Daushasha – Canzoni Dal Fosso

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Ascolto: durante la preparazione della cena di un lunedì. Località: il mio paese. Umore: da sereno a nostalgico poi tendente all’inquietudine violenta.

Complimenti ai Daushasha: complimenti perché mi hanno provocato un moto spontaneo di vergogna. Anch’io ascoltavo e andavo ai concerti dei Modena City Ramblers: avete presente quei tipi sotto il palco tutti scompigliati con i denti viola, vestiti come se si fossero tuffati nell’armadio al buio? Io ero così, come molti di voi che state leggendo, non lo negate; ero uno di quei ragazzi che stava più al centro sociale a dividere il pasto con i cani che a casa. Nel loro comunicato stampa dichiarano di rifarsi, tra gli altri,  a De Andrè: davvero? Non mi pare che Canzoni Dal Fosso sia un disco memorabile, anzi: melodie semplici al limite dell’infantilismo,  insistito e strumentale richiamo al vino e alle droghe leggere come se fossero i primi musicisti a sballarsi un po’, temi da sagra di paese senza però le meravigliose storie di poesia del paese. A parte il fatto di proporre uno stile che sembra uscito dal Cretaceo, a parte il fatto di rifare il verso ai Modena e agli Yo Yo Mundi, senza averne capacità di arrangiamento e intuizioni testuali. A parte la chitarra distorta come nemmeno in In Utero dei Nirvana. A parte tutto, non si può dire che ti ispiri a De Andrè e poi scrivere: “buona sera, voglio sbatterti ancora, birra chiara e gandja e poi tra le tue lenzuola” oppure il memorabile “e quando tra cinquantanni anni le rughe solcheranno il tuo viso, tu sarai proprio un gran cesso ma la campagna sarà bella lo stesso“. I pezzi migliori di questo disco sono quelli cantati in russo, solo perché non conosco il russo.

Dori Ghezzi, citali per diffamazione: non si può, ogni volta che chiunque voglia darsi un tono poetico, dire che ci si ispira  a De Andrè. Ci vuole la poesia, prima.

Last modified: 20 Febbraio 2022