Live Report

Daughn Gibson 03/12/13

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Il Blackout Rock Club è un posto un po’ fuori mano, sulla Casilina inoltrata a Roma. Un posto dove si organizzano bei Live. A maggio sono andato a vedermi Dinosaur Jr, di lunedì purtroppo e questa serata è di martedì. Il weekend, direte voi, suoneranno dei mostri sacri. E invece no! Ci sarà la discoteca?!Può essere!Ma questo weekend ci sarà l’American College Party. Che?!? Sulla locandina due ragazze ammiccanti vestite da cheerleader con tanto di ponpon, o come cazzo si chiamano. Quello che voglio ribadire è che la vita da Rocker si fa sempre più dura.

Faccio la mia fila cercando di non sbavare sulla locandina del college party e una volta dentro faccio un’altra fila per aggiudicarmi la brodaglia in bottiglia che chiamiamo birra. Daughn Gibson è lì appoggiato al bancone ad aspettare la sua di birra, mentre nessuno lo caga, giusto il tempo di prenderla e sparire nel privé. Dopo aver suscitato la curiosità nella scena underground statunitense con il suo primo lavoro All Hell uscito per la White Denim Records, subito crea, grazie ai testi, curiosità nella critica, Pitchfork per capirci, e riesce in breve a chiudere il suo primo e vero contratto con la mitica Sub Pop Records. A giugno esce Me Moan che rispetto al precedente è più orecchiabile e con testi meno articolati. Ma torniamo alla serata, dopo un ora e più ad aspettare che si riempisse il locale inutilmente, visto il martedì e visto che praticamente lui è ancora quasi sconosciuto in Italia, e un piccolo cambio di amplificatore finalmente il concerto ha inizio. Gibson parte subito con i brani più ritmati dell’ultimo disco, un po’ più accelerati per l’occasione da sembrare a tratti punkeggianti. Tra un brano e l’altro, per via dell’uso che fa di campionatori e suoni registrati, spesso non c’erano pause e il risultato è stato un’ora intensa di ballate Country elettrificate, “Kissin on the Blacktop”, e canti struggenti di amori interrotti, “Tiffany Lou”. Nel bis di mezz’ora mi allieta con quello che secondo me è il suo pezzo più significativo “In The Beginning”, stupendo.

Ecco l’intera scaletta della serata:

Lookin’ Back on ’99, You Don’t Fade, Phantom Rider, Mad Ocean, Kissin on the Blacktop, Lite Me Up, Tiffany Lou, A Young Girl’s World, All Hell, The Sound of Law, In the Beginning, Rain on a Highway, Dandelions.

In definitiva un domani potrò dire di aver visto Daughn Gibson. Dico un domani perché ora lo conoscono in pochi in Italia ed effettivamente in questa serata, comunque fantastica, eravamo in 200 ad ascoltarlo. La prossima volta che capiterà in zona non perdetevelo!!!

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Nick Cave & The Bad Seeds 27/11/2013

Written by Live Report

L’Auditorium Parco della Musica a Roma sappiamo tutti che posto è. Anche se non siete mai entrati porta con se quell’aurea istituzionale di palco da grande concerto, una struttura all’avanguardia nel cuore benestante di Roma. Insomma, la fama lo precede. Acustica da paura, radica di non so quale legno ovunque e le mitiche poltroncine larghe e imbottite dove gustarsi comodamente il concerto. Il tutto in un amabile atmosfera perbenista, quasi da teatro dell’opera, il cui ordine poco c’entra con i mostri che hanno dominato questo palco mercoledì scorso: Nick Cave & The Bad Seeds.

Alle 21,30 ero sistemato comodamente in galleria, sul mio divanetto, ad attenderne l’entrata in scena. La sala Santa Cecilia ormai colma, in visibilio, avida di placare l’ansia che precede  l’attesa dell’evento. Ed ecco che poco dopo assopiscono le luci, le urla e i fischi della folla si fanno sempre più ampi e insistenti a scaricare l’entusiasmo, all’improvviso un flash ed eccolo, con la sua camminata irriverente, fare la sua comparsa sul palco Cave seguito dai suoi Bad Seeds. Un veloce saluto, il tempo di prendere lo strumento, e subito si parte con “We No Who U R” primo singolo estratto dal suo ultimo lavoro Push the Sky Away. Un pezzo particolarmente malinconico, forse fra i più belli dell’album. Subito mi sale la pelle d’oca e vorrei balzare giù in platea dalla galleria. Ma non si può, avevo già provato ad eludere le hostess senza successo allo scopo si stare in piedi in platea. Che tristezza penso: questo posto è troppo “ordinato”, non è adatto ad una rockstar. Riconnetto il cervello sul palco, Cave teatralmente, come suo solito, si atteggia come fosse Sinatra e prosegue con “Jubilee Street”, testo critico contro chiesa e benpensanti che di giorno pregano Dio e di notte vanno a mignotte. E proprio mentre intona il ritornello prende e si lancia giù dal palco creando scompiglio. Tutti si alzano dalle comode poltrone e lo vanno a stringere. Un momento epico, dove questo grande uomo cerca e stabilisce un rapporto sentimentale col suo pubblico e lo trova. Cave è così: mentre tira fuori i suoi demoni e te li sbatte in faccia ha bisogno del contatto. Per tutto il concerto tocca il pubblico, lo guarda negli occhi come se si nutrisse della loro energia. Un rapporto vero, senza filtri. Da lì in poi lo spazio sotto il palco si riempie, per tutta la durata del concerto gente che sale e scende dal palco abbracciandolo, baciandolo, stringendolo, e lui da spazio a tutti e ricambia creando momenti comici che esaltano l’emozione dei temerari del palco. Un grande.

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Per chi volesse conoscere la scaletta eccola di seguito:

We No Who U R, Jubilee Street, Tupelo, Red Right Hand, Mermaids, The Weeping Song, From Her To Eternity, West Country Girl, People Ain’t No Good, Sad Waters, Into My Arms, Higgs Boson Blues, The Mercy Seat, Stagger Lee, Push the Sky Away, God Is in the House, Deanna, Papa Won’t Leave You, Henry, We Real Cool.

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Un gran bel concerto, due ore e trenta più o meno, come c’era da aspettarselo, il cui apice, per me, è stato “From Her to Eternity”. Ad un certo punto credevo cascasse l’Auditorium. Galattici i Bad Seeds, magnifico Nick Cave, un vero e proprio spettacolo Rock a dimostrazione del fatto che ascoltare la musica in streaming non è un cazzo in confronto a quello che un Live e in questo caso degli artisti di questo calibro possono regalarci. Peccato per l’auditorium, la cattedrale della musica con le sue poltroncine è risultata poco adeguata ad ospitare un demonio sregolato del Rock!!!

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Only Ten Left 16/11/2013

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Proseguono senza sosta gli appuntamenti in musica del Progetto Streetambula. Dopo l’eccellente performance di Doriana Legge ed Elisa Marrama (19/10/2013), questa volta é il turno dei sulmonesi Only Ten Left, quartetto Punk Rock emergente composto da Thomas (voce e chitarra), Tizzi (chitarra solista e voce), Sasà (basso) e DiVito (batteria), accompagnati per l’occasione dal giovane cantautore pratolano Quinto Fabio Pallottini (chitarra acustica e voce). Sin dal mio arrivo – nella mezz’ora antecedente l’inizio dell’evento – avverto sommo piacere nel constatare che, anche in questo frangente, il pubblico della vallata non si é fatto di certo pregare. Caffé del Corso, infatti, brulica di vita. Qualcuno inganna l’attesa trangugiando avidamente un boccale di birra, fumando una sigaretta o chiacchierando del più e del meno; “Forse qualcosa in questo paese si sta muovendo”, penso, ed entro nel locale, facendomi strada a fatica tra chi probabilmente non ha ancora compreso che, far capannello dinanzi all’ingresso del bar e rovesciare addosso al primo malcapitato di turno un invitante calice di vino rosso, non é cosa buona e giusta. Comunque, in un modo o nell’altro, sono dentro; il tempo di ordinare un drink ed inizia il concerto. Apre le danze Quinto Fabio Pallottini, promettente musicista pratolano che, da diverso tempo ormai, calca le scene di innumerevoli eventi peligni. Il suo show può essere riassunto in una serie di ballate dove il Punk Rock incontra un certo gusto british sulla scia di Blur, The Verve, ecc… senza disdegnare tuttavia la contaminazione con generi musicali apparentemente estranei al contesto, come il Reggae, ad esempio. Un registro vocale aspro e sbarazzino, una linea di chitarra folk non sempre ineccepibile sotto il profilo squisitamente tecnico ma, mi vien da dire, chissenefrega. Quinto si diverte e fa divertire. E questo mi basta.

A seguire, dopo un rapidissimo cambio palco, gli Only Ten Left. Il Punk Rock californiano della giovane formazione sulmonese (chiaramente influenzato dal leggendario sound di Social Distortion, U.S. Bombs, ecc…) si cala alla perfezione nell’inedita veste acustica proposta per la serata. Infatti i brani in scaletta, nonostante siano stati eseguiti senza distorsioni assordanti (regola fondamentale e primaria dell’unplugged), con un set di batteria ridotto davvero al minimo indispensabile – fondamentalmente cassa, rullante e charleston, per capirci – mantengono comunque un ottimo livello di coinvolgimento, restando pressoché fedeli alle versioni originali. Adrenalina a mille, buona presenza scenica, spensieratezza, ed il gran merito di aver saputo appagare l’esigenza di un pubblico dai gusti inevitabilmente eterogenei.

Bella musica, bella gente, vibrazioni positive e birra in offerta. Insomma, una gran bella serata.

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Dimartino 02/11/2013

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Voi non ci crederete ma dopo il concerto dell’altra sera al Circolo degli Artisti, la prima cosa che mi viene in mente se penso a Dimartino è Niccolò Fabi. Non perchè sia possibile accostarli stilisticamente, questo nessun recensore in Italia avrebbe l’ardire e l’ardore di dire (notate il gioco di parole che denota la padronanza linguistica del sottoscritto, altro che “scusate il gioco di parole”), ma perchè a pochi passi da me al concerto di Dimartino c’era Niccolò Fabi. L’ho incontrato in fila, era dietro di me, lui ha pagato ed io avevo l’accredito stampa; mi ha guardato mentre dicevo “ho un accredito” (magari solo perchè gli ero davanti) e io l’ho riguardato sprezzante negli occhi con uno sguardo western che nel mio cervello di idiota significava chiaramente “Stai attento a quello che fai con la tua chitarrina, sono un recensore spietato, se mi fai un disco di merda ti stronco”. Nel suo sicuramente significava: “mo’ a sto’ pigmeo si nun’ ze leva ooo meno”. Avrebbe fatto bene. Comunque sono qui per parlare del concerto di Dimartino e cascasse il mondo lo farò.

Apertura di Valentina Gravili, brindisina di nascita, romana d’adozione cantautrice dalle influenze mediorientali sia in viso che nelle melodie. Mi ricorderò della sua performance per il pedale che il batterista aveva collegato al microfono il quale moltiplicava le voci in maniera che la Gravili sembrasse accompagnata da un coro di Bonzi. Bell’effetto. Ma arriviamo al concerto del cantautore siciliano: Dimartino si presenta in total black: giacca, pantalone, barba rifilata e t-shirt scollatissima senza peli sul petto: non aggiungo altro. Bel trio, quello di Dimartino, dal suono particolare e dovuto al fatto che lui suona alternativamente il basso o la chitarra e quindi pur in ambito rock complessivamente risulta molto pulito e ben equilibrato. Talmente equilibrato che quando in qualche pezzo vengono utilizzate delle sequenze la voce finisce per soffocare in mezzo al volume sonoro accresciuto. Una per una sfilano molte delle canzoni che compongono i suoi primi due dischi e l’ultimo ep Non Vengo più Mamma e in più una bella e intensa versione di “Sobborghi” di Piero Ciampi. Giusto Correnti alla batteria sembra suonare in un gruppo Indie Rock inglese più che in una band di un cantautore, Angelo Trabace con la partecipazione teatrale e la gestualità facciale di un cantante neomelodico dà bella mostra delle sue indiscutibili doti di pianista. Complessivamente il live è piacevole ed anche più energico di quello che mi aspettassi dalla produzione in studio, una bella sorpresa. A volte ho avuto la senzazione che l’ interplay fosse ancora un pò acerbo, come se fosse la risultante monolitica di tre diversi modi di sentire il repertorio, poco comunicanti tra di loro e ancora un pò postadolescenziali.

Nulla che non si acquisti con qualche altro anno di live. Spettacolo nello spettacolo la presenza di Fabi vicino al bancone e gli sguardi furtivi di molti degli spettatori per cercarne di capire le impressioni dalle reazioni, quasi a volere da lui una legittimazione per farsi piacere il concerto. Una sorta di imperatore musicale che con lo scuotere della testa invece che con il pollice in alto poteva legittimare o meno un pezzo piuttosto che un altro. Spettacolo nello spettacolo, nello spettacolo all’uscita: alcuni vanno verso il banco del merchandising di Dimartino ma molti di più rimangono a chiedere autografo e foto ricordo a Fabi. Non cambieremo mai.

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Massimo Volume 09/11/2013

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Non ricordo neanche più quanti anni sono passati dall’ultima volta che ho visto Clementi con i Massimo Volume dal vivo in un palco d’Abruzzo. Non troppi in realtà. Doveva essere un festival estivo in zona Roseto e con loro c’erano altre band tra cui i mitologici Wave Pictures e i Glasvegas, band allora in ascesa, ora persa in un vuoto neanche troppo inatteso. Adesso che ricordo meglio era il Soundlabs, era proprio Roseto ed era il 2009 e il giorno dopo, su quello stesso palcoscenico, sarebbero saliti José Gonzales, Uzeda, Zu, Wildbirds & Peacedrums e Dente. Quel venerdì però macinammo centinaia di chilometri e birra e gin solo per loro, quella leggendaria band bolognese che ha marchiato a fuoco gli anni 90 di noi giovani, ragazzini disillusi che qualcuno diceva essere il futuro della nazione e che si ritrovano in troppi a sputare sangue dalle orecchie in Call Center moralmente devastanti. Nessun nuovo disco da presentare in quell’occasione ma solo la voglia di rimarcare il mito sul palco del Soundlabs.

Quattro anni dopo sono cambiate tante cose e un ventinovenne con la testa di un ragazzino attaccato ai suoi diciotto anni è diventato un uomo più vecchio, non solo tra le pieghe del volto. Vittoria Burattini (drums), Emidio Clementi (voce, basso), Egle Sommacal (chitarra) e Stefano Pilia (chitarra) oggi hanno sulle spalle un paio di gioielli in più da mostrare. Cattive Abitudini usciva solo l’anno seguente mentre di qualche settimana fa è Aspettando i Barbari. Due album destinati a entrare nell’Olimpo del Rock alternativo italiano, nonostante l’età non solo anagrafica, dei suoi compositori e due album che sul palco del Pin Up mi si sono rivelati in tutta la loro enfatica magnificenza. In fondo mi aspettavo proprio questo. Il concerto non poteva essere un lento scorrere degli anni migliori della band emiliana ma avrebbe avuto l’esigenza di esporre le nuove forme. I due dischi sono stati sviscerati smascherando tutta la loro eccellenza in chiave live e accentuando anche delle differenze strutturali con il capolavoro del 1995, Lungo i Bordi, impareggiabile in quanto a tensione emotiva ma assolutamente affiancabile alle nuove cose come forza, brutalità, prepotenza.

Proprio l’energia è stata la protagonista assoluta del palco, toccando l’apice in un brano che su disco aveva lasciato non poco scetticismo, “Vic Chesnutt”. Questa vitalità toglierà un po’ di spazio agli atteggiamenti più intimi, quasi sacrali e meditativi che contraddistinguono le canzoni del periodo post Demo e quando Clementi e Sommacal provano ad affogarci in una marea di note che rischia di trascinarci in una dimensione psichica parallela, il momento è demolito da una tizia ubriaca che grida “du palle”. Clementi, col suo sguardo spiritato, la cerca ma non la trova, nonostante fosse a venti centimetri da lei e non so se in fondo sia stato meglio cosi. La tipa non riesce a fare altro che bere, urlare quando tutti stanno zitti, chiamare Sommacal per nome molestandolo palesemente e blaterare con due signore un po’ in là con gli anni che non hanno fatto altro che ballare come fossero a un live di Vasco (avete presente quel movimento destra/sinistra di corpo e testa, generalmente accompagnato da un accendino? A loro mancava solo quest’ultimo ma in compenso avevano dei cellulari sempre pronti per scattare foto. Che cavolo dovranno farci con una quantità simile di foto in pessima risoluzione è un mistero).

Regalano due bis e riesco a godermene uno un po’ in disparte dalla folla, malauguratamente mai uguale a come la vorresti tu, in queste occasioni. I Massimo Volume passano con disarmante disinvoltura (poche sbavature degne di nota) dai brani del nuovo album a quelli di Cattive Abitudini (splendide “Coney Island”, “Le Nostre Ore Contate”, “Litio” e “Fausto”), fino a scivolare nel passato di Club Privé (“Altri Nomi”) e Da Qui (“Senza un Posto Dove Dormire” e “Sotto il Cielo”) per esaltarsi e farci godere con i pezzi di Lungo i Bordi (“Fuoco Fatuo” e “Il Primo Dio” da pelle d’oca). Un concerto lunghissimo, che ha davvero accontentato tutti, dai fan dell’ultima ora fino ai vecchi affezionati, con una sola imperfezione evidente in uno stacco splendidamente ripreso da Clementi in veste di direttore d’orchestra. Chi si aspettava un concerto nel quale ritrovarsi assorti sarà rimasto deluso perché sembrano finiti i tempi delle illusioni e del sogno, lasciando spazio alla veemenza chiusa tutta negli occhi spiritati di un Clementi in forma smagliante, nel sudore di Burattini, nelle dita di Sommacal e nelle pulsioni viscerali di Pilia. I Massimo Volume non invecchiano mai, al massimo diventano più grandi.

P.s. in apertura ai Massimo Volume, il pubblico del Pin Up, locale che anno dopo anno si conferma come il migliore del centro Italia per le esibizioni dal vivo (ora anche con una più adeguata resa sonora) ha potuto godere l’esibizione dei marchigiani Dadamatto di Senigallia, formazione giovanissima ma con, all’attivo, già tre album. La loro è una proposta variegata e che suscita diverse contrastanti emozioni e diversi giudizi di gusto. Certo è che i tre ci sanno fare sul palco, per niente intimoriti dal pubblico solitamente poco elegante e generoso con i gruppi spalla, né dal peso della fama di chi li avrebbe seguiti. Forse qualche eccesso teatrale di troppo ma niente da dire in quanto a presenza scenica. Quello che non è piaciuto molto è il cantato, che talvolta ha rasentato dei picchi d’imperfezione (non di quella volutamente lo-fi, sia chiaro) preoccupanti e la composizione dei brani, che arrancavano ora in un cantautorato in stile Brunori Sas, ora in un Noise Rock che ricordava i fasti di un Godano nineties, ora in passaggi strumentali di difficile comprensione, altri in un Post Rock quasi imitante i bolognesi con i quali avrebbero a breve condiviso il palco.

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Alvaro Van Houten: Non Sono Bello, Piaccio!

Written by Live Report

Gianluca Torelli nella vita quotidiana diventa Alvaro Van Houten nella scatenata quanto imprevedibile vita artistica, come sua ammissione la sua “carriera” vive di sporadiche esibizioni dal vivo. Il suo mondo è certamente soltanto il suo e nelle live performance cerca di trasportare i presenti in questo mondo fatto di musica “diversa” che sbatte contro l’immortale leggerezza del trash d’autore e non. Insomma  Alvaro Van Houten rappresenta quell’artista al limite della follia che noi di Streetambula non potevamo farci scappare. E’ la data numero due, una settimana prima eravamo stati deliziati dalla rossa Doriana Legge (@ Caffè Del Corso, Pratola Peligna AQ), abbiamo puntato quasi alla cieca su Alvaro Van Houten per scaldare il Roxy Bar di Pratola Peligna AQ, non ci siamo sbagliati. Anzi. Goduria per tutti. Il ragazzo arriva nel pomeriggio mostrando subito le sue simpatiche qualità di relazionarsi con le persone, è paffutello, bassetto, porta gli occhiali e un simpatico accento della costa abruzzese. Monta il suo ampli per chitarra all’esterno del locale, stringe un,amicizia quasi amorevole, adolescenziale con Luca “Barabba” Colaiacovo (colonna del progetto Streetambula) e chitarrina alla mano girano per il corso di Pratola Peligna tra bar e increduli passeggiatori facendo una promo allucinante alla concerto che doveva consumarsi dopo poco tempo all’esterno del Roxy Bar.

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Noi, sempre a fiducia, abbiamo intuito che l’aria era quella giusta e profumata, sempre a naso abbiamo capito che quel simpatico cicciottello era uno che con la gente sapeva trattarci e come. Bene, accende le lucette di Natale che si è giustamente portato come scenografia d’alto livello  e il concerto può prendere inizio. Tutto il suo disco a cannone, parte subito con una grande voglia di far conoscere il proprio repertorio portato costantemente in promozione ovunque sia possibile farlo, la gente presente s’invoglia sempre di più e a rotazione vengono suonati in accompagnamento tutti gli strumenti portati da Alvaro e non, maracas, bongo, bottiglie, bicchieri e persino una vuvuzela. Avete capito bene una vuvuzela che il buon Fabiolino Presutti, in veste di dj della Zuzzurris NaccaPres nonché del progetto Streetambula, spara a polmoni aperti nell’orecchio del malcapitato Alvaro. Quello che istintivamente esce dalla bocca dell’artista è: “N’gulo a mammete, di cuore!”. Risate a crepa pelle e concerto che inesorabilmente tira dritto fino alla fine senza grandi intoppi tra pezzi propri e qualche cover presentata dallo stesso Alvaro oppure richiesta dal pubblico presente che ormai era entrato di diritto in quel mondo personalissimo di Alvaro Van Houten di cui parlavamo prima. Adesso la serata viene affidata alla selezione trash della ditta Zuzzurris NaccaPres che non delude mai, considerando la fresca scomparsa di Zuzzurro da cui gli artisti hanno ispirato il loro nome. Ebbene si, la seconda serata del progetto Streetambula al Roxy Bar di Pratola Peligna è stata all’insegna del trash, perché è possibile fare musica trash con stile ed eleganza, perché è bello prendere tante risate dietro lasciando stare almeno per qualche ora le lacrime, perché elargire felicità non è assolutamente facile, perché non sempre bisogna prendersi sul serio. Noi abbiamo scommesso, noi abbiamo vinto, la gente c’era e comunque si è divertita mettendosi nella memoria uno show indimenticabile, Alvaro Van Houten alla fine dei conti con grande professionalità riesce a far passare in secondo piano le carenze tecniche, la sua musica potrebbe essere suonata soltanto da lui, Alvaro Van Houten torna a casa contento e con la vittoria in tasca. Alvaro Van Houten ha vinto, il pubblico ha vinto ma soprattutto ha vinto Streetambula. Noi non ci fermeremo mai, coming soon…

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Ex CSI

Written by Live Report

Sabato 5 Ottobre a Mosciano Sant’Angelo (Te) sembrava di essere tornati indietro nel tempo. In fondo la musica era la stessa, gli elementi quasi (mancavano Giovanni Lindo Ferretti e Ginevra di Marco) e tutto il resto era uguale. Chi aveva seguito i C. S. I. negli anni  novanta sapeva che aveva di fronte a sé un gruppo destinato a lasciare il segno, a rivoluzionare l’esito della musica italiana tanto da arrivare ad essere forse il primo gruppo Indie a conquistare il primo posto in classifica. Un risultato dovuto all’epoca anche al breve tour di supporto a Jovanotti che per primo aveva osato credere in loro ma che era certamente giustificato dall’alta qualità musicale. Tornando invece alla serata in questione l’affluenza è stata numerosa ma del resto c’era da aspettarselo essendo questo tour (denominato  Ciò che non deve accadere, accade – Nessuna garanzia per nessuno) forse il più atteso dell’anno a livello di musica italiana.

CSI

Il Pin Up come sempre si è dimostrato un locale all’altezza, in grado di ospitare anche eventi di grande calibro come questo ed ha fatto anche piacere ascoltare prima del concerto selezioni musicali a cura di Pino Morelli ed Emilio Fasciani che hanno inserito nella loro scaletta anche brani di artisti quali Siouxie and the Banshees, Cocteau Twins ed Afterhours.

CSI

Gli anni sono passati ma Gianni Maroccolo, Giorgio Canali, Massimo Zamboni e Francesco Magnelli erano lì con un sound più compatto che mai, granitico, grezzo e selvaggio. Un piccolo tentativo di ritrovarsi sul palco era già avvenuto in occasione della colonna sonora del film Il Fantasma dell’Opera quando tre quarti  di loro si esibirono con Frida Neri alla voce (forse proprio da qui è scaturito il tutto).

Baraldi CSI

Tuttavia il merito della bellezza dello spettacolo spetta in parte anche ad Angela Baraldi che non ha fatto rimpiangere l’assenza di Ferretti con una presenza scenica impeccabile e una voce accattivante e a Simone Filippi che alla batteria scandiva il tempo con una precisione incredibile.

CSI

Stranamente il pubblico è rimasto quasi sempre composto (pochi i tentativi di pogare) quasi fosse rapito ed incantato da una magia musicale che pochi sanno trasmettere sia in Italia sia all’estero.Tanti i tuffi nel passato quindi soprattutto quando hanno ripreso anche un discorso, quello dei CCCP, che fece da prologo all’avventura Csi. “Annarella” e “Emilia Paranoica” emozionavano come al primo ascolto anche se tutti le cantavano a squarciagola fra stupore e meraviglia. Dal repertorio dei Csi sicuramente i momenti più intriganti sono stati quelli all’apertura del concerto con “A Tratti” e quasi in chiusura con “Buon Anno Ragazzi” ma molti sono letteralmente impalliditi durante l’esecuzione di “In Viaggio” e “Cupe Vampe”.

Zamboni CSI

Una ventina di pezzi circa in tutto in scaletta che avranno certamente soddisfatto tutti i presenti senza lasciare l’amaro in bocca a nessuno. E ora si attende che ai quattro giganti si aggiungano anche Ginevra Di Marco e Giovanni Lindo Ferretti in una reunion totaledel gruppo che appare per ora alquanto improbabile (se non impossibile), ma se ci sono riusciti i Sex Pistols… E poi del resto si sa, ciò che non deve accadere accade. Intanto speriamo in una testimonianza su cd o dvd / bluray del tour (sarebbe davvero importante lasciare qualcosa ai fans che per quindici anni avevano atteso di rivederli tutti insieme sul palco).

Ecco la scaletta originale e firmata del concerto con la bestemmia scritta da Canali al posto della sua firma!

scaletta non ripulita

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Built to Spill

Written by Live Report

Ci ho messo parecchio a compilare questo report, me ne rendo conto. Non è tanto questione di tempo a disposizione, quanto di riordinare le idee che un concerto ti dà, in un determinato contesto e in un dato periodo della tua vita. Non che i Built to Spill siano il gruppo della mia vita, sono andata al concerto più che per curiosità che per fanatismo o ammirazione, ma la band sa muovere certe corde e se sei in un mood un po’ blu, è fatta. Il sound cupo, rumoroso in modo controllato ed elegante della band di Doug Martsch risuona nel parco del Circolo Magnolia davanti a pochissime persone (pochissime rispetto a quello che mi sarei aspettata, l’area davanti al palco era zeppa di gente, ma pur sempre di dimensioni molto contenute): il concerto si apre con “Goin’Against Your Mind” e insomma, il mio scazzo non sarebbe migliorato affatto. Martsch è nevrile nel modo di cantare, saldo davanti al microfono, un fascio di nervi: crede ad ogni parola che dice e questo rende il messaggio molto più immediato.

Il pubblico è molto attento, silenzioso, concentratissimo. Sembra un concerto d’altri tempi o pare di assistere a un vaticinio. I suoni non sono sempre pulitissimi, forse colpa della location: troppe acute che disturbano. Dopo “In The Morning”, “Revolution” e “Centre of the Universe” ho già le orecchie bollite. I Built to Spill non vantano chissà che presenza scenica, parlano pochissimo, si limitano a ringraziare, in italiano, quando si ricordano. Ma non è certo quel tipo di comunicazione che ricercano, né quel tipo di comunicazione che vuole il loro pubblico. Dopo l’intensa “Get a Life” la scaletta per me scorre abbastanza placida (“Heart”, “Strange”, “Sidewalk”, “Joyride”), fino a “I Would Hurt a Fly” che mi risveglia dalla trance mistica della confusione scazzo-depressiva che mi stavo portando addosso e mi fa godere della bella esecuzione di “Else”, “Fuck 2006” e della mia preferita, “Carry The Zero”. Una bella esecuzione, sì, per quanto Martsch non ce la faccia vocalmente più da almeno cinque canzoni: le frasi vengono troncate prima di quando avrebbero dovuto essere, come se mancasse il fiato e i falsetti sono addirittura stonati in più riprese.

La band rientra per un encore inaspettato e mozzafiato: sta suonando da più di un’ora e mezza consecutiva e se ne ritorna sul palco per lanciare due rivisitazioni molto personali e molto coraggiose di “How Soon is Now” degli Smiths e di “Age of Consent” dei New Order. Qualcuno neanche se ne accorge, qualcuno si gasa per la prima volta dopo un concerto molto intimista, essenziale, impreciso in più punti ma fondamentalmente molto buono per quanto riguarda l’intensità emozionale. Se non ci siete andati, non è che avete perso gran cosa a livello puramente tecnico-compositivo, però avete mancato l’occasione di vedere che la musica è ben altro che note pulite, precisione, grandiosità scenica. E un po’ secondo me ce lo si dimentica che il live è più pancia che dita veloci e frasi a effetto lanciate dal microfono.

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Christian Fennesz, Stephan Mathieu e David Sylvian. The Kilowatt Hour.

Written by Live Report

The Kilowatt Hour

Quando tre geni assoluti della musica ed in particolare di quella elettronica quali Christian Fennesz, Stephan Mathieu e David Sylvian incrociano le proprie strade per dar vita a un progetto ambizioso quale The Kilowatt Hour, il risultato è ovviamente scontato: un capolavoro multimediale formato da immagini che scorrono dietro i tre artisti mentre sono impegnati ad incantare il pubblico accorso.  Cinque lunghe suite strumentali senza interruzioni sono la crema dello spettacolo proposto nell’ambito del progetto The Kilowatt Hour.

Questo il succo dell’evento a cui hanno assistito i fortunati spettatori presenti al Teatro Massimo di Pescara sabato 21 settembre. La data nel capoluogo adriatico è stata la terza di un tour di sole cinque in Italia che è stato anticipato da un’apparizione in Norvegia nell’ambito del Punkt festival a Kristiansand. Probabilmente Christian Fennesz, Stephan Mathieu e David Sylvian hanno dato vita a un qualcosa davvero di irripetibile per il tenore culturale a cui è abituato l’Abruzzo. E chi c’era l’ha riconosciuto a fine concerto quando gli applausi del pubblico accorso sono stati sinceri ed onesti.

Proiezioni video montate in maniera affascinante scorrevano lentamente in perfetta sincronia con i suoni dei tre musicisti e con il narrato dello scrittore Franz Wright, unico interlocutore dello spettacolo se si esclude il breve frammento sonoro di “Only The Lonely” dell’indimenticato The Voice, al secolo Frank Sinatra. Tante le emozioni provate nell’ascoltare le note che il trio suonava magistralmente, le “positive vibrations” (come direbbero i Beach Boys) erano percettibili nell’aria e gli occhi del pubblico non si staccavano mai dal palco illuminato da una luce soffusa. Un viaggio in musica durato circa settanta minuti di puro godimento sonoro che lasciano sperare anche in un’eventuale pubblicazione su  cd o in una riproposizione in formato dvd / blu ray.

Lo stesso Sylvian ha dichiarato: “Mi sento molto fortunato ad essere in compagnia di due musicisti di cui ho grande rispetto e la cui generosità e compagnia hanno arricchito la mia vita personale e lavorativa.Stiamo per intraprendere una breve escursione insieme per vedere dove potrebbe portare.Non c’è nessun compiacimento, né scorciatoie intraprese. Stiamo cercando di creare qualcosa di unico ed emozionante per noi e una nuova esperienza per coloro che saranno presenti alle nostre performances “. L’input per l’intero progetto è stato sicuramente Wandermüde, lavoro pubblicato a gennaio di quest’anno dai soli Sylvian e Mathieu (autore di tutte le musiche) che hanno voluto poi coinvolgere anche l’amico Fennesz, vero genio della manipolazione chitarristica.

Laptop, chitarre e pianoforte si incontrano senza mai scavalcarsi in un perfetto connubio sonoro. La new wave degli anni ottanta e dei Japan per Sylvian è oramai un lontano ricordo… Benvenuti negli anni 2000 e nella nuova era della musica elettronica!

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Dimartino + Stazioni Lunari + The Electric Flashbacks

Written by Live Report

Note Sulle Ali di Farfalla @Teramo (Villa Comunale) 07/09/2013

La mente era lì che viaggiava verso il paradiso, pensando a Federica Moscardelli e Serena Scipione (due studentesse tragicamente decedute nel terremoto dell’Aquila nel 2009), per molti degli accorsi a questa manifestazione che, giunta alla sua quinta edizione, ha saputo fidelizzare il suo pubblico e creare anche un po’ di turismo culturale in una regione come l’Abruzzo. Per loro, e anche gli altri presenti, l’evento aveva quindi un sapore diverso rispetto al classico concerto Rock o al solito festival Indie.

Sembrava quasi, per citare parole alla Battiato “un rapimento mistico e sensuale” quello che sono riusciti a creare gli artisti che vi hanno partecipato. La sera del 7 settembre finalmente lo spettacolo “Stazioni Lunari” ideato da Francesco Magnelli (membro fondatore di BeauGeste, C.S.I. e PGR ed in passato collaboratore dei Litfiba) è approdato in terra abruzzese in occasione della quinta edizione di “Note Sulle Ali di Farfalla – Notte per Federica e Serena”, manifestazione di solidarietà che ha ospitato precedentemente artisti quali Afterhours, Marlene Kuntz, Bandabardò, Brunori Sas, Calibro 35, Offlaga Disco Pax, Bugo, I Cani e Pan Del Diavolo e che si svolge ogni anno a Teramo in ricordo delle due studentesse Federica Moscardelli e Serena Scipione, tragicamente decedute nel terremoto dell’Aquila.

scaletta dimartino

scaletta Dimartino

La cornice dell’evento è stata la Villa Comunale nel quale erano presenti anche stand alimentari, una mostra fotografica curata da Dante Marcos Spurio, un mercatino musicale, un’esposizione artistica di Massimo Zazzara, una di moda a cura di Joele, giovane stilista teramano, con i suoi figurini ideati appositamente per l’occasione e persino una di Alessandro Paolone con le sue creazioni astratte su cotone egiziano. La serata è stata aperta da Dimartino, gruppo musicale indie pop italiano originario di Palermo che prende il nome direttamente dal suo leader, il cantante e bassista Antonio Di Martino.

Qualcuno dei presenti probabilmente lo aveva già visto anche in occasione del Soundlabs Festival a Castelbasso (Te) essendo il target del pubblico lo stesso ma riascoltarlo dal vivo seppure per un breve set di dieci canzoni è stata un’emozione non da poco. La sua scaletta infatti includeva tutte le canzoni più conosciute del gruppo, da “Venga il Tuo Regno” a “Non Siamo gli Alberi” passando per “Poster di Famiglia” e “Maledetto Autunno”.

Dopo circa trentacinque minuti di spettacolo è stata poi la volta dell’attesissimo progetto Stazioni Lunari che in passato ha ospitato artisti del calibro di Bugo, Teresa De Sio, Piero Pelù (Litfiba) e  Daniele Sepe (per citarne solo alcuni) e che per l’occasione ha riunito oltre ai soliti Francesco Magnelli e Ginevra Di Marco, Cisco (ex Modena City Ramblers), Cristina Donà e Cristiano Godano (voce, chitarra e anima dei Marlene Kuntz). Il format è lo stesso di sempre, Ginevra di Marco a fare gli onori di casa, padrona in movimento da una stazione all’altra che determina successioni, movimenti e favorisce commistioni fra i diversi mondi musicali degli ospiti che sono disposte su tre pedane disposte su un palco con una scenografia tanto minimalista ed essenziale quanto attraente.

scaletta stazioni lunari

scaletta stazioni lunari

Lo spettacolo è aperto da “Del Mondo”, proveniente dal repertorio dei C.S.I. che recentemente hanno deciso di riunirsi senza il loro cantante Giovanni Lindo Ferretti per un breve tour che porterà Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali e Massimo Zamboni in giro per l’Italia fino a dicembre accompagnati alla voce dalla carismatica Angela Baraldi.

Tornando invece alla serata del 7 dicembre c’è da dire che massiccia è stata la partecipazione del pubblico che si rivelerà sempre educato e composto (nessun tentativo di pogo, neanche durante i pezzi più animati). La scaletta in questo caso ha incluso invece pezzi provenienti dal repertorio dei singoli artisti (ad esempio “Lieve” e “Trasudamerica” dei Marlene Kuntz) e persino un sentito omaggio al genio musicale di Lucio Dalla (“Com’è Profondo il Mare”) e brani tradizionali della nostra penisola.

Gradita ed inaspettata sorpresa è stata la ricomparsa sul palco verso la fine del concerto di Antonio Di Martino che ha voluto lasciare così un suo ulteriore contributo alla serata che si è conclusa con l’esibizione al laghetto della Villa Comunale del nuovo progetto di  Tito, leader dei Tito & the Brainsuckers, The Electric Flashbacks e con un dj set a cura di VxVittoria C. & Marco Mattioli (COSEPOP). “Note su ali di farfalla – Notte per Federica e Serena” quest’anno ha supportato il centro antiviolenza “ La Fenice”, di cui è intervenuta anche una rappresentante che ha spiegato le attività che svolge durante una breve intervista.

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Nuovissimo Canzoniere Italiano

Written by Live Report

01 Settembre 2013 @Magnolia, Milano

Arrivo al Magnolia di Milano che la serata è già iniziata da almeno un’ora. Mentre cammino sulla via dell’entrata penso che questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, serata dedicata alle “nuove” (?) leve del cantautorato italiano, potrebbe, alternativamente, essere un evento-bomba o una fiera della noia.

Non vi racconterò la serata dall’inizio alla fine: mi è, innanzitutto, impossibile, dato il mio arrivo in ritardo e la mia dipartita in anticipo (all’incirca dopo l’esibizione di Dario Brunori). Vorrei però darvi un’idea di come si è sviluppata, per quanto ho potuto esperire, questa maratona (30 artisti, 3 canzoni ad artista, partendo dalle ore 19), nata da un’idea di Marco Iacampo, appoggiata da Dente e dal Magnolia, che l’ha ospitata. Di cosa si trattava, in soldoni? Di piazzare su un palco qualche decina di cantautori che potessero ricreare quell’attenzione verso la canzone nella sua anima più pura, quell’approccio voce e strumento (voce e chitarra nel 90% dei casi) che è allo stesso popolare e intellettuale, passatempo delle masse e empireo del racconto lirico, dove le parole regnano e narrano tutto il prisma delle emozioni umane in finestre di tre, quattro minuti per volta.

Ma non solo: si trattava anche di dimostrare, empiricamente, che una “scena” della musica italiana d’autore “indipendente” esiste e, anche se il fine dell’evento non era assolutamente quello di “creare un manifesto”, si leggeva tra le righe il tentativo di fare una summa delle esperienze cantautorali più in vista del momento (con qualche assente eccellente, per esempio un Vasco Brondi). Ha funzionato, la cosa? Nello specifico, è stata una “festa della canzone”? Ma soprattutto, i cantautori di oggi fanno parte di una specie comune? E che qualità media si intravede nei loro dieci/quindici minuti di esibizione a ruota libera? Insomma, il Nuovissimo Canzoniere Italiano rappresenta la musica d’autore italiana indipendente (o una parte di)? E questa (o questa parte di) è in buona salute?

Andiamo con ordine. Iniziamo col dire che la prima cosa che ha assalito le mie orecchie camminando sul prato del Magnolia durante l’esibizione di Alessandro Fiori (che non ha nessuna colpa tranne quella di essere stato lo sfondo della mia entrata in loco) è stata la noia. Non la mia, nello specifico: quella di un pubblico sì numeroso, ma certo non concentrato sulle canzoni (o almeno, non in quel momento). Cinquanta persone fisse sotto il palco, le altre a farsi i cazzi propri in giro per il prato. Non riesco neanche a dar loro torto, per la verità, e la scusante sta tutta nel problema principe della serata: la varietà (inesistente). 30 artisti con 3 canzoni a testa dovrebbero garantire un buon grado di varietà, si pensa; e invece no: canzoni lente, spente, senza verve, per la maggior parte tristi, ed è davvero un cliché della musica d’autore che prende vita, questo… si salvano i pochi allegri o ironici (Dente, Brunori) e quelli agguerriti (Maria Antonietta, Bianco). Colpa anche della modalità scelta, forse: 30 artisti in fila, tutti con chitarrina al seguito, non possono in ogni caso sfuggire ad un effetto appiattente, per quanto estrosi e ispirati possano essere. Ma anche all’interno di ogni singola mini-esibizione non brillava la fiamma del divertimento: tutti cantautori di più o meno successo, alcuni con diversi anni di esperienza alle spalle, e pochissimi che abbiano scelto 3 canzoni agli antipodi, per darci un assaggio delle loro capacità compositive o interpretative. La varietà questa sconosciuta, dunque; ma non solo quest’ombra ha offuscato la (lunga) serata acustica. C’era in generale (o almeno questo si percepiva) poca voglia di sorprendere, di incantare il pubblico: pochi ci sono riusciti (il già citato Brunori, o lo splendido, nella sua naiveté eccentrica e contagiosa, Davide Toffolo). E poco importa che le canzoni fossero belle (o meno): passavano sulle teste del pubblico come la pioggia che iniziava lentamente a cadere, e solo i grandi nomi riuscivano a magnetizzare la folla e a farla tornare sottopalco (o qualche tormentone del momento, come l’ironica “Alfonso” della peraltro bravissima Levante).

Ritornando alle nostre domande: se “festa della canzone” doveva essere, bè, non lo è stata; le canzoni sono passate in secondo piano rispetto alla bravura e al carisma del singolo interprete, o, se vogliamo, al grado del suo successo. Il genus del cantautore post anni zero s’è visto? Io, sinceramente, non l’ho visto; se c’era, non me ne sono accorto; e forse preferisco così. Forse illuderci che esista una scena è un modo bellissimo per credere in qualcosa, ma si tratta solo di rare somiglianze (che non fanno mai bene in un mondo che dev’essere caleidoscopico e variopinto per non morire) e usuali amicizie, contatti e collaborazioni (che sono utilissime ed essenziali, ma terminano nei rapporti personali tra gli artisti – per inciso, qual è stato il criterio per invitare, o accettare, gli artisti su quel palco?). La qualità media non è stata disastrosa, ma sfido chiunque a dire che si sia mantenuta su un livello d’eccellenza: tanti bravi artisti che mi hanno incuriosito (oltre a quelli che ho citato sono stati molto interessanti Marco Notari, Oratio, Colapesce e Dimartino – ricordo che molti, tra cui Nicolò Carnesi e Appino, non ho avuto occasione di ascoltarli), ma tanti altri sono scivolati come l’acqua dell’Idroscalo tra le piume delle papere. Come concludere? Io direi: tralasciando ogni eventuale significato socioculturale esteso, ed evitando ogni deduzione statistica – insomma, considerando la serata solo nei suoi attributi più direttamente percepibili, ossia un concerto con 30 artisti sul palco per una dozzina di minuti a cranio, si può dire che, sì, tra tanti cantautori ve ne sono parecchi interessanti, e che sì, è bello vederli affrontare la canzone nel suo lato più intimo e raccolto. Ma, e attenzione alla grandezza ciclopica di questo “ma”, la formula non è delle migliori, e il sottotesto che questa formula implica mi disturba e mi lascia alquanto amareggiato. 30 artisti sono troppi per un palco solo. Tanti sembravano lì solo in quanto conoscenti di Iacampo. E questo dividere ancora la canzone in “canzone d’autore” e “altro” è solo perdere dei pezzi; per non parlare del considerare il “cantautore” qualcosa di definibile a priori. Quanto rende di più un Dario Brunori con tutta la Brunori Sas al seguito? O un Davide Toffolo con i Tre Allegri Ragazzi Morti? Quanto è noioso (per quanto possano essere “belle” le sue canzoni, non è questo il punto) un Federico Dragogna senza i Ministri? Dove sta scritto che LA CANZONE vive nel connubio voce+chitarra? La canzone (o meglio, la canzone “bella”, o “importante”) è per forza “canzone d’autore”? Il Teatro Degli Orrori non fa canzoni d’autore? I Verdena? Davvero crediamo ci sia ancora differenza, o conflitto, tra la “canzone d’autore” e il Rock? E poi, la canzone d’autore dev’essere per forza seria, triste? I Selton non possono fare canzoni d’autore?

Forse tante di queste cose non sono nemmeno passate per la testa di nessuno, né organizzatori, né artisti, né pubblico, ma sono concetti che, per come è stato pensato e per come è stato messo in pratica questo Nuovissimo Canzoniere Italiano, rimangono sottesi, che lo si voglia o no. Forse pensiamo tutti troppo (io per primo), e la realtà è che, più che manifesti (non è questo il caso), maxi-rassegne, serate-evento, più che masturbazioni semantiche, voli pindarici e manifestazioni narcisistiche, forse più che tutto questo, servirebbero solo più concerti, con gente più brava, con canzoni più belle.

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Daniele Silvestri

Written by Live Report

09 luglio @Colonia Sonora – Collegno (TO)

Daniele Silvestri approda al Colonia Sonora di Collegno con un tour a dir poco singolare. Nove musicisti sul palco (tra cui il blasonatissimo Rodrigo D’Erasmo, violinista degli Afterhours) e uno show che si preannuncia imprevedibile e scanzonato. “Mai come questa volta Silvestri dimostra di avere una gran voglia di sperimentare e mettersi in gioco con l’ambizione di stupire e stupirsi, in un percorso totalmente inedito che si annuncia entusiasmante e imprevedibile”, il comunicato stampa mette già l’acquolina in bocca.

La cornice del festival alle porte di Torino ha i solchi della lotta. Nonostante tutte le difficoltà è ancora in piedi e scalpitante. È il braccio dello zombie che sbuca dalla tomba, in un triste cimitero pieno di manifestazioni ormai defunte da anni. Il Colonia, nonostante il bill quest’anno non sia da urlo come nelle precedenti edizioni, ha il suo carattere e la sua personalità e per Daniele si riempie di gente di tutte le età. Gente che ha sete di canzoni. Sete saziata in partenza anche per i più pretenziosi, con un inizio che alterna brani più recenti a vecchie melodie nascoste e un po’ impolverate, pronte a luccicare nella nuova veste. E allora la retorica “Io Fortunatamente” diventa più soffice e meno tagliente, “Il Viaggio” è estiva come la serata in cui viene cantata, “Sornione” prende l’andamento tranquillo e pacioso, sintomo di un live rilassato e molto conviviale. Si arriva dopo poco ad un virtuoso assolo di Rodrigo D’Erasmo che introduce “Via Col Vento”, tutto resta magico nonostante l’arrangiamento molto più solare e spensierato. Daniele ci dimostra che la magia delle sue canzoni non varia coi vestiti che gli mettiamo addosso. La band stratosferica che lo accompagna si diverte prima con il reggae di “Precario è il Mondo” e poi gioca storto con la ritmica arzigogolata della “Classifica”. Per non parlare di “Amore Mio”, si balla e si ride davanti alla luce del faro della motocicletta di Daniele, munita per l’occasione di una bella tastierina sopra il manubrio.

Il cervello non lo stacchiamo mai e allora ecco “L’Uomo Col Megafono”, più rock e liberatoria che mai. Le percussioni di Ramon Josè Caraballo si incastrano alla perfezione alla sezione ritmica e le chitarre giocano a rincorrersi con il violino di D’Erasmo. Chiamatele improvvisazioni, chiamatela intesa, ma questa squadra sembra giocare insieme da 40 anni e invece è insieme da qualche mese. Il racconto on the road de “L’Autostrada” sfocia in un assolo viscerale di tromba. “La gente passa e prosegue veloce” ci dice la voce narrante di Daniele. Non è vero gli gridiamo noi, ci fermiamo ad ammirare uno delle migliori live band italiane in circolazione e rimaniamo a bocca aperta, stupiti e ammagliati dalla semplicità con cui si presentano. È tempo di due parole e Silvestri pare davvero all’osteria con gli amici, ci fa sentire a casa, sta suonando per lui e per noi. E quando ci si diverte sul palco è un attimo coinvolgere migliaia di persone. Le bacchette di Pietro Monterisi picchiano sulla chitarra acustica di Daniele e parte la divertentissima “Il Flamenco Della Doccia” seguita dalla pugliese “Me Fece Mele a Chepa”. È poi ora dei classici e degli ospiti, in un concerto che ha il sapore di essere lungo, molto lungo (e sia ben chiaro ciò non ci dispiace affatto). “Occhi da Orientale” e “Il Mio Nemico” sono intervallate da special guest come Bunna degli Africa Unite nella cover di Bob Marley “Get Up, Stand Up” e da Samuel e Max Casacci dei Subsonica nella loro “Liberi Tutti”. Certo mossa astuta quella di cantare un  loro pezzo in terra sabauda, ma ciò che è incredibile è come tutto suoni fluido e non vi sia alcuna forzatura nonostante la varietà di stili e di generi che la band sfodera tra un pezzo e l’altro. Ancora mi viene da pensare come le grandi canzoni possano abbattere i generi e i pregiudizi.

Pure il finale è imprevedibile. Dopo il medley “Gino e L’Alfetta”/”Salirò” che rasenta quasi la disco music, seguono la sanremese “A Bocca Chiusa” e “Testardo”, cantata addirittura con il tecnico di palco di Daniele. Prima di chiudere il sipario ci viene regalata l’ultima risata con un simpaticissimo pezzo improvvisato: “Stizziscitici” dove i versi sono composti dai più famosi scioglilingua italiani, alcuni addirittura piemontesi e mandati via Facebook in diretta. L’esperimento è più che riuscito e per mandarci a casa con il sorriso ma anche con i pugni chiusi Silvestri si concede al classicone “Cohiba”. Tutto splende di un rosso acceso, vivo come il sangue, caldo e puro come questa notte. Daniele Silvestri dimostra di essere fuori da tutti gli schemi della musica italiana. Un personaggio di una favola, a volte spensierato e bambino, a volte riflessivo e adulto, di certo mai disilluso. Questa favola però è ancora così vera e sincera che la possiamo toccare con mano.

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