Grandaddy – Last Place

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La reunion dei Grandaddy risale al 2012 ma per il ritorno in studio la band di Modesto si è fatta aspettare, e Last Place riparte esattamente da dove avremmo voluto, ossia da quel gioiellino di Space Rock datato 2000 che nei temi così come nelle declinazioni sonore ruotava intorno alle implicazioni della tecnologia nella società umana. La connessione è esplicita nei due minuti di “Jed the 4th”, figlio di quel Jeddy-3 protagonista di “Jed The Humanoid”, terza traccia di The Sophtware Slump: la questione dell’obsolescenza programmatica dei dispositivi tecnologici, una storia a cui oggi ci siamo ormai rassegnati buttando via un iPhone dopo l’altro, Jason Lytle ce l’aveva già raccontata 17 anni fa.

But Jeddy-4 is in Betty Ford, quel Betty Ford Center di Los Angeles in cui più di una popstar è finita in rehab: la profezia si è dunque avverata e il progresso è stata una scommessa persa, e così l’entusiasmo in chiave Power Pop con cui l’album esordisce è destinato a spegnersi in una graduale ma inesorabile discesa della track list verso il disincanto di melodie struggenti.
Un giro di chitarra appiccicoso nel ritornello di “Way We Won’t” inaugura l’ascolto nel più scanzonato dei modi e “Brush with the wild” prosegue con stesso umore, ma negli impasti sonori zuccherati l’ironia delle liriche è già amara, tra scenari di consumismo suburbano e metafore di precarietà sentimentale. Gli stessi accordi ritornano nell’intermezzo strumentale di “Oh She Deleter :(” ma disciolti in acido sintetico, con tanto di emoticon nel titolo a confermare che il desolante contesto è proprio il presente. Dodici tracce dal minutaggio ridotto che tirano le somme sullo stato di salute della società odierna, nonostante gli stridori sci-fi di “Evermore” tentino ambientazioni distopiche, o la marcetta Sunshine Pop di “The Boat is in the Barn” così come le movenze Garage di “I Don’t Wanna Live Here Anymore” vadano a ripescare sonorità di decenni passati. Anche quando nel lotto finale, da “That’s What You Get For Gettin’ Outta Bed” in poi, il sound si arrende definitivamente alla malinconia delle ballad, le interferenze di elettronica diy continuano a infestare le melodie in quel modo che è tratto peculiare del progetto Grandaddy, aggiungendo episodi come “A Lost Machine” a quelli memorabili della discografia dei californiani.
Insomma, a guardarlo attraverso i fuzz naif di Lytle e compagni il presente finisce per apparire molto più sopportabile di quanto le parole degli stessi vorrebbero farci credere. Le linee melodie claudicanti che poi si placano dispiegandosi nei refrain insegnano la leggerezza con cui bisognerebbe sempre affrontare i timori, e se il ricalcare le scelte compositive di The Sophtware Slump rischia di suonare come un’autocelebrazione non si può dire che non se la siano meritata.

Last modified: 3 Aprile 2019