Febbraio, 2012 Archive

Dafne Bloom – Ginger sad

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Forse quattro brani sono troppo pochi per giudicare questo lavoro…

Purtroppo però mi trovo di fronte a un lavoro che assomiglia più a un demo che a un ep che dovrebbe essere anche venduto attraverso le piattaforme digitali…
Gli mp3, si sa, a volte limitano anche i suoni delle canzoni e può darsi che sia anche questo il caso dei Dafne Bloom.
Tuttavia ascoltandoli un po’ di amaro in bocca rimane…
Le qualità nel gruppo ci sono tutte, gli arrangiamenti sono anche strutturati abbastanza bene…
Il brano “Ginger sad” ne è un esempio col suo tappeto sonoro di tastiere sovrapposto a batterie ben ritmate e a un cantato che ricorda molto da vicino quello di Brandon Flowers dei The Killers.
I come from tekno” ha un inizio Krafterkiano ma poi si tuffa in una elettronica alla Nine inch Nails.

Forse però, un po’ più di chitarre e una mano di basso elettrico avrebbero giovato davvero molto al brano.
I “testi” pure risultano un po’ confusionari ma la cosa è evidentemente voluta, quindi almeno in questo il gruppo è ampiamente giustificato.
Baccanalis” invece ha un inizio molto ritmato in cui si innesta una chitarra abbastanza incisiva (almeno qui) e un cantato molto dark e oscuro che ricorda un po’ anche quello di Robert Smith dei The cure ed è sicuramente l’episodio più riuscito di questo disco.

L’impressione comunque è proprio quella di un vero e proprio baccanale sonoro…
Dafne in bloom” è invece una ballad dal tono decadente molto orecchiabile che potrebbe trovare anche spazio nei networks radiofonici ma a quasi tre minuti dall’inizio un improvviso cambio di volume nella regolazione dei suoni rovina un po’ l’atmosfera creata e purtroppo la cosa si ripete anche alla fine.
Peccato davvero quindi, perché il talento non manca e forse con la mano di un produttore di talento tipo Trent Reznor, il supporto di una major discografica e magari anche un mastering migliore questo lavoro avrebbe potuto tranquillamente sfondare.
Una nota di merito però va all’artwork per la copertina appena bicolore, davvero molto bella nel suo minimalismo (una piccola opera d’arte!).

Aspetto quindi i Dafne Bloom alla seconda prova perché per ora la sufficienza appare lontana…

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Camillorè – Graffi e perle

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Un Barnum folk che si agita a più non posso, verve, diaboliche cialtronerie di verità che manomettono l’ipocrisia del buon pensiero e delle comodità d’ascolti  snob; da Bari il pensiero senza catene dei Camillorè,  “Graffi e perle”, sedici tracce umorali e quattro intermezzi recitati dall’attore Pasquale D’Attoma con il fulminante sax del jazzista Roberto Ottaviano, comiche e sanguignolescamente guitte, gravide di j’accuse, prese per il culo ed il teatro virtuale di Dario Fo che incontra la spiritualità ridanciana di Caparezza.

Questo e quant’altro rotea intorno a questa band che, con il fare raffazzonato dei musici di strada, arrivano ad incantare, imbambolare ed affabulare un ascolto divertito e indagante; idee chiare e strampalate con storie sbilenche che graffiano la carne per reclamare ascolto, vibrazioni di jazz, caracolliì  estrosi, mirabolanti piroette di folk-rock che battono forte sul nervo della fantasia più declamata, più recitata; il sestetto pugliese è una fonte d’energia “rinnovabile” ad ogni cambio traccia, una forza teatrale che fa spettacolo uditivo senza sospensioni o tiri di fiato, una sequenziale ironia che rimane appiccicata in testa e  – come una trottola a comando – ti sollecita muscoli e neuroni ad attivarsi nel pensiero e nella smaniosa forza di scaltrezza.

Jannacci che fa cucù su “Il jezzarolo”, il rock di un Capitan Uncino che riverbera dentro “Stequattromura”, l’assurdo rendiconto sulla fiducia che sghemba in un rock’n’roll brass “Il professor Procopio Trombetta”, orientaleggianti deliri alla Totò le MokòTemistocle Malalingua”, le sarabande di un Capossela infervorito “Pllaq plluq”,  “La nonne”, “Papà Oloconte”: questo è solo un assaggio di quello che troverete qui dentro, tra le fronde di una tracklist ricca e mordace, un teatro circus che ha un sorriso per tendone e veleni comici per stelle, una straordinaria scoperta made in Bari che vi farà smontare le tensioni con la forza di parole e suoni inaspettati.
…” e sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al Re/ fa male al ricco e al cardinale diventan tristi se noi piangiam..” .

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“Diamonds Vintage” Family – Music In A Doll’s House

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Profondo 1968, siamo sul crinale di una nuova “scissione creativa” che va ad indagare in una direzione ben precisa, quel rock progressivo che da lucentezze tutte King Crimsoniane, e che si allunga fino all’apoteosi di rock-psichedelico che da lì a poco sarà strada privilegiata per sciami infiniti di band seminali.
I Family, Roger Chapman voce, Charlie Whitney chitarra, Jim King sax, Rob Townsend batteria e Ric Grech violino, sono una delle formazioni di punta della “stravaganza” freakkettona che in quegli anni era dote e costume importantissimi, piacciono molto ed agitano come pochi il sistema alternativo dell’epoca; sul palco sono indomabili e casinari, su disco tutta un’altra cosa.

Music In A Doll’s House” è il disco della rifinitura, sempre con le peripezie beatnik della California in fiamme, ma del contenimento forzato che, in una dozzina di pezzi, stenta a reprimersi fino a sbottare nella sua quasi totalità libertaria, meravigliosamente senza ritegno alcuno.
Tutto è barocco e cangiante, stili e sonorizzazioni che si surriscaldano ed inseguono come nel corpo di una corsa ad ostacoli che non si vuole restringere dentro paratie, pompe magne d’arrangiamenti e architetture sonore, un’avanguardia inaspettata che guarda molto negli occhi di Zappa come motore ionizzante della fantasia creativa, ma anche dentro l’estetica di un rock esplosivo e – a tratti – fuori delle righe – se intese come tali; è l’era dei Mellotron, dei VC7 ed altre strane congetture tecniche che la band di Leichester fa andare a braccetto con arie epiche, cori rinascimentali, trombe e stravaganserrai che colpiscono ad ogni cambio di pezzo.

Tante le sensazioni cosmic open-space The Voyage, The Breeze, Winter, molte le acidosità metedriniche che svalvolano nelle ossessioni di Never Like This, Be my fiend, Peace of mind dove addirittura florealità indù, litanie muezzin ed Ohm tibetani fanno capolino profumato, poi qua e la – ascoltando attentamente il registrato – animosità Hendrixiane, pulsazioni di Peter Gabriel e plumbei sunset blues, emergono divinamente a completare questo disco giocoso e profondo.
Prodotto da Dave Mason dei Traffic, Music in a doll’s house è un missile puntato oltre le barriere del flower power imperante in questo periodo, un missile del quale non ritroveremo più per sempre la traiettoria tra i pindarismi d’oggi.

TRAKS

Chase
Mellowing grey
Never like this
Me my friends
Hey Mr. Policeman
See through windows
Varation on a theme of Hey Mr. Policeman
Winter
Old song, new song
Varation on a theme of the breeze
Varation on a theme of me my friend
Peace of mind
Voyage
Breeze
Three times time

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DOLA J CHAPLIN: ecco l’anteprima del disco d’esordio

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Ecco il VIDEO teaser che presenta in anteprima. il disco d’esordio di Dola J Chaplin.
Firmato dalla VOLUME! Records, ad Aprile 2012 in tutti i negozi di dischi.

“Nothing To Say” – Official Video

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Bologna Violenta – Utopie e Piccole Soddisfazioni

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Partiamo da lontano circa metà anni ottanta. In un buio scantinato freddo e puzzolente, tra rifiuti, siringhe usate, bottiglie rotte e sorci neri e grossi che si divorano gli uni con gli altri, sopra un materasso intriso di piscio giallo e sperma rinsecchito, l’Hardcore, strafatto come al solito, si stava trombando violentemente e senza precauzione alcuna quella fighetta dell’Heavy Metal, non sappiamo quanto consenziente. Poco tempo dopo ecco il parto tanto (in) atteso. Come un alieno verde, con la lingua biforcuta in bella mostra, dalla vagina della fighetta in tutta la sua furia estrema, in tutta la sua follia, senza lacrime, sulla terra fa la sua comparsa una nuova specie. Grindcore è il suo nome e come un vampiro presto inizia a nutrirsi del sangue degli ultimi, inizia a diffondere il suo verbo urlando e a spargere il suo seme dal Regno Unito al mondo intero come una pioggia di psicopatica violenza acida. Napalm Death e Carcass sono i primi apostoli poi convertiti al Death Metal. Proprio Mick Harris (drummer dei Napalm Death) battezzò il nuovo genere parlando di grind, tritacarne, per definirne i tratti caratteristici. Pezzi brevi come esplosioni, liriche sociali, rumore nero e parole a tratti incomprensibili. Nicola Manzan (c’è lui dietro la one-man-band Bologna Violenta) è molto giovane all’epoca ma segue la crescita e lo sviluppo del genere in maniera apparentemente maniaca. La prole dell’originale Grind si è spostata fisicamente, soprattutto in terra Americana (U.S.A.) e ha cambiato alcuni dei suoi tratti somatici. Spesso si è fatta più precisa, ad alto livello tecnico, con riff discordanti tra loro, struttura spesso molto complessa e dilatazione dei tempi di esecuzione, sfociando nel cosiddetto Math-Core (The Dillinger Escape Plan una delle band più rappresentative del genere). In altri casi si è allontanata verso le terre del Metal, sia Death sia Brutal, mantenendo intatte, in questo caso, alcune peculiarità quali la velocità nel riffing o il martellamento della batteria oltre i 200 Bpm, riducendo però la voce a qualcosa d’incomprensibile e quindi mettendo il secondo piano l’aspetto sociale delle liriche.

Nicola Manzan (trevigiano classe 1976, diplomato in violino e polistrumentista, già collaboratore con Teatro Degli Orrori, Non Voglio Che Clara, Baustelle e tanti altri) oggi ha quasi quarant’anni e uno spiccato senso di malinconia propositiva, di voglia di passato, un forte legame con le radici ed anche tanta attenzione agli aspetti evolutivi sia del genere sia della società in cui ha vissuto. La nostra società occidentale, italiana fino al midollo. Nel bene e nel male. La nostra musica di chitarre e pelle che bacia l’elettronica. Pseudo nichilismo teatrale e teatralizzato in una sorta di colonna sonora di un film fantasma (anche se stavolta sono assenti i riferimenti diretti al mondo cinematografico). Esiste un legame tra la “nostalgia” con la quale riprende il Grindcore originario plasmandolo e mescolandolo con l’elettronica e con schegge impazzite avanguardistiche che possono essere voci distorte, trasmissioni radio, inserti di musica classica, jazzismi, cover (splendida) dei C.C.C.P. (Valium Tavor Serenase cantata da Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids), electro-music e tanto altro, con quelli che sono i riferimenti testuali sociali e letterali delle canzoni (canzoni è il termine meno adatto per le esecuzioni di Bologna Violenta) che tanto si rifanno agli anni ottanta, proprio gli anni in cui il genere è nato.

Bologna Violenta è palesemente ben oltre il Grindcore. Utopie e Piccole Soddisfazioni, secondo album dopo l’ esordio datato 2010 “Il Nuovissimo Mondo”, è un insieme di tante cose. E soprattutto è una degna evoluzione, logica prosecuzione, eccelso sviluppo di quanto fatto nell’ album precedente, con notevoli miglioramenti strutturali e compositivi, maggiore lucidità, visione più ampia e meno incentrata sulla sola tagliente chitarra elettrica. Un enorme passo avanti. Il Grind è la materia prima penetrata da citazioni, digressioni splatter, intellettualismi, parole del Presidente della Repubblica Saragat del 1967, canti polacchi, il bambino Dario e la signora Maria, Arturo Taganov  e altre follie. Utopie e Piccole Soddisfazioni è accozzaglia, babele, cagnara, confusione, disordine, guazzabuglio, macello, pandemonio, sconquasso, trambusto, il risultato defecato dalla società italiana in digestione dagli anni settanta fino a oggi, che un Demiurgo chiamato Bologna Violenta ha lavorato come creta per creare qualcosa che disturbasse il perbenismo in maniera mirata e apprezzabile da chi riesce a saltare la schematicità della classica forma musicale tipo canzone e una volta creato qualcosa di bello ci ha pisciato sopra per rendere l’opera ancora più viva nella sua ripugnanza. Come abbiamo detto, dall’analisi del disco e delle sue singole parti, emerge una varietà notevole di elementi. Dalle parole del PdR di “Incipit” e la violenza della chitarra, si passa alla purezza (nel qual caso non prendete la parola alla lettera) di “Vorrei sposare un Vecchio” e il suo coro di bambini, fino a sperimentazioni elettroniche Harsh stile Kazumoto Endo, pseudo improvvisazioni noise degne dei Dead C o dei Flipper e follie pregne d’impulsi sessuali avantgarde memento dei geni della provocazione Butthole Surfers. Ci sono collaborazioni importanti (oltre alle citate ricordiamo quella con J.Randall degli Agoraphobic Nosebleed, con Nunzia Tamburrano, compagna e collaboratrice che recita in Remerda e con Francesco Valente, batterista de Il Teatro Degli Orrori, che urla in Mi fai schifo) e inserimenti di violino, ci sono parole di rabbia, ci sono cover, c’è una ricerca metodica e spasmodica, c’è rassegnazione e speranza, ci sono ballate dall’aspetto folk che raccontano una novella finto De Andrè (Remerda) come a prenderci per il culo, ci sono intermezzi che sarebbero perfetti con le foto delle piazze italiane sullo sfondo, c’è la decadenza culturale e politica, c’è la decadenza dell’arte musicale, ci sono cori monastici squartati dalle urla della chitarra, c’è tutta Bologna Violenta, fino alla fine, ovvia come la morte, triste come la vita. C’è cosi tanto che descriverlo, è impossibile. Utopie E Piccole Soddisfazioni è parte dell’unico strumento a nostra disposizione per distruggere dalle fondamenta il Panopticon nel quale la mente della collettività è stata rinchiusa in completo potere psichico dal guardiano della società moderna. Tutto è smitizzato,tutto è ridicolazzato. Ora sta a voi.

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Cybersadic – Droga alla massa

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Questo lavoro al primo ascolto sicuramente vi lascerà un po’ spiazzati…
“Droga alla massa” dei Cybersadic è infatti un vero e proprio calderone sonoro che comprende nei suoi ingredienti i Subsonica (citazione “dovuta”, visto che si parla del panorama elettronico -techno  musicale italiano) e i Chemical brothers (“Wake up” ricorda molto le sonorità di “Hey boy, hey girl” famosa hit del 1999 del gruppo di Manchester).

Molte infatti le similitudini nei confronti dei due gruppi citati sia a livello vocale sia a livello musicale.La loro però è un’ispirazione proveniente anche da vari repertori musicali, cioè una sorta di eclettismo che permette di apprezzare ogni pezzo come un’entità, diciamo “autoconclusiva“, che peraltro non annoia mai l’ascoltatore.
Poche liriche e musiche ben collegate tra loro vi accoglieranno in un tappeto sonoro che ogni tanto fanno  ritornare alla mente anche i vecchi Kraftwerk, che non appaiono mai datati e che continuano a ispirare le generazioni moderne di giovani musicisti.

Le tematiche trattate nei testi evocano atmosfere cibernetiche però contemporanee e non
paleofuturiste ma sempre con il carattere sovversivo che contraddistingue il loro stile.
Non stupirebbe quindi se qualcuna delle nove tracce trovasse spazio in qualche film di fantascienza alla “Blade runner”.
Nella prima parte del disco c’è un ritmo deciso, consapevole e urlato, dal forte intento comunicativo, anche se spesso intervallato da momenti di pura melodia elettronica che distendono questo incalzare.
La quarta canzone “La notte” ad esempio inizia con un riff di chitarra alla Depeche Mode per poi tuffarsi in un cantato che ricorda i più quieti Cccp distorti da un vocoder.

Molti anche i richiami anche alla new wave italiana dei primi anni ottanta, soprattutto per quanto riguarda le chitarre che confluiscono con la tradizione musicale d’avanguardia degli stessi anni.
Un progetto ambizioso quindi quello di questi ragazzi campani che attende solo di superare la prova del live…
E non lasciatevi fuorviare dal titolo di questo cd…
Semmai consigliate l’acquisto di questo cd alla massa e che la nuova rivoluzione (musicale) permamente abbia inizio da voi!
Attenzione: il disco è sicuramente uno dei migliori lavori usciti in Italia nel 2011…potreste diventarne dipendenti!

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Lambchop – Mr.M

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Misero il destino per chi da eroe diventa un numero zero, ma questo non riguarda i Lambchop. La band di Nashville era un numero zero agli inizi di carriera, zeri rotondi come il sole della loro terra: poco musicisti e molto sognatori, nichilisti dell’atmosfera , assertori che un mega blob inconcludente sostasse nel nulla pneumatico della musica. Questo era il lusso frenetico che questi giovani americani senza collare donavano e donano nei loro lavori. Qui al loro undici della carriera “Mr.M”, provano qualcos’altro, rinunciando al caracollare consueto, per un disco- sì malinconico di prassi – ma con accenti soffusamente smooth, jazzly, confidenziali con sospiri di Tindersticks e Wilco a soffiare delicatamente su braci semi-spente di fuochi andati; della band colpisce sempre la vena svaporata, i suoni tratteggiati che in questo nuovo disco sono dilungati a dismisura, in concreto slow song che stirano la tracklist come un lungo ballare delicato e in uno stato mentale d’abbandono e di rimpianti, ma è solo l’effetto delle orchestrazioni che ampliano il lento pathos che regna ovunque.

Undici pezzi, undici “classici” si vanno ad aggiungere ad un ascolto ovattato, fuori memoria e fuoco, da prenderci l’abitudine anche se si crede che questi “giri di boa” stilistici siano solo prendi tempo per ritrovare quella via maestra d’un tempo, che qui man mano pare vada a  scemare su derive incontrollate; detto ciò Mr. M rimane un disco piacevole, allentato ma sincero e onesto, con tanti sogni dentro e pochi effetti speciali fuori, praticamente inesistenti; Kurt Wagner, il leader vocal della band non sì da pace, crea atmosfere cantate sofferte, acide “Kind Of”, “Nice without mercy”, e nel suono totale vivono un crooneraggio alla lacrima “Mr.Met”, un Nike Drake che cavalca il folk di “Gone tomorrow”, arie da night con coretti “Gar”, la ballata bradiposa “2B2” o i violini sparuti che segano le tramature lente di “Buttons”.

Non si può gridare a nessun miracolo, è solo un buon disco che cozza leggermente con le precedenti produzioni e che abbisogna di più di un bel giro di stereo prima che ti rilasci sensazioni specifiche e idonee di un bel listening; del resto non si può pretendere boom discografici dopo lunghi anni d’altrettanti boom già acquisiti, una ciambella con mezzo buco riuscito ci può anche stare, l’importante è non ricaderci e tornare alla propria storia.

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La Struttura è il nuovo video dei Consenso! Guarda ora!

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La Struttura è il nuovo video dei Consenso estratto dall’album Un Disco Onesto… guarda…

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Violentor

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Un gruppo senza peli sulla lingua, un vero macigno dedito al thrash old school, sono i Violentor freschi del debut album, un omonimo che ha suscitato la curiosità di tanti. Ai microfoni abbiamo Alessio, cantante e chitarrista del gruppo che tra una chiacchiera e l’ altra ci ha svelato diverse curiosità inerenti alla band e al disco.

Ciao Alessio, tanto per cominciare perché non ci dici quando e come sono nati i Violentor?

ALESSIO: I Violentor nascono nel 2005, al tempo eravamo io, Luke dei Devastator e Davide dei Nido di Vespe, altre due bands del panorama underground toscano (approfitto per fare un po’ di pubblicità)
Abbiamo però fatto solo sala prove e niente di più poi il progetto si e’ fermato da subito, tra l’altro non e’ rimasto niente di quello che provavamo al tempo.
Nel 2010 ho voluto ritirar su il gruppo visto che non avevo altri progetti in corso e quindi abbiamo iniziato in pieno dopo qualche cambio di lineup, io, Alessio “The Dog” Medici alla voce e chitarra, Riccardo “Rot” Orsi dei Devastator al basso, Alessandro “Rashade” Battistella alla batteria e Elisabetta “Betta” De Angelis all’ altra chitarra. Un anno nemmeno e abbiamo tirato fuori il nostro primo disco. Attualmente Betta ha lasciato la band e abbiamo deciso di rimanere noi tre.

Quali sono le band che hanno inspirato i Violentor?

ALESSIO: Siamo ispirati sicuramente all’ heavy classico, al thrash e al punk
Ti posso dire che i miei gruppi preferiti sono Venom, Motorhead e Discharge quindi penso di averti detto tutto.

Il vostro omonimo è un disco di pura energia cosa ci racconti delle fasi di mixaggio e di registrazioni, dove e come si sono svolte?

ALESSIO: Abbiamo registrato nella sala prove dei nostri amici livornesi Profanal, Daniele il loro bassista ci ha aiutato nella fase i registrazione, il mix del disco e’ stato realizzato nel 16th Cellar Studio di Roma.

Dell’ EBM Records cosa ci dici, come è nata la collaborazione e come vi trovate?

ALESSIO: Siamo usciti col disco e la EBM ci ha contattati proponendoci la produzione e la distribuzione del cd. Ci troviamo molto bene, e’ una label molto professionale e nel loro roster sono presenti bands molto valide.

Ho notato che il vostro stile è in perfetto Underground, ma a cosa puntano in generale i Violentor?

ALESSIO: Non definirei il nostro stile “Underground”, l’ underground e’ la scena musicale in cui suoniamo, e’ per l’ underground che abbiamo registrato il nostro disco, per far parte anche noi di questa scena con la nostra musica, con la nostra passione. Il nostro non e’ altro che metal senza troppe sperimentazioni, puro, istintivo, grezzo, marcio.
Vogliamo solo divertirci fare qualche altro disco e sopratutto fare parecchie date dal vivo.

Chi si occupa dei testi e quali sono le tematiche?

ALESSIO: Chi ha idee per scrivere, scriva.
I testi del disco li abbiamo scritti principalmente io e Betta, ma anche Ricca e Rasha possono liberamente scrivere. Nel disco nuovo che uscirà penso a primavera/inizio estate abbiamo scritto tutti e tre i testi.
Generalmente i testi parlano delle nostre emozioni, dei nostri stati d’animo, di ciò che ci fa sentire bene, o male, della musica, degli amici, sopratutto di cose vere, sentite e semplici, siamo noi quelli che scriviamo, nulla e’ costruito a tavolino, tutto nasce da dentro di noi.

Per quanto riguarda i live cosa ci dici, dove suonerete nei prossimi giorni? E soprattutto cosa dobbiamo aspettarci da uno show dei Violentor?

ALESSIO: Adesso staremo fermi per un po’, perché stiamo lavorando al nuovo disco, suoneremo qualche data ad aprile, a Roma, Firenze e Torino.
Se fate casino sotto, daremo il meglio di noi!

Che tipo di promozione state adoperando per “Violentor”?

ALESSIO: Con Internet chiaramente, ci vuole tempo, e’ un lavoro anche questo, oggi però siamo più fortunati delle bands di un tempo, il disco sta andando più ora di quando e’ uscito ed e’ quasi passato un anno.

Social Network come Facebook, MySpace e Twitter vi sono d’ aiuto?

ALESSIO: Certo che si.

Bene Alessio, l’ intervista si chiude qui, concludi come ti pare…

ALESSIO: Supportate l’ underground, UH!

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Amp Rive – Irma Vep

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Da quel lontano 1991, quando un gruppo di ventenni trascinati da David Pajo e Britt Walford, plasmarono in maniera netta quello che oggi chiamiamo senza troppi problemi Post-Rock, a ora 14 febbraio 2012 ore 16:26, quali e quanti passi avanti sono stati fatti in merito? Pochi, pochissimi e tanti nello stesso tempo. Il trio classico chitarra elettrica, basso, batteria è stato, di volta in volta, affiancato da synth o altre strumentazioni meno consuete ma la spina dorsale è rimasta sempre praticamente illesa. Il rock strumentale degli Slint è diventato qualcosa di totalmente diverso eppure non è mai cambiato. Il calderone, sopra la fiamma degli anni novanta, nel suo continuo ribollire ha rovesciato all’esterno stili diversi che sono sfociati in diverse correnti scivolate lontano dalla pentola (pensate al Math-Rock dei Don Caballero). Il Post-Rock non era ancora un preciso genere musicale ma il tempo l’ha reso tale. Ogni variazione sul tema di quel celebre Spiderland ha generato diverse correnti musicali. Quello che non è quello che era allora, allora è altro. Ogni ramo partito da quel 1991 è diventato una pianta diversa dal tronco. Quello che resta, Il Post-Rock oggi, è esattamente quello creato tanti anni fa da quei ragazzi di Louisville ed è esattamente quel tronco che ci propongono i ragazzi di Reggio Emilia sotto il nome di Amp Rive.

Nessuna sperimentazione, nessuna voce fuori dalle corde, nessun estremismo o divagazione, niente Screamo Post-Hardcore in onore della madre The Death of Anna Karina. Niente di niente, oltre il cuore. Nuda e cruda musica strumentale. Tanto per capire di chi parliamo, gli Amp Rive sono una band di Reggio Emilia, nata dalle idee di Adriano e Luca dei The Death Of Anna Karina (Unhip Records), assieme a Gualtiero Venturelli (chitarra) e Alessandro Gazzotti (basso). La band nasce nel 2005 con il nome di Irma Vep e negli anni successivi si dedica a un’intensa attività live, aprendo i concerti per numerose band italiane tra le quali Three Second Kiss, RedWormsFarm’s, The Zen Circus e Le Luci Della Centrale Elettrica. Nel 2009 compongono una colonna sonora originale per il film Vampyr di C.Th. Dreyer del 1932, che eseguono in sonorizzazioni dal vivo in diversi festival cinematografici, con la collaborazione della Cineteca di Bologna. Nel corso del 2010 registrano i pezzi che vanno a comporre il loro primo album, presso l’Igloo Audio Factory di Correggio (RE) da Andrea Sologni (Gazebo Penguins) che ha fatto parte della band dal 2007 al 2010 e che ha suonato synth e chitarra nel disco, con la collaborazione di Enrico Baraldi (Ornaments e Nicker Hill Orchestra). Con l’uscita del primo album gli Irma Vep decidono di cambiare il loro nome in Amp Rive, in seguito all’arrivo di nuovi componenti: Enrico Bedogni alle Tastiere e chitarra e Daniele Rossi al violoncello e chitarra.

Il cd, intitolato “Irma Vep” proprio per dare continuità al lavoro svolto negli anni precedenti, è uscito il 1° ottobre 2011 per l’etichetta francese Als Das Kind, ed è stato anticipato dal video della canzone “Best Kept Secret”. Parlare del disco, avrete capito, rischia di diventare un puro esercizio di espressa banalità. Sei canzoni di classico Post-rock senza alcuna via di fuga. Continui richiami ai mostri sacri del genere come Godspeed You! Black Emperor depurati dalle incursioni vocali e dall’alone di mistero che aleggia nell’opera dei canadesi. Dal silenzio totale alla violenza totale come Explosions In The Sky ma senza silenzio e senza violenza. Ma soprattutto tanto tanto Mogwai sound. Tuttavia, ovviamente (avrete capito che il suono degli  Amp Rive si presenta estremamente “puro e ri-pulito” da ogni sorta di variazione sul tema) sempre senza eccessi noise. Per capirci, se qualcuno vi chiedesse di spiegare platonicamente cosa e quale sia l’idea di Post-Rock, arrendetevi, la risposta è tutta in quest’album. Strumentale e moderna classicità che forse nulla aggiunge al panorama musicale italiano odierno in termini d’innovazione ma che ci affascina comunque per la sua poesia. “La bellezza è mescolare in giuste proporzioni il finito e l’infinito”. Come se non bastasse la neve a scaldarci romanticamente il cuore in queste altrimenti inutili giornate di Febbraio, c’è anche Irma Vep, non dimenticatelo.

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Bobby Soul – Conseguenze del groove

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Il nuovo disco di Alberto De Benedetti, in arte Bobby Soul, è una sorta di esperimento sonoro che forse accade per la prima volta in Italia: “Conseguenze del groove” è infatti inciso con tre band differenti, i Knickers, i Les Gastones e i Bonobos Boracheros, a seconda dei brani.

Diciotto tracce che vi catapulteranno nell’universo del soul e del funky sin dal primo brano “Conseguenze” in cui il rimpianto critico Ernesto De Pascale mette subito in chiaro che “I negri hanno creato blues, jazz, rock’n roll…noi stiamo semplicemente rivivendo impressioni nate dal popolo di colore”.
Ascoltando questo compact disc infatti si sente tantissimo l’influenza di tutta la musica black con testi mai scontati a volte persino anche ironici, come succede in “Bobby Soul, who the funk you think you are?” e “Un’assouluzione”.
Il singolo “Stringidenti” scritto a quattro mani con Andrea “Manouche” Alesso è molto orecchiabile e le tastiere di Mattia Minchillo trovano qui il giusto e meritato spazio.
C’è anche tempo per la riuscitissima cover di Ritchie Havens  “Freedom” in cui prevalgono la chitarra e le percussioni e che nonostante siano passati molti anni dalla sua pubblicazione non mostra i segni del tempo.

Ospiti prestigiosi del disco Rickey Vincent , il già citato Ernesto De Pascale (a cui è dedicato l’intero album) e Gil Scott Heron.
Certo dai tempi di “73% Phunk” c’è stata una notevole evoluzione e maturazione nei suoni ben evidente soprattutto in “Amore a prima vista” e “L’uomo della porta di servizio” e in “Crudele”, che qui troviamo in una versione stravolta rispetto a quella del disco citato.
Lasciatevi quindi prendere dall’incantevole voce di Bobby Soul, che a tratti vi potrà anche ricordare anche quella di Mario Biondi.

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Mondo Naif – Essere Sotterraneo

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Essere sotterraneo” è  l’opus primo dei Mondo Naif, selvaggia band del trevigiano, perfetta per sbarazzarvi dello stress provocato dai vostri boss o per rimediare alla sempre minore libido sonica della vostra ragazza. Fra echi desertici, miraggi, allucinazioni a loud  stellari e ascolti ripetuti di Marlene Kuntz, Verdena “Eloise” e divinità anni Novanta come i Ritmo TribaleCome me”, “Violenta” il trio snocciola senza ritegno alcuno undici fendenti caotici della miglior dottrina stoner “lunaire” che ci possa essere ancora in giro da qualche parte.

Non hanno tutti i torti i critici del nuovo tormentato corso dei gruppi che ruotano ancora intorno alla figura centrale di questo genere, ed è un corso di chi ama ora o amato fortemente nel passato i bagordi elettrici e bui del suo sistema trasmissivo sonico, fatto sta che è innegabile che sia un “mega dettaglio” che ha sconvolto – tra piacere e dolore – la scena rock mondiale e che band come i nostri veneti ancora ci facciano linciare pelle e udito con la passione di chi il rock lo vive veramente dal basso e non su carta patinata.

E’ un buon esempio di qualità e pathos sacrificale, un disco che esalta – sebbene dalla sua provenienza nei reconditi pertugi dell’underground – grandi manovre stilistiche, tremendamente incisivo e promettente, pronto a ruggire sui grandi e medi palchi dell’attenzione con dolcezza inaspettata come il vento dell’Ovest delle ballate grunge intimiste “Aiutami, sono un ladro”, con lo slancio rivoluzionario dei RefusedLa terra trema”, a fondo nei sulfurei e neri sanguinamenti dei The TheDeuteria, vol. II”, un piccolo diversivo nel punkyes stile Bay Area “Mario”, nei Baton Rouge tra puttane e woodoo alcolici “Boblaito” ed una corsa tra i deliri Tarantiniani’N’roll per perdersi oltre in deserto di Sonora, fra pace, santità e maledizioni a go-go “Y fire”.
Mondo Naif consegna intatta la rabbia vogliosa –  in fondo –  di una libidine mai circoscritta, di una forza magnetica che è “maitre a penser” in un panorama giovane rinsecchito, un’energia polvere e sudore grandiosa in mezzo a tanti prodotti senz’anima. Provare per credere.

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