Hands of Orlac – Hands of Orlac

Written by Recensioni

Specchio delle mie brame, chi è più horror dell’horrorame? Tra i tanti fuochi fatui, vampate di zolfo e copiose “piene” di sangue gocciolante che l’Avis d’ogni parte non ne vedrà mai altrettanto donato, che da sempre coreografano le mitologie e le fastose “messe in opera” dell’Horror metal e derivati, si fa avanti il debutto ufficiale omonimo dei romani Hands Of Orlac, band immolata alle falangi dei rifferama lamettati e a quello spirito occulto e paranoico che si veste di doom, claustrofobie e poco rassicuranti profezie nerofumo; con un moniker tratto da un film americano del 1924 del regista Wiene, gli Hoc hanno un suono posseduto a metà, che vorrebbe richiamare figure inquietanti ed influenti come King Diamond, ma anche i nostrani Death SS, Goad o Black Hole, oltrechè investire con passione morbosa il “seguitare nel tramandare” il sintomo malato, intenso e pestilenziale dell’horror specifico dentro gli intestini profondi del rock.

C’è anche da dire – oltremisura – che da un gruppo di tal cotta ci si aspettava qualcosa di molto più pesante, molto più ansiogeno e velenoso, invece tutto scorre in queste sei tracce inedite più una cover “Demoniac city” dei Black Hole, come si sei fosse “alla luce del giorno” e non negli inferi torbidi e bui tanto declamati, gli arnesi del mestiere ci sono tutti ma girano alla larga “cattiveria e insidia” che di conseguenza portano l’ascolto ad un qualcosa che di “pauroso” ha poco o quasi nullo, praticamente un senso sonoro che sta in bilico tra il progressive alato e un metal doom buono, ma di prassi, come milioni attorno; il cantato femminile apportato da The Sorceress  – ogni componente ha un nome criptato – addolcisce di troppo l’atmosfera cadente e doommata che il disco tiene in serbo, come pure l’adozione del flauto tra gli arnesi sonori della band svia in territori Prog, alleggerendo oltremisura il già debole impatto totale “Vengeance from the grave”, “Lucinda” su tutte; per ritrovare sembianze “disumane” occorre cliccare l’indolenza sabbatica di una Diamanda Galas che circuisce  “Castle of blood” o il delirium tremens che emana “Witches hammer” dove gli spiriti guida Sabbathiani e le memorie inestimabili degli Uriah Heep prendono le fruste in mano e picchiano sodo, poi tutto sfila via, senza quella sacralità maligna che rimane di solito appiccicata ai woofer quando un disco “nero” passa di lì.

Un debutto “sospeso”, ma che con certe smerigliature da apportare in lungo e largo la vera dannazione avrà modo di venire fuori, intanto l’inferno è da rimandare, toccando ferro e “organi nascosti”.

Last modified: 20 Gennaio 2012

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *