LUCI A SAN SIRO BRUCE SPRINGSTEEN AND THE E-STREET BAND

Written by Live Report

La notte è madre delle emozioni più intense. Delle più irresistibili pulsioni, delle risate alla vita amara e dei più irrazionali pianti. E c’è qualcuno che tutto questo lo sa benissimo: piglia la notte in mano e la spreme fino a farti piovere addosso gioia e dolore, amplificati sotto un cielo buio e tetro. Questo è il fascino dello stregone, che in realtà si confonde in modo magistrale tra la gente comune.
Lo stregone ora non è più un giovane ragazzetto, ma ha la pozione magica per stare in pista 4 ore senza segni di cedimento e la stazza di chi le maniche se le rimbocca ancora anche solo per dirigere una festa, insieme a 60 mila adepti. Accompagnato da scaltri maestri da lungo tempo fedeli nell’esecuzione dei suoi riti, il mago trasforma tutto ciò che è insipido in piccante o aspro. E tutto questo, dopo tanti anni, ricapita di nuovo quando sale sul palco di San Siro di nero vestito e con in mano il suo scettro: una sgualcita e deturpata Telecaster color natural.
Bruce Springsteen and The E-Street Band sono tornati a predicare. E questa volta la loro festa scarna e prepotente, carnale e mistica risulta essere più corale e più spirituale che mai. Alle 20.30 appaiono 16 ometti, alcuni attempati e altri nuovi arruolati (tra cui un’intera sezione fiati, novità di questo tour). Sotto un cielo ancora ricoperto di un offensivo barlume grigio i ragazzacci del New Yersey imbraccciano gli strumenti quasi ad invocare la notte, che oggi appartiene a tutti noi “amanti”. E il lunghissimo rito (tengo a ripetere e a precisare, 4 ore di concerto senza mai scendere dal palco!) parte con il roboante gioco tom-rullante del solidissimo Max Weinberg, che ci fa subito capire che oggi le sue braccia voleranno alte per picchiare con la foga di un uomo capace di creare il suo personalissimo “caos calmo” senza versare una sola goccia di sudore (incredibile!). Infine entra lui, il Boss, il nostro predicatore, il nostro stregone e senza tante ciance ci spara: “We Take Care Of Our Own”, tutti uniti, Italia e America sono un tutt’uno in questa gigantesca e compattissima arena. Siamo uniti dalla sua passione e dalla sua festa che calpesta la disperazione e il disagio di questi tempi, strappandoci un pianto isterico di rabbia e tanta voglia di riscatto, succede nelle intensissime “Jack Of All Trades” e “Wrecking Ball”. Poi l’attenzione si sposta, nella eterna preghiera “My City Of Ruin” la sua personalissima città crolla al ricordo di Clarence Clemons (ex sassofonista scomparso esattamente un anno fa) e Dani Federici (tastierista e fondatore della E-Street Band). Mai la musica di Springsteen è stata così gospel, San Siro è la sua chiesa e la forza delle sue grida, roche e potentissime aprono il cuore di tutti noi fedeli. Ma ricordiamolo ancora, non fa mai male: questa è una festa. E allora partono le antiche “Spirit In The Night” e “The E-Street Shuffle”, il testimone passa dal gospel al blues, con una maestria di chi ha imparato tutto dalla propria terra e ce lo vuole raccontare. Esperienza che non si ottiene solamente graffiando vinili dentro un vecchio grammofono, ma masticando la terra delle infinite autostrade e delle metropoli con il cemento nel cuore. Il cuore e la sua infinita speranza però spezzano il cemento quando a fianco di Little Steven il vecchio saggio ruba alla notte i sogni infranti, ma mai perduti, di “The River”. L’altalena pende di nuovo verso l’introspettività fino a toccare il suo apice con la versione piano e voce di “The Promise”, suonata da Springsteen come se facesse sentire per la prima volta la canzone ai suoi figli, e ci sentiamo tutti più vicini a lui.
Ma alla E-Street Band non basta piantare la bandierina dentro i nostri cuori. Vuole proprio scuoterci lo stomaco. La seconda parte dello show è un tiro unico, una corsa senza pit stop e Bruce è sempre più in mezzo a noi, persino in senso fisico, improvvisando innumerevoli stage diving. Ci è riuscito di nuovo: palco e pubblico sono un’entità sola. Il trucco prediletto dallo stregone è sempre il solito: portare coi piedi per terra tutta la sua poesia che vola nella notte, la sua arte così cruda e sempliciotta da commuovere noi poveri mortali. E questa sera il trucco funziona più che mai.
In questa ultime due ore e mezza, si mischiano pezzi nuovi e vecchie glorie, anche inaspettate come il blusaccio marcio di “Johnny 99”, “Out In The Street”, terribilmente muscolosa e tamarra e la frenetica “Candy’s Room”. San Siro sorride a denti stretti, con una tensione pacifica e una felicità incontenibile sempre in bilico tra introspezione e coralità. Bruce e la sua band sono colla per l’anima.
Quando tocca alla gioiosa “Waiting On A Sunny Day”, il Boss grande e grosso cantata con una splendida e timida bambina pescata dal pubblico. Lo show non sono fuochi d’artificio e luci strabilianti, ma siamo noi ammagliati e stregati dal nostro domatore (piccola frecciatina a due a caso: capito Bono e Chris Martin?).
Il concerto è eterno, passano via le ore e canzoni che portano gioia, passione, dolore, rabbia, amarezza ma mai e poi mai sconforto o segni di caduta. La risalita dopo la distruzione è tutta riassunta in “The Rising”, la percepiamo davanti alle casse e davanti al magistrale crescendo elettrico della più grande live band al mondo.
Si arriva in fretta ad un finale sbracatissimo dove vengono inanellate tonnellate di hit: “Hungry Heart”, “Dancing in The Dark”, con una pazza scatenata sul palco a ballare con il novello Jake, impeccabile al sax prende il posto del compianto zio Big Man, ricordato con un onesto e sobrio tributo in “Tenth Avenue Freeze Out”. E poi ancora il sudore di “Glory Days” fino al pugno pieno di terra bruciata e teso al cielo di “Born in The USA”, per ricordarci che qui si fa anche politica, ci si balla sopra con il sorriso nonostante il cuore e il portafoglio siano malati e deturpati.
La festa chiude i battenti a mezzanotte inoltrata con una scioltissima “Twist and Shout”. Tutte le luci dello stadio sono ormai accese da decine di minuti, a ricordare che il concerto dovrebbe essere già terminato da un pezzo. Ma questo non è un semplice concerto e San Siro a fari accesi pare ringraziare il suo pastore più che redarguirlo e lo fa con il suo unico mezzo a disposizione, la sua accecante luce artificiale. Luce che sebbene priva di anima prova a colorare una notte senza stelle, e sappiamo tutti noi presenti che una notte così merita di essere illuminata per tutto quello che ha donato al nostro stregone, che non ha esitato un instante a farlo suo per amplificarcelo dritto in faccia.

Last modified: 22 Giugno 2012

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