Inutili (Music for Addicts) || Intervista

Written by Interviste

In occasione dell’uscita del loro nuovo album, Elves, Red Sprites, Blue Jets, ho incontrato Danilo, voce e chitarra della sorprendente band abruzzese Inutili.

Una miscela drogatissima di Harsh Noise e Psych Rock che sembra venire fuori da un tempo e uno spazio ben distanti dal panoramana musicale emergente italiano. Con lui ho parlato di musica e arte, di critica e di futuro e, alla fine, la domanda più scomoda ha finito per farla lui a me.

________________________________________________________________________________________________

L’amore che proviamo in gioventù non è certo lo stesso che ci legherà alla nostra compagna quando saremo sul punto di morire. Forse lo stesso vale per la musica oppure si tratta, questo, di un amore che resta immutato nel tempo? Com’è cambiato, se è cambiato, il tuo per la musica, dall’adolescenza a oggi?

Credo che il riferimento all’amore sia perfetto. Tu, se non sbaglio, non parli di gusti ma di approccio, o meglio di rapporto. In adolescenza c’è la curiosità indomabile, l’euforia, il tempo che sembra scappare. Ora, invece, anche se l’amore è sempre forte e presente si gestisce, è stabile; direi affidabile, nel senso che ci puoi contare e farci affidamento quando ne hai bisogno. La curiosità, anch’essa non cessa ma sicuramente non si va alla cieca come da ragazzini, o forse, a volte ancora sì. Da anziani o in fin di vita non so, dovrai pormi di nuovo la stessa domanda fra pochi (pochissimi) anni.

Rispetto a qualche anno fa, i giovani musicisti fanno più attenzione a far quadrare il bilancio, spesso fatto di piccole spese e minimi cachet. È un passo avanti per la musica oppure un ridimensionamento della sua libertà d’espressione?

Eh…qui potrei farmi dei nemici; il discorso è molto lungo ma cercherò di attenermi alla domanda. Io so bene quanto si spende in tempo, in quattrini, in bestemmie, per gli strumenti, per muoversi, per investire, ma sono da sempre un purista, nel senso che prima di tutto questo ci deve essere la passione. Suonare, per un musicista, dovrebbe essere una necessità, come il cibo o il sesso, una cosa di cui non puoi fare a meno. Detto questo, se poi uno è pure un bravo commercialista, non guasta, ma non ha nulla a che vedere con l’arte, questo sarebbe un lavoro, un lavoro come tanti.

Ci vuole più coraggio a essere se stessi e non piacere o a mostrarsi ciò che non si è ma raccogliere qualche consenso in più?

La risposta pare chiaramente scontata. Nel secondo caso si tratta, come si diceva prima, di un lavoro; metti in gioco poco di te, fai qualcosa che hai imparato, cerchi di farlo bene, tutto qua; ma forse anche nel primo caso non ce ne vuole poi molto di coraggio; se suoni per passione, farlo è una necessità, dunque il coraggio forse serve in fase creativa, nel guardare aldilà delle consuetudini. Se sei felicemente disposto a non piacere, perlomeno non a tutti, credo sia un buon inizio per fare qualcosa sicuramente di nuovo, che non sarà per forza qualcosa di buono, ma almeno ci avrai provato. Male che va ti trovi un lavoro.

L’arte per l’arte, l’arte per chi è capace di comprenderla o l’arte per tutti. Qual è l’approccio degli Inutili alla musica come forma artistica?

La domanda credo sia del tutto indipendente dall’approccio degli Inutili, nel senso che sono assolutamente e da sempre per rendere l’arte accessibile a tutti. L’arte è qualcosa di superiore, qualcosa di cui tutti dobbiamo avere la possibilità di usufruire. Detto questo non so se gli Inutili facciano arte, ma il tentativo di essere alla portata di tutti c’è sicuramente. Siamo da sempre attenti a fare in modo che i nostri dischi costino il meno possibile, anche per questo spesso abbiamo scelto supporti diversi. Sono assolutamente a favore del peer to peer e comunque è facile poter ascoltare tracce Inutili su Bandcamp, Soundcloud, Spotify, Youtube, Youporn, podcast vari e così via.

Nonostante nella musica degli Inutili il canto non abbia mai avuto un ruolo chiave, nell’ultimo, appena uscito, album Elves, Red Sprites, Blue Jets, sei tu stesso, Danilo, a cimentarti con le ridotte parti vocali nonostante non sia propriamente un cantante. Quale ruolo ha la voce nella struttura delle vostre nuove canzoni?

Diciamo che non ha un ruolo prestabilito. La maggior parte della nostra musica viene da improvvisazioni, per cui, solitamente, non ci sono parti studiate appositamente per un cantato; nasciamo, infatti, come una band totalmente strumentale. Nell’ultimo lavoro abbiamo cercato semplicemente di assecondare le canzoni; a volte cominciano a delinearsi e la voce è solo un altro strumento a disposizione per cercare di renderle il più vicino possibile a come noi le sentiamo (emotivamente), indipendentemente da strutture convenzionali.

Altro elemento, se non assente nei vostri album, certamente in secondo piano è la melodia. Una voluta ricerca del superamento dei canoni classici del Rock o una semplice ovvietà data dall’espressione di ciò che vi viene naturale suonare?

Decisamente la seconda; è tutto molto naturale per noi; come accennato, non ci sono prerogative di partenza o riferimenti. Se strimpellando venisse fuori una ballata neomelodica straccia mutande che ci piace, la suoneremmo senza scrupolo alcuno. Io, comunque, credevo che questo fosse un disco troppo Pop, troppe melodie; se mi dici così mi rincuori.

C’è invece un maggiore uso di elementi elettronici. Questa, invece, è una scelta di rinnovamento o cosa?

Più che di rinnovamento forse di ricerca; abbiamo cambiato spesso e aggiunto strumentazioni. L’Elettronica ci piace, è un territorio che ci interessa esplorare e credo rappresenti ulteriori possibilità per cercare suoni o rumori e questo ci piace. Non significa che diventeremo una band di musica Elettronica, almeno non per il momento.

La storia della musica è piena di bluff, immeritati successi e personaggi campati di rendita per un paio di brani azzeccati ma anche di artisti ingiustamente dimenticati, criticati o che non hanno avuto quello che avrebbero meritato. Potresti farmi un nome per ognuna delle categorie?

Sui bluff non so rispondere; si presuppone che se ne conoscano a fondo i retroscena e le vicende per poter giudicare e anche se esistono e sono esistiti mi riesce difficile dirne uno. Se penso ai Sex Pistols mi vien da ridere perché alla fine ci hanno lasciato pugni di canzoni che non moriranno mai. Non rispondo neanche per gli immeritati, l’Italia ne è piena, pescane tu uno a caso accendendo la radio. Anzi no, aspettai più sopravvalutati in assoluto: i Verdena. Non escludo che siamo anche noi fra gli “immeritati”, ma di certo non camperemo di rendita. Anche per l’ultima categoria è difficile fare nomi, perché, purtroppo, qualsiasi nome io faccia sarà qualcuno di così lontano dall’attuale standard che comunque non avrebbe mai potuto avere il successo di pubblico necessario a essere una star da passerelle. Ti dirò però (se ti accontenti) qualche nome che, se dipendesse da me, vorrei vedere o aver visto in cima a tutte le classifiche: Daniel Johnston, Stereolab, Arab on Radar, Ban-Off, Truman’s Water, U.S.Maple, Sick Thought, Lou X, Dirty Three, This Heat.

Inutili-album-cover

Restando su questo tema, cosa serve per entrarci in questa benedetta storia della musica, tralasciando il fatto che possa fregarvene o meno? Il successo di pubblico, di critica o cosa?

Non saprei, credo che alla fine la differenza la facciano le canzoni. Scrivere una bella canzone è una cosa davvero difficile, ci provano in molti ma ci riescono in pochissimi, senza entrare nella soggettività dell’argomento. Fai un bel disco, scrivi belle canzoni e per qualcuno rimarrai nella storia. Ci sono canzoni di band della mia città che ascolto da quando sono ragazzino e per me hanno più valore di tanti dischi blasonati. Come dici tu (per me) sono nella storia della musica.

Torniamo al vostro disco. Come potresti descriverlo senza usare categorie a qualcuno che non lo abbia ancora ascoltato?

Sicuramente “rumoroso” ma credo sia appropriato anche “multiforme”. Imperfetto.

Facciamo un piccolo viaggio nel futuro. Tuo figlio ha diciotto anni, ama cantare e sta per partecipare a un talent show in stile X-Factor. Cosa gli diresti?

È arrivato il momento che te la cavi da solo… buona fortuna!

Torniamo ancora a voi. Probabilmente non è una cosa cui pensate ma noi critici lo facciamo ovviamente. Le vostre influenze sembrano davvero infinite e vanno dagli anni 60 e 70 della Psichedelia fino all’Avant Rock più attuale passando per una miriade di collocazioni geografiche che toccano quattro continenti. Pensate di aver trovato un sound che vi contraddistingua o c’è ancora troppo legame con queste suggestioni?

Non credo che abbiamo ancora trovato un sound che ci contraddistingua, credo che sia anche perché, come già detto, continuiamo a guardarci intorno, a sperimentare; forse, però, ci siamo vicini, nel senso che abbiamo cominciato ad avere riferimenti imprescindibili, strumentalmente intendo, e questo è un primo passo. Le suggestioni di cui parli fanno comunque parte del nostro bagaglio umano ancor prima che artistico, per cui non credo che taglieremo mai del tutto i legami; li avremo con noi, anche se magari i prossimi dischi suoneranno, seppur riconoscibili, diversi da qualsiasi altra cosa fatta.

Visto che ho accennato alla critica musicale, parliamone. Hai fiducia nella critica? Ha ancora un valore o il suo peso è da ridefinire?

Effettivamente leggo un sacco di cazzate ormai da troppo tempo; credo che la questione vada di pari passo con la musica, nel senso che non è perché un giorno decidi di scrivere di musica, o di mettere insieme due accordi che diventi automaticamente bravo a farlo; in entrambi i mondi c’è un sacco di gente improvvisata, un sacco di presunzione, poca preparazione, spesso pochi ascolti. Questo vale per gli ultimi arrivati ma anche penne storiche spesso deludono, qualcuno è stanco, qualcuno ha perso la passione e lo fa ormai per lavoro o per abitudine, qualcuno deve fare i conti con il commercio, qualcuno non è mai stato bravo a farlo ma continua lo stesso; insomma, cerco ancora di leggere di musica ma prendo tutto molto con le molle, soprattutto le recensioni. Poche firme ma fidate ormai mi bastano. Farei di certo il tuo nome fra questi ma mi sa che suona un po’ troppo paraculo a questo punto.

Avete mai avuto paura di sentirvi inutili come musicisti? C’è qualche cosa che vi ha mai scoraggiato tanto da farvi pensare di smettere?

Ci sentiamo assolutamente inutili come musicisti, aldilà delle battute. Siamo una band fra tante ma non abbiamo mai pensato di smettere, siamo felicemente disposti a non piacere, credo questo aiuti a essere sereni e a prendere tutto con molta leggerezza.

Perché è più facile, almeno in Italia, imbattersi in un disco orrendo di un qualsiasi gruppo come Lo Stato Sociale, Club Dogo o Modà, tanto per fare nomi diversi, piuttosto che in uno degli Inutili, Yugen, Alio Die o Clap! Clap!? Un problema di mezzi, d’investimenti e investitori, di cultura o altro? O non c’è nessun problema, rivolgendosi ognuno a fette di pubblico diverse e di differente vastità?

La musica è uno specchio della società, il problema è quindi di certo culturale. È chiaro che, in un mondo migliore, comunque ci sarebbero diverse fette di mercato e quindi investimenti diversificati ma è anche vero che in questo momento tante band come noi praticamente non esistono e la scena è monopolizzata da vera e propria mondezza senza senso che non può essere minimamente presa in considerazione al di fuori della pochezza del contesto nazionale e non solo per limiti linguistici; questo credo esprima la verità sulla situazione.

C’è un senso reale dietro al titolo di un vostro album e a quello delle canzoni?

Dipende; i titoli spesso sono nati per gioco, altre volte sono stati scelti accuratamente. Alcuni sono frasi di Alec Dartley (AAGOO Records), come ad esempio Music to Watch the Clouds on a Sunny Day, così come nell’ultimo lavoro, sempre da lui “We Can Stop at the Ocean for a Swim on the Way”; altri fanno riferimento al testo, altri più semplicemente derivano dalla prima cosa che ci è venuta in mente. In breve, non c’è una prassi. Tra l’altro, spesso diverse canzoni per comodità e per divertimento le chiamiamo con nomi completamente differenti da quelli con cui sono state pubblicate o se ancora non lo sono state, col tempo, per questo motivo, subiscono variazioni continue prima di arrivare al titolo definitivo. Esempi senza dare corrispondenze: “Quella”, “Osho”, “Rocknroll”.

Dove pensi possano arrivare realmente gli Inutili e dove, invece, vorresti che arrivassero per essere davvero felice?

Onestamente, siamo già davvero felici. Soddisfatti. Forse sbagliamo a non pensare più in grande o a non sbatterci tanto per suonare o per promuoverci ma abbiamo cominciato per divertirci, stando insieme, suonando, bevendo; credo che continueremo semplicemente a farlo. Al futuro non chiediamo nulla, se non di poter continuare a pubblicare dischi.

Ultima domanda; se ti va, scambiamoci i ruoli. Fai tu una domanda a me.

Te ne faccio una multipla. Se risponderai come spero senza diplomazia alcuna, vincerai un paio di pass per il backstage del prossimo concerto Inutili. Qual è la tua opinione sulla critica musicale attuale; qual è la tua opinione più specificamente su rock.it e infine qual è l’uscita fra le più osannate che ti ha deluso e fatto credere che la critica onesta non esiste più.

Domanda più che scomoda per uno che scrive su più testate concorrenti a quella da te citata ma cercherò comunque di essere onesto e sincero, anche se credo possa essere inelegante parlare dei miei colleghi, oltretutto rischiando di fare la figura del “rosicone”. In merito alla questione della critica, in generale, credo che ci sia molta approssimazione e impreparazione, spesso dovuta al fatto che chi scrive non è pagato da chi pubblica e, per questo, non può dedicarsi alla musica in maniera professionale e adeguata andando alla ricerca delle cose davvero meritevoli. Al contrario, a volte chi scrive è, purtroppo, pagato da chi richiede la recensione, band o ufficio stampa che sia, e qui puoi capire da solo quanto poco possa valere un pezzo scritto su commissione. Fortunatamente seguo riviste e webzine musicali da una vita, quindi ho capito che è importante imparare quali “testate” meritano fiducia (ci vuole poco; se mi consigli più volte dischi che poi scopro essere schifezze…) e ancor più quali penne. Penso a Going Solo, a Francesco Nunziata di Ondarock, ad esempio, o Federico Guglielmi ma non sono gli unici capaci di essere schietti e con uno stile accattivante. In merito a Rockit, posso dire che ne invidio la capacità di “monetizzare” il lavoro ma, nello stesso tempo, questo si traduce con la necessità di seguire i gusti del pubblico più che formarli. Solitamente riesco a indovinare una top ten di Rockit con una certa facilità e questo la dice lunga su quanto sia standardizzata la proposta. Inoltre, non mi fido quasi mai delle recensioni dei dischi italiani. Nel giro ci si conosce un po’ tutti, quindi chi è ben inserito non faticherà a ottenere consensi su queste testate. Trattando Rockit solo roba italiana, il problema succitato diventa ben più ampio. Oltretutto, non credo abbia senso parlare di musica, limitandosi alla sola italiana, visto che poi non brilliamo certo per le eccellenze in penisola. Finiscono per mancare i veri punti di riferimento, che, a oggi, arrivano soprattutto da fuori confine. Sull’ultimo punto, la risposta vien da se. Non capisco il perché di tanta esaltazione per l’ultimo de I Cani o ancor più per Calcutta che ha scritto un disco orrendo, con un paio di canzoni appena decenti e comunque tutte banali e simili. La lista, tuttavia, potrebbe essere lunghissima ma ho già parlato troppo.

Last modified: 21 Febbraio 2019

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *