Flyzone – Hard Day’s Morning

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E’ un dato di fatto: a Roma il rock è vivo e vegeto. La sua intenzione è potente, viscerale, avvolgente. Non esiste dunque solo l’artista semi impegnato e genuino arroccato alle osterie di Trastevere, ma esiste anche un’anima più animale, più rumorosa e più sfacciata.
Si forse un po’ troppo sfacciata se si guarda questo caso in particolare. I Flyzone sono un giovane quartetto ben determinato ma dalle idee un po’ confuse. Si presentano con questo EP dove mischiano senza troppo riguardo le atmosfere cupe e la disperazione del grunge, chitarroni crossover (dal suono molto discutibile), assoli mirabolanti e l’epicità del metal powerone. Il risultato in realtà non è tragico quanto potrebbe sembrare a parole, ma fa spesso storcere il naso per il catastrofico scontro tra correnti.

Il pastone si presenta subito dall’attacco di “Katrina” che più che un uragano che punta a spazzarci via sembra una palude di sabbie mobili nel quale ristagniamo. L’ingrediente più azzardato della ricetta è indubbiamente la voce di Danilo Garcia, poco graffiante e incisiva. Più attenta a raggiungere il sustain e la tecnica di Bruce Dickinson che arrivare a graffiare la nostra pelle. La convinzione non manca, ma le corde vocali non sono poi di certo coadiuvate dall’interpretazione, frutto anche di un inglese sfoderato in modo troppo scolastico, poco fluido e diciamo pure “maccheronico”.
The qube” fa il filo agli Alterbridge più melensi, l’energia si mantiene potenziale ma non viene mai sprigionata con la giusta foga. Qualche faticoso passo in mezzo alla palude riusciamo a farlo grazie a “Black Blood”: si sentono in lontananza i respiri dell’ultimo grunge e il sapore di rivoluzione grezza e verace prende vita in un riff confuso tra doppia cassa e distorsione eccessiva. La speranza però in questo brano prende vita e delinea comunque un sentiero che la band dovrebbe intraprendere in modo da ottenere la sua entità.
Dopo questo felice episodio però si torna ad affondare e l’ultima parte dell’EP è alquanto noiosa. Pensavamo di essercene liberati e invece rispunta sorniona la strega epic, che prende le redini nei ritornelli di “Wake up” e “In my opinion”.
Il finale è invece dedicato a “A Clockwork Orange”, di cui la band è grande fan. Ballatone semi-acustico difficile da digerire nella sua integrità: stacchi elettrici improvvisi, dinamica totalmente dimenticata e disperazione lamentata per quasi 6 minuti di canzone. Nelle sabbie mobili qui veniamo inghiottiti totalmente e non arriva neanche più uno stimolo, un guizzo che possa farci vedere la luce.
Flyzone sono una band giovane, determinata e sicuramente pronta tecnicamente. Ed è proprio per questo che nell’immediato futuro aspettiamo da loro una mano che ci faccia riemergere da questa immobilità e ci porti in viaggio, molto lontano da questa palude.

 

Last modified: 5 Dicembre 2012

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