concierto muy pequeño pero en la playa, había la luz de un faro… entonces sí, creo que de alguna manera al final el espacio acabe influyendo.

Si pienso en artistas mujeres que musicalmente han tomado una dirección similar a la tuya, el primer nombre que me sale seguramente es lo de Joanna Newsom, pero la verdad es que no me parece que hayan pocas que se ponen a tocar en plan esperimental – o a lo mejor hay, pero yo no las conozco.

No se. Yo creo que el territorio musical afortunadamente sea – o mejor, debería ser – bastante asexuado. A la hora de plantearme si quiero hacer musica o no, una de las pocas cosas que no me vienen a la cabeza cuando dudo es el hecho de ser una mujer.

Vale, yo también creo que aquí no tendrían que haber diferencias de género, pero igualmente tengo miedo de que existan. En realidad es que estoy segura que hayan mujeres que esperimentan y con mucho talento pero que sean menos conocidas de los colegas hombres. Cuando pienso en artistas que empezaron desde el piano y fueron añadendo cosas en el curso de la carrera pienso en Nils Frahm, en Ólafur Arnalds…

A lo mejor es así pero es que yo no lo pienso nunca en hombres/mujeres. Vale, me siento más cercana a Joanna Newsom que a Nils Frahm, pero no porque sea una mujer. Ayer vi a Frahm, de hecho estaba en segunda fila, y pensé como “bueno, respect“, pero le encontré muy plano musicalmente. A nivel de sonido y de directo me cayo muy bien pero no me sorprendió, mientras que con Joanna te pegas uno viajes allì que dices “woo, ¿donde estoy?”. También Beth Gibbons de Portishead es una tia que me gusta mucho pero en realidad me da lo mismo si son hombres, mujeres o extraterrestres.

¿Más inspiraciones?

Mi ex profe de piano y mi profe de armonia. Y no porque toquen bien y sepan mucha musica, es que como ser humanos dificilmente creo que puedan haber personas mas top que ellos. Lo que me inspira es como tratan lo que hacen. Me han enseñado tanto sobre la humildad y la insignificancia que uno siente haciendo musica – y esto no en sentido negativo que te lleve a renunciar. Yo quiero hacer lo mejor que puedo y voy a compartirlo con otros, y me encantaría si esto tuviera alguna trascendencia positiva sobre otras personas – porque tambien tengo un ego que està allì como ansioso por tener exito – y me encantaria tocar hoy aquì a las 11 de la noche como le encantaria a todo el mundo pero en realidad se que no, que esto va de otra cosa, y que si termino siendo una vanidosa y una drama-queen no lo estaria entendiendo bien. Así que con mi profe pasa que, también cuando me explica cosas que no entiendo, de todas maneras aprendo el mensaje: estas allì trabajando una pieza de Debussy y de repente te paras a mirarlo e dices “¡dios!, ¿como tengo yo el valor de hacer musica existiendo esta?, ¿y como la gente puede decirme a mi que le gusta mi musica? Significa que nunca ha escuchado esta”. Así me doy cuenta de como puede ser tan grande la musica y de como puede hacerse de una manera tan sofisticada y tan elegante y tan bella, y esto es lo que más me lleva a decirme a mi misma “bueno, no voy a hacer la primera mierda que se me ocurra, voy a procurar hacerlo bien, por respecto a la musica toda”.

¿Hay alguien entre los artistas que van a tocar hoy que me aconsejas?

The Internet, seguramente. Arca, Thundercat y Tyler The Creator también.

Bien, entonces te veo más tarde!

Claro! Allì estaremos dandolo todo!

Last modified: 19 Febbraio 2019