Febbraio, 2012 Archive

“Diamonds Vintage” Deep Purple – Made in Japan

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Credo fermamente che in ogni casa che “musicalmente” si rispetti,  ci sia una copia  – oltre all’album III° degli Zeppelin e il The dark side of the moon dei Floyd –  di questa pietra miliare dell’hard-rock universale, il Made in Japan originale dei Deep Purple, quello racchiuso dentro la copertina color oro e del quale ci si fregiava come di possedere una Bibbia miniata da Amanuensi doc.
Un giornalista del Kerrang Music Magazine un giorno disse…”..Ci sono momenti in quest’album che non ho mai sentito nella storia della musica rock..”, e aveva la ragione tutta dalla sua parte.

I Deep Purple già avevano tre fenomenali album in attivo, In Rock, Fireball e Machine Head, ed usarono alcuni dei pezzi contenuti per presentarli in tour in Giappone nel 1972, e ne venne fuori questo mastodontico doppio Lp che registrarono in tre serate e precisamente due a Tokio e una ad Osaka; il Made in Japan rivoluzionò e aprì la strada ad un nuovo modo di registrare la musica live, non più cellophane tapes ma strumentazioni d’avanguardia che potessero captare i suoni come in presa diretta e remixarli immediatamente all’esecuzione.
Paice, Lord, Glover, Blackmore e Gillan fecero sobbalzare il popolo rock d’oriente con invenzioni, cataclismi, riarrangiamenti ed evoluzioni sinfoniche che combattevano ferocemente tra il chitarrismo carismatico di Blackmore e l’ugola divina di Gillan, le due primedonne assolute di tutta la band; questo live è rimasto scolpito nel granito sovrumano di un’interpretazione che non ha mai riconosciuto eredi o pretendenti al trono dell’hard rock, nessuno ha mai potuto inserirsi nella velocità di Hammond e sviso di Highway star come nelle ottave di grazia ipersonica di Child in time.

La storia aveva già messo lo zampino e l’alloro sulle armonizzazioni infuocate della band che con un semplice ingranaggio di power chord inventò il riff di chitarra che tuttora rimane esempio da manuale, Smoke in the water, immortale pezzo mai superato, ma pure l’assolo di batteria dalle mille battute sincopate The Mule, la voce di Gillan che imitava di gola quello che Blackmore tirava fuori dalle corde elettriche tormentate di Strange kind of woman e le allucinazioni psichedeliche di tasti Hammond, spaziali elucubrazioni psicotrope di Lord e Glover Space Truckin e Lazy, sono lì ad iridarsi della gloria eterna, pura manna di vinile che ha sfamato milioni d’accreditate moltitudini.
Correva l’anno di grazia 1972, il popolo rock nipponico visse la potenza suonata di una nuova esplosione atomica, il resto del mondo ne subì le divinazioni radioattive dalle quali non volle schermarsi. Mai.

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unòrsominòre: le date del nuovo tour

Written by Senza categoria

Dopo l’uscita del suo ultimo album “La vita agra” (pubblicato per Lavorare Stanca lo scorso 7 novembre), unòrsominòre presenterà le nuove canzoni in concerto.

Ecco le prossime date:

ven 24 febbraio, Padova, Reality Shock
sab 3 marzo, Verona, The Brothers (con ospite specialissimo)
gio 8 marzo, Benevento, Morgana
ven 9 marzo, Ortona, Abbey Road
mer 25 apr, Rimini, Neon (con ospite specialissimo)
mar 1 maggio, Valeggio s/m, Villa Zamboni (con ospite specialissimo)
sab 12 maggio, Parma, Giovane Italia (con ospite specialissimo)

INFORMAZIONI SUL DISCO:
Il disco prende il nome da un romanzo di Luciano Bianciardi nel quale si racconta la lenta e inesorabile omologazione di un potenziale rivoluzionario piccolo-borghese attraverso la quale, demolendo il mito del boom economico italiano, si comprendono le radici del degrado sociale e culturale del nostro paese: è la cronaca di un fallito tentativo di rivolta, affogato nel grigiore della vita di ogni giorno, ridotta ad una stanca lotta per la sopravvivenza giornaliera dove, citando Gaber, “non si riesce mai a dare fastidio a nessuno”.
Il tema del romanzo è il punto di partenza per un’amara, a tratti sarcastica, spesso rabbiosa riflessione in musica attorno alle miserie della società italiana di oggi.

Il disco, ispirato ai grandi album politici degli anni settanta anche nella veste grafica, è denso di un linguaggio crudo e di immagini vivide; parole dirette, poche metafore, nessuna ricerca di leggerezza, di ironia, di scioglimento della tensione. “La vita agra” ricerca e raggiunge una spietatezza verbale e concettuale senza concessioni, mentre racconta dell’insensatezza delle nostre abitudini, del futuro e del passato rubati a un’intera nazione, della superficialità di una generazione distratta, o dell’impossibilità oggettiva di intervenire per cambiare il corso degli eventi.

Il suono dell’album si completa nella collaborazione fra l’òrso e Fabio De Min (Non voglio che Clara), produttore del disco e co-arrangiatore di molti dei brani, che ha impreziosito il lavoro con interventi di pianoforte e sintetizzatori, arricchendo le canzoni costruite dall’òrso attorno alla sua voce, alle sue chitarre, basso e batteria (strumenti che su “La vita agra” sono suonati tutti dallo stesso òrso).

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Jumping Shoes

Written by Interviste

Intervista con Carlo Tabarrini, chitarrista degli Jumping Shoes, freschi del nuovo lavoro “Non Contate su di me” nel momento chiave della loro carriera. Un band che ha fatto della classe uno stile di musica, della musica uno stile di vita.

Ciao Carlo. Per prima cosa, come stai?
Bene grazie.

Togliamoci qualche curiosità. Chi ha scelto la copertina dell’album “Non Contate su di me”? E’ quanto di più lontano ci sia dalla vostra musica e, per questo, alcuni hanno criticato la scelta. Io l’ho trovata geniale.
Diciamo che è stata una scelta di gruppo, anche se qualcuno ha storto un po’ il naso, ma volevamo distaccarci dalle solite cose e volevamo colpire. Penso di esserci riusciti in fondo.

Sono ormai oltre vent’anni che suonate. Come siete cambiati voi e com’è cambiata la vostra musica?
Logicamente siamo maturati come persone e questa maturazione si è manifestata anche nella musica e nelle scelte musicali. Diciamo che venti anni fa eravamo forse più istintivi e poco logici nella composizione dei pezzi, difatti le prime demo erano un po’ caotiche com’era caotica la vita a venti anni, ora la giusta follia è rimasta ma con un briciolo di razionalità e di maturità che ha portato la nostra musica ad essere secondo me un buon prodotto. Con ciò non rinnego niente fatto precedentemente; semplicemente non mi ci ritrovo più almeno in parte.

Cosa avete guadagnato e perso con l’innesto della voce di Samuele Samba Bracone al posto di quella di Amir Billal?
Devo dire che il nostro gruppo ha avuto sempre sfortuna con i cantanti. Amir il nostro primo cantante era un vero animale da palcoscenico, la gente veniva a vederci per la musica e per vedere cosa avrebbe combinato sul palco, e la cosa è andata molto bene per diverso tempo. Abbiamo vinto vari concorsi, apparizioni in varie compilation, apparizioni televisive moltissimi concerti in tutta Italia, ma poi problemi di scelte musicali e problemi d’interazione tra noi hanno portato all’abbandono di Amir e allo scioglimento del gruppo. Poi dopo circa quindici anni ci siamo ritrovati dopo esperienze varie e abbiamo registrato dei pezzi che sono divenuti il nostro primo cd ufficiale “Limbo Like a Bubble” prodotto dalla Nlm record. Appena uscito il disco, la convivenza con Amir era impossibile cosi abbiamo deciso di cambiare vocalist e la scelta si è concretizzata su Samba un ragazzo dalle notevoli capacita secondo me che ha portato ai Jumping nuova vitalità e voglia di spaccare. In poco tempo abbiamo registrato “Non contate su di me” completamente in italiano anche per tagliare con il passato e fare tabula rasa. Speriamo che ora vada tutto bene. Sicuramente con Samuele abbiamo guadagnato dal punto di vista creativo e professionale, perso assolutamente niente.

In tutti questi anni avete prodotto un numero molto esiguo di album. Scelta artistica o difficoltà pratiche?
Come dicevo prima il nostro gruppo è stato molto instabile dal punto di vista dei cantanti e ciò ha frenato notevolmente lo sviluppo e la composizione dei pezzi comunque è sempre valido il detto poco ma buono quindi siamo contenti cosi.

Nel vostro ultimo lavoro avete deciso di cantare in italiano. Un modo per avvicinarvi al pubblico nostrano o cosa?
E’ stata una scelta ponderata a lungo, ma cambiare dall’inglese all’italiano era la scelta più logica da fare sia perche si cuciva meglio sulle corde di Samba e poi perche siamo italiani e vogliamo che la gente ci capisca. Ciò non toglie che qualche prossimo pezzo non sia in inglese o magari in francese, chi può dirlo.

Nella vostra musica si notano le più disparate influenze, dai Faith no More ai Jane’s Addiction e una miriade di contaminazione dell’Alternative Rock con il Funk, il Rap, il Pop, il Progressive, la Psychedelia. Quali sono le vostre radici? Chi vi ha influenzato maggiormente nello sviluppo del vostro percorso artistico?
I gruppi da te citati fanno parte dei nostri ascolti quotidiani quindi penso che inconsciamente ci abbiano influenzato ma comunque diciamo che ci viene abbastanza spontaneo mescolare varie influenze, non ci poniamo limiti cercando comunque di dare un senso a ogni singolo pezzo. Personalmente il mio gruppo preferito sono stati i Janes’Addiction, magari quelli vecchi un po’ meno quelli attuali, anche se li ritengo veramente geniali. Il modo di suonare di Navarro mi ha influenzato totalmente difatti è uno dei miei chitarristi preferiti.

L’ultimo disco che hai ascoltato? E il tuo preferito?
Attualmente devo dire la verità non ho più trovato un gruppo che mi abbia colpito, ce ne sono vari ma non vedo più il gruppo che rimarrà negli annali della storia della musica, tipo U2 per intenderci, quindi non so dirti l’ultimo cd ascoltato e l’elenco dei miei preferiti è troppo lungo quindi te lo risparmio.

Hai visto Sanremo? Cosa ne pensate? Che cosa pensate dell’industria e del mondo musicale italiano?
Ti dico la verità, ho visto San Remo, e non me ne vergogno a dirlo anche se sono un metallaro incallito. Qualcosa di buono secondo me c’e’ ma molto poco. Ma oramai San Remo fa parte della tradizione italiana come gli spaghetti, tutti lo criticano e ne parlano male ma lo guardano lo stesso me compreso. Una cosa è certa, se avessero le palle di rischiare con canzoni più particolari anziché’ la solita minestra potrebbe essere veramente una vetrina anche per gruppi metal o punk, sarebbe veramente uno spettacolo. Un anno se non sbaglio ci sono andati anche gli Iron Maiden e i Kiss. La stessa cosa vale anche per l’industria discografica, bisogna rischiare ed investire sul rock e sui giovani e sono sicuro che il mercato discografico risalirebbe alla grande.

Da un punto di vista tecnico siete a livelli molto alti. Quanto considerate quest’aspetto importante e preponderante su altri elementi caratteristici della vostra musica?
Diciamo che la preparazione tecnica sia sullo strumento sia nelle linee vocali è importante, ma deve essere sempre messa a disposizione del pezzo per esprimere al meglio ciò che si vuole dire e trasmettere con il pezzo stesso. Il virtuosismo fine a se stesso a me personalmente non piace o per lo meno dopo un po’ mi annoia. Per quanto riguarda poi in particolare i Jumping Shoes non ci riteniamo assolutamente dei virtuosi, cerchiamo solo di fare al meglio quello che ci piace sperando che piaccia pure agli altri.

Avete scelto la lingua italiana eppure i testi sembrano non reggere il confronto con l’aspetto musicale. A dispetto della copertina di “Non contate su di me” non riescono quasi mai a essere ironici (anche quando ci provano come in “Caramelle”) e non riescono nemmeno a essere pungenti. Non vi sembra che dovreste dedicare maggiore attenzione a questo fattore?
Come sai questa è la nostra prima prova in italiano e ti posso assicurare che scrivere in madre lingua non e’ affatto semplice. Su molte recensioni è stata notata questa cosa quindi sicuramente è vera. Sicuramente nei prossimi pezzi cureremo molto di più questo fattore sperando di riuscirci a migliorare.

Hai un idolo, fuori dal mondo musicale?
Un idolo no, diciamo una persona a cui darei la mia stessa vita, mia figlia.

Il vostro sogno?
Il nostro sogno è poter vivere di musica e noi cercheremo di riuscirci impegnandoci al massimo, se non si avverasse, va comunque bene lo stesso.

Non so se avete saputo delle recenti “guerre” tra musicisti (Capovilla, il Piotta, ecc…) e critica. Che rapporto avete con la critica?
Nella vita ci sono le cose che piacciono e cose che piacciono un po’ meno, quindi anche nei confronti della nostra musica è la stessa cosa. Anche tu nel tuo mestiere di recensore elogi o stronchi un gruppo in base al tuo gusto musicale, ma sicuramente la tua valutazione può essere in disaccordo totale con un altro recensore. Comunque basta che se ne parli nel bene o nel male secondo me.

Cosa manca alla vostra musica per diventare qualcosa di diverso da tutto il resto dell’offerta musicale passata e presente?
Sinceramente non so cosa rispondere a questa domanda. Se riuscissi a sapere cosa manca alla nostra musica per renderla unica probabilmente starei a contare i soldi del mio conto in banca ora.

Il prossimo passo?
Il prossimo passo è suonare più possibile e promuovere il cd alla grande. Stiamo già abbozzando dei pezzi per il nostro prossimo cd ma ora è ancora tutto in fase embrionale. Il nove agosto suoneremo ad un grande festival in Austria con gruppi provenienti da tutto il mondo, il Worlds End Music festival, speriamo di suonare alla grande e speriamo di divertirci alla stragrande.

Dimmi quello che vuoi dirmi e non ti ho chiesto:
Diciamo che abbiamo detto tutto. Ti volevo ringraziare per quello che fai in primis cioè supportare la musica emergente alla grande e volevo ricordare che chi volesse il nostro cd basta mandare un messaggio su Facebook alla nostra pagina e noi saremo ben lieti di mandarlo.

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Arctic Plateau – The enemy inside

Written by Recensioni

Questo disco sembra una visione notturna degli Slowdive o il canto epico rassegnato dei mangiatori di loto, dimentichi della loro vita e immersi in un apatico presente, invece è il soave decadentismo plumbeo che gira in “The enemy inside”  di Artict Plateau, moniker del musicista romano Gianluca Divirgilio, la nuova atmosfera discografica che l’artista fa scivolare negli orecchi galvanizzati di chi cerca un appiglio concreto – e a suo modo buono –  per iniziare alla grande una giornata in tema invernale, appiglio che si fa più che concreto, stupendo.
Un disco che non riuscirà – data la sua sofferenza interiore dei colori del vuoto e della mestizia – a farci vedere le stelle o qualche rappresentanza di esse, ma ci regala un diabolico collasso sensoriale ed emozionale, quel “lieve svenire” Kuntziano che sembra a tratti il principio attivo dell’estasi amarognola e disturbata Ottantina, carica di melodramma dark e del liberismo dei giorni contati della purezza shoegazer; undici piste per atterrare o decollare in quell’idea di malessere che in fondo è dentro noi tutti, connaturata nella dimensione umana, il nostro “impero interiore”, luogo dove rifugiarsi senza essere disturbati.

Ballate, schegge e ferite, radenti e amori che s’impastano in nuvole grigie che si susseguono una dietro l’altra come sipari di una commedia interiore che non ha pause, ricordi, scommesse e gole amare, una lunga poetica malata che trova conforti e tumefazioni nel rispecchiarsi di bruciature incancellabili; lo specchio di MorrisseyMusic’s like”, la dolcezza di una lacrima DrakeanaIdiot adult”, lontani echi di Phil CollinsAbuse”, “Wrong”, il pathos di una foschia folle condivisa con Carmelo Orlando (Novembre) nella disperazione urlata “The enemy inside”, l’eleganza in ballata di un Brian Ferry che danza in “Loss and love” in cui partecipa con la voce anche Fursy Teyssler (Les Discrets),  sono i sintomi complessi e belli di questa rabbia muta ed urlata, di questa ossessione fragile e corposa che è buio e luce senza fine, ossessione che vi sarà trasmessa con lo skippare all’indietro per ritornare sui luoghi del delitto d’ascolto della singola traccia  e dalla quale nulla potrete fare.
Artict Plateau, la levità dei sistemi emotivi.     

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Madkin | Perdone La Molestia

Written by Recensioni

Ultimamente si parla molto di questi Madkin, una band romana dedita ad uno Stoner Rock con forti riferimenti ai Kiuss. La band formata da Giuseppe Raffaele, Serena Jejè Pedullà, El Pais e Flavio Gamboni giunge finalmente al disco d’ esordio intitolato “Perdone La Molestia”; registrato e mixato presso gli Snakes Studios, ha come tematiche principali quella dell’alienazione umana, la comunicazione violenta, l’ amore  e l’ esperienza onirica. Musicalmente questo platter presenta massicci riff suonati con discreta velocità, insomma a tratti sembra che la band abbracci parti Hardcore ma la vena Grunge e Stoner si nota molto di più. Per farvi un esempio: mixate il sound dei Placebo e dei Kiuss, il tutto condito con un pizzico di aggressività alla Walls Of Jericho, ecco che otterrete la proposta dei Madkin. Questo “Perdone La Molestia” non sarà un apice, ne candidato al disco migliore dell’ anno ma è comunque un lavoro apprezzabile che nel bene o nel male ha qualcosa da mostrare, anzi, da far ascoltare. Il consiglio è quello di dare un opportunità ai Madkin, che indubbiamente hanno ancora molto da  apprendere ma per il resto ci sono dentro fino al collo, possiamo essere fiduciosi.

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Bologna Violenta

Written by Interviste

Un lungo trip alla scoperta dell’uomo Nicola Manzan, demiurgo dell’one man band Bologna Violenta. Dall’amore per il Grindcore e i Napalm Death, fino alla creazione del nuovo album. In mezzo, tutta l’ anima di una delle più belle proposte alternative della scena musicale italiana.
Parola a Bologna Violenta.

Ciao Nicola. Per prima cosa, come stai?
Abbastanza bene, nonostante il clima tenti quotidianamente di minare la mia salute, mi sembra che per ora non ci siano problemi di questo tipo. Ho tante cose da fare, quindi faccio finta di niente e vado avanti per la mia strada.

Come si vive a Bologna?
Non vivo più a Bologna da otto mesi, ormai. Ci ho vissuto parecchi anni, tra alti e bassi, ho avuto dei periodi in cui ci stavo benissimo, altri meno, ma ad essere sincero non ho ancora capito se mi manchi oppure no. Ora vivo dove sono cresciuto, nel trevigiano, e nonostante culturalmente ci sia un abisso tra le due città, per il tipo di vita che faccio devo dire che sto bene anche in mezzo alla campagna.

Sei al secondo album dopo l’esordio di due anni fa con “Il nuovissimo mondo”. Quali differenze ci sono tra le due opere?
Ci sono parecchie differenze. Questo disco non si basa su riferimenti cinematografici, quindi l’ispirazione per i brani viene da momenti di vita vissuta e non da situazioni prese dai film. Poi per la prima volta sono riuscito a coniugare due linguaggi molto lontani tra loro (almeno apparentemente), ovvero l’hardcore con la musica classica. Se prima gli interventi di archi erano solo in contrasto con le parti distorte, adesso sono parte integrante dei pezzi, nel senso che l’orchestra (per quanto simulata) suona insieme al trio chitarra-basso-batteria e questo non era mai successo nella mia musica. Diciamo che sono riuscito a mettere insieme le mie due anime, quella del musicista classico e quella del grinder…

Quali sono state le principali difficoltà affrontate nel tuo percorso artistico e nella creazione di Utopie e Piccole Soddisfazioni?
Le difficoltà sono innumerevoli, come per tutte le cose, credo; soprattutto perché faccio musica, ovvero arte, e quindi (teoricamente) non una cosa fondamentale per la vita di tutti i giorni. Se penso a BOLOGNA VIOLENTA nello specifico, mi viene da dire che la difficoltà più grossa sta nel fatto che il progetto è stato preso sul serio poche volte, quindi agli occhi di molti è sempre sembrato semplicemente “il lato oscuro” del musicista che però per campare fa altro, suona con gruppi affermati (e quindi all’apparenza più seri) e approfitta del tempo libero per far casino e suonare in giro con un progetto che più che altro fa ridere. Finalmente con quest’ultimo disco sembra che la gente abbia cominciato ad accorgersi che le cose non stanno così. Questo è il mio progetto personale in cui metto tutta la mia vita, quindi è per forza serio, anche se il genere è di nicchia e anche se non uso le parole per esprimere i miei sentimenti e le mie emozioni.
Non ho avuto particolari difficoltà nel creare Utopie e piccole soddisfazioni, alla fine suonare è forse la cosa che mi riesce in maniera più semplice, quindi più che altro c’è stata un po’ di ansia per vedere cosa sarebbe uscito alla fine. In genere non registro dei provini, ma quello che finisce nel disco è il frutto del momento in cui mi metto a comporre, anche se ovviamente poi passo un bel po’ di tempo ad “accomodare” il tutto per far sì che rispecchi al 100% il mio gusto personale.

Quali sono le tue principali influenze musicali? E chi pensi sia più vicino, nel mondo della musica (sia in Italia sia all’Estero) a te e al tuo modo di vedere il mondo?
Le mie principali influenze musicali vanno dalla musica classica al grindcore, dall’elettronica minimale alle colonne sonore degli anni sessanta. Davvero faccio fatica a distinguere quali sono i dischi o i generi che mi influenzano di più nel momento in cui mi metto a comporre la mia musica. Non ho neanche un’idea ben precisa su chi sia l’artista o il gruppo più vicino a me in questo momento. Mi piacciono molto i Napalm Death, oltre che per il tipo di musica che fanno, per la loro coerenza e per il loro impegno sociale (per quanto io non sia così impegnato su questo fronte). Per il resto non saprei davvero chi mi sia davvero vicino; magari ideologicamente (passami il termine) sono molto vicino a molti gruppi che però fanno un genere molto diverso dal mio, quindi le similitudini sia con gruppi italiani che esteri sono sempre abbastanza relative.

L’ultimo disco che hai ascoltato? E il tuo preferito?
Ultimo disco ascoltato: Sufferinfuck – In boredom (Grindcore Karaoke, 2011).
Disco preferito (uno dei miei preferiti, difficile dire quale sia IL preferito): Nino Oliviero / Riz Ortolani – Mondo Cane Soundtrack.

L’ultimo libro e film? E i preferiti?
Ultimo libro letto: American Punk Hardcore di Steven Blush, mentre tra i preferiti devo mettere i romanzi di Bret Easton Ellis e i romanzi russi ottocenteschi (Bulgakov, Dostoevskij).
Per quel che riguarda i film, ultimo visto: Laputa – castello nel cielo di Miyazaki. I miei film preferiti sono tanti, potrei citare Milano odia – la polizia non può sparare, Shining, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Mondo cane, ma sicuramente ne sto dimenticando qualcuno di fondamentale.

Che cosa pensi del Peer-to-peer, del controllo di Internet, di Facebook, della chiusura di Megaupload, di tutto questo?
Penso che internet dovrebbe essere controllato per evitare fenomeni schifosi come la pedofilia, ad esempio, ma mi sembra che chi dovrebbe controllare non sia in grado di farlo. Credo che internet sia cresciuto in maniera molto più veloce di chi dovrebbe essere in grado di regolamentarlo e di controllarlo, e per controllo intendo anche solo monitorare quello che succede, senza per forza intervenire con censure o chiusure dei siti. In pratica i vari fenomeni di condivisione dei file, siano essi tramite Megaupload e simili oppure tramite il peer-to-peer, sono diventati una consuetudine prima ancora che chi doveva regolamentare la distribuzione dei diritti d’autore si rendesse conto che questi “fenomeni” non solo erano nati, ma erano diventati ormai la norma per quando qualcuno voleva ascoltare un disco, vedere un film e così via. Ora corrono ai ripari mettendo in galera il proprietario di Megaupload, che ha sì la colpa di non aver rispettato le norme sui diritti d’autore, ma allo stesso tempo non gli viene riconosciuto il fatto di aver segnato un passo storico nel mondo della rete, andando a rendere “normale” la fruizione in streaming di film e video vari, giusto per dirne una. Sinceramente mi sembra una situazione molto ridicola. Di base manca un certo tipo di educazione che porti la gente a capire che i diritti d’autore sono importanti per chi crea qualcosa, d’altra parte penso anche che grazie ad internet e proprio alla diffusione e alla condivisione di file più o meno legali ora siamo molto più privilegiati di un tempo. Il file sharing dovrebbe essere utile, ad esempio, per conoscere un artista prima di spendere magari venti euro per comprare il disco a scatola chiusa senza sapere se ci piacerà o no. Se ho la possibilità di sentirlo prima, tanto meglio! Certo è che in tutto questo le case discografiche, soprattutto i grandi colossi, sono rimasti troppo indietro, non hanno tenuto il passo di chi stava portando avanti questa politica di condivisione massiccia, quindi ora corrono tutti ai ripari nella maniera spesso più stupida.
Penso che i social network abbiano cambiato il mondo, e non poco. A meno che non si utilizzino per niente, chi c’è dentro ha cambiato spesso il proprio modo di vedere il mondo, le distanze si sono accorciate ed il termine “privacy” ha cambiato il suo significato. Penso che per chi fa musica, come me, siano strumenti molto utili e molto comodi perché si riesce ad arrivare nelle case delle persone con molta facilità. Questo, se da un lato ha appiattito il panorama generale, dall’altro sta facendo sì che chi ha qualcosa da dire riesca a dirlo, se ci crede e se ha la voglia e la forza di farlo, ma soprattutto, ovviamente, se piace a qualcuno. Alla faccia delle grandi case discografiche e dei grandi investimenti finanziari per portare il proprio nome in giro per il mondo (anche virtualmente).

Com’è nata l’idea del progetto Bologna Violenta e come nascono le tue canzoni?
L’idea di fare un progetto grindcore era nell’aria da parecchi anni, ma solo nel 2005 si sono create le condizioni (avverse, mi viene da dire) per cui mi sono messo a registrare pezzi da solo. Avevo un lavoro part-time che mi faceva male (all’anima), lo studio di registrazione libero, tante ore a disposizione e tanta energia negativa da sfogare. Quindi mi sono messo a registrare un pezzo al giorno, partendo dalla programmazione della batteria, suonandoci sopra la chitarra e completando il tutto con vari sintetizzatori o theremin, in base all’esigenza del caso. Questo metodo compositivo è quello che prediligo, nonostante siano passati parecchi anni e parecchi dischi da quando ho iniziato. Diciamo che se riesco a creare una batteria “espressiva” e completa, nel senso che mi trasmette già qualcosa da sola, in genere significa che sono sulla buona strada e continuo mettendoci sopra i vari strumenti (tenendo conto che di base la struttura sonora deve essere quella del power-trio, quindi batteria-basso-chitarra).

Oltre che membro dell’one-man-band hai collaborato spesso con nomi importanti della scena indie (e non solo) italiana come Baustelle e Non Voglio che Clara. Con chi ti piacerebbe suonare?
Mi piacerebbe suonare con gli Zen Circus dal vivo, perché mi sembra che riescano ad essere se stessi anche sul palco e riescano a comunicare davvero tanto al pubblico. Inoltre c’è anche da dire che mi piacciono molto anche i loro dischi, quindi chissà, magari un giorno succederà!

Che cosa significa Bologna Violenta? Quali sono le Utopie e le Piccole Soddisfazioni di cui parli?
BOLOGNA VIOLENTA non ha un significato ben preciso. Per me è un omaggio alla città che mi ha ospitato per molti anni, che mi ha insegnato molto e che ha anche dato i natali al progetto. Aggiungendo anche l’aggettivo “violenta” diventa subito chiaro anche il riferimento al cinema poliziottesco che a suo modo ha influenzato la mia crescita e ha ispirato i pezzi del primo disco. Inoltre è un aggettivo che sta bene anche alla musica che faccio, quindi è un po’ come quando i Metallica facevano metal ed avevano un nome che rimandava al genere suonato (non so se sia l’esempio giusto, ma mi sembra che calzi).
Le utopie sono quelle grandi idee che muovono il mondo, ma che alla fine restano lì dove sono in quanto irrealizzabili per definizione stessa del termine: penso alla pace nel mondo, ad una giustizia globale, alla fine della fame, insomma, tutte quelle belle cose che non si avvereranno mai. Le piccole soddisfazioni sono ciò che ci resta dopo aver cercato di raggiungere, appunto, queste utopie; mi sembra che se riuscissimo a concentrarci di più sulle piccole soddisfazioni di ogni giorni potremmo vivere meglio e magari arrivare alla fine del nostro passaggio su questa terra con meno rimpianti. Per me una piccola soddisfazione è l’aver potuto fare un disco come questo, nonostante la crisi del mercato discografico, nonostante il download selvaggio, in pratica autoprodotto ed autopromosso, dimostrando che si può ancora fare, nonostante a volte sembri il contrario.

Credi in Dio?
No. Credo nel fatto che però l’essere umano è spinto per sua natura verso una spiritualità più o meno accentuata, forse per giustificare tutte le cose che ci succedono e non ci piacciono, ma anche quelle troppo belle ed inaspettate. Quindi non sto a giudicare chi crede in dio, è libero di farlo. Solo non sopporto l’uso meschino che si fa della religione, troppo spesso utile a circuire i deboli e a creare odio fra i popoli.

Chi è stata la persona che ti ha reso, in campo musicale, quello che sei oggi?
Non c’è una sola persona che mi ha fatto diventare ciò che sono oggi. Ho sempre cercato di imparare dalla gente che mi girava intorno, musicalmente parlando. Ho imparato dal mio maestro di violino cosa non dovevo diventare (praticamente mi sono sempre sforzato di essere il contrario di lui), da altri maestri ho imparato a stare sul palco, l’importanza di suonare bene, perché la musica è un’arte e come tale va rispettata. Ho imparato dalle persone che hanno suonato con me, sul palco, in studio. Il mio obiettivo è migliorare, sempre; riuscire non ad essere il migliore (ci sarà sempre qualcuno più bravo di me), ma ad essere unico, in quanto portatore di molte esperienze, alcune delle quali ho vissuto sulla mia pelle.

Che cosa ascoltavi da piccolo?
Da piccolo ascoltavo di tutto, un po’ come oggi. A cinque anni ho imparato a far funzionare il giradischi di mio padre e mi mettevo in taverna a casa dei miei (la stessa da cui sto facendo quest’intervista, per capirci) a far finta che fosse una specie di discoteca (o di radio) in cui io ero il dj e proponevo ad un pubblico immaginario gran parte della collezione di dischi di mio padre, che comprendeva un bel po’ di musica classica e anche un po’ di musica italiana, tra cui De Gregori e De André, che mi hanno sempre fatto impazzire, sia per i testi che per le musiche. In genere, comunque, per me c’era poca differenza tra i vari generi, se la musica mi dava qualcosa a livello emotivo, era giusto proporla al mio pubblico virtuale.

Che cosa ami e odi dell’Italia?
Penso che l’Italia sia un posto fantastico per i turisti, ci sono le montagne, il mare, la storia, il cibo.
Non so di preciso cosa odio, ma di sicuro mi dà un po’ fastidio il continuo piangersi addosso degli italiani e la corruzione che c’è praticamente a tutti i livelli.

Che cosa pensi dell’industria e del mondo musicale italiano?
Penso che l’industria musicale sia in un periodo di grandi cambiamenti. Da una parte abbiamo le major che si muovono nei canali più grossi, che investono ancora parecchio su dischi che sperano di vendere, ma non sempre accade. Dall’altra abbiamo una microeconomia che si muove tra l’autoproduzione e l’autopromozione, quindi investimenti piccoli e copie stampate in numero basso in modo da non rischiare. Tutto ciò significa che il panorama musicale è vivo e vegeto, che ci sono molte persone che lavorano nell’ambito e quindi che c’è del fermento, ci sono ancora idee. Poi, sai, i gusti son gusti, quindi non sto a valutare il valore “artistico” di ciò che esce…

A chi pensi possa o debba piacere la tua musica?
Penso che la mia musica possa piacere a chiunque, praticamente, a patto che abbia voglia di sentire qualcosa del genere e non fermarsi a giudicare in base a schemi “normali”, nel senso che nel mio disco non ci sono molti pezzi facili o con strutture classiche da musica leggera. Se qualcuno ha voglia di sentire qualcosa di veramente forte, secondo me ha trovato pane per i suoi denti.

Che cosa pensi di te? Credi di essere veramente bravo (io dico si) e di meritare il successo che hai o avrai in futuro? Hai qualche rimpianto?
Penso fondamentalmente di essere un musicista normale con parecchi difetti, un po’ come tutti, insomma. Penso che il successo che sta avendo il progetto sia anche dovuto al fatto che la gente sente che sto facendo una cosa completamente mia, quindi con una certa personalità. Non voglio diventare una rockstar famosa, mi interessa suonare il più possibile la mia musica per farla arrivare ovunque e penso che tutti gli anni di dedizione e sacrificio ora mi stiano ripagando, dandomi modo di suonare molto e di fare dischi a mio nome.

Come ti vedi tra dieci anni?
Mi vedo con la barba ed i capelli più grigi di ora. Non ho un’idea ben precisa di quello che succederà, so che non ho nessuna intenzione di fermarmi. Mi piacerebbe “da grande” potermi dedicare di più alla produzione di musica mia e di altri.

Credi si possa vivere di sola musica?
Io ci riesco, ma bisogna tenere in considerazione che non è tanto “vivere”, quanto “sopravvivere”. Dalla mia vita ho tagliato tutto il superfluo, in modo da non avere in testa e attorno cose inutili che mi portano via tempo e soprattutto denaro da reinvestire per stampare dischi, fare il merchandising e tutto ciò che riguarda il progetto stesso. Questo è il mio caso, ci sono anche turnisti che vivono di musica, tra l’altro anch’io collaboro con parecchi gruppi che mi coinvolgono nelle loro registrazioni, quindi dei minimi introiti li ho anche da “terze parti”.

Quale sarà il passo successivo a Utopie e le Piccole Soddisfazioni?
Non lo so ancora. Ho un sacco di idee, devo capire da che parte andare e provare. Molti gruppi mi hanno chiesto di fare degli split, ma devo capire come sono messo col tour, che al momento è la mia priorità, quindi non so quanto tempo avrò a disposizione per registrare pezzi nuovi.

Senza la musica, cosa saresti e cosa faresti?
Non ne ho la più pallida idea. La mia vita è sempre stata gestita in funzione della musica, quindi se penso di togliere questa fetta di vissuto, non saprei cosa resterebbe. Nella prossima vita vorrei saper volare, magari sarò un pilota acrobatico, magari semplicemente un insignificante uccellino.

Come vorresti essere ricordato?
Vorrei essere ricordato per aver dato una spinta avanti nella ricerca musicale, senza per forza stravolgerla, ma anche solo per aver messo il mio piccolo tassello nel progresso di questa arte.

Cos’è per te la vera violenza?
E’ l’imposizione di se stessi sul prossimo, senza badare alla libertà altrui. Questo a tutti i livelli, da quello fisico a quello mentale. E’ una cosa che mi dà molto fastidio e di cui soffro parecchio.

Hai mai pianto? Quando?
Piango spesso, penso che l’ultima volta sia stata alla fine di un concerto di BV, quindi sul palco, in pubblico. A volte mi lascio andare, penso che sia davvero importante per un musicista sapersi lasciare andare, senza per forza scadere nel ridicolo (mi viene in mente GG Allin, ma lui non era ridicolo, faceva paura…).

Cosa ti fa ridere?
Mi fanno ridere un sacco di cose, mi piace osservare attentamente tutto ciò che mi circonda per poterne vedere sempre il lato più ridicolo, che a ben guardare c’è sempre. Ad esempio quelle frasi dette a mezza voce a fine discorso, che non vogliono dire niente, ma sono solo una coda delle frasi precedenti, quasi un balbettìo, ecco, quelle mi fanno scompisciare.

Guardi la tv? Cosa soprattutto?
Guardo la tv solo quando non sono in tour, a casa non ho la televisione. Guardo molte televendite, anche se in generale faccio zapping compulsivo e vedo quante volte riesco a fare il giro dei canali.

Segui lo sport e hai mai fatto sport?
Non seguo lo sport, ma da piccolo ho fatto tre anni di rugby (fino ai dodici anni, poi sai, dovevo suonare il violino, quindi avevo paura di farmi male alle mani…).

Ascolti molta musica? Che cosa ascolti?
Direi che ascolto molta musica. Non so quale sia la media nazionale, ma devo dire che non passo molte ore in silenzio. Ascolto un po’ di tutto, dai demo che mi passano i gruppi via email ai vinili che ho a casa, senza troppe distinzioni di genere, ma semplicemente cercando di assecondare l’umore o la curiosità del momento.

Hai un idolo, fuori dal mondo musicale?
No. Non ho un idolo neanche nel mondo musicale, se è per questo…

Il tuo sogno?
Spero sempre di non svegliarmi e rendermi conto che era tutto un sogno.
Però al momento vorrei sentire i miei pezzi suonati da una band vera, con tanto di orchestra e coro.

La tua paura più grande?
Ho paura che tutto possa cambiare da un momento all’altro e dover ripartire. Di nuovo. E’ successo già un sacco di volte che mi trovassi a pensare: ok, anche questa cosa è finita, adesso riparto, vediamo che succede. Vorrei un po’ di tranquillità.

Come passi la tua giornata tipo?
Mi alzo tardi, preparo la colazione per me e Nunzia, guardiamo le notizie in internet, giusto per non perdere il contatto col mondo, poi scendiamo in studio, giro di email e poi mi metto a lavorare (il che può essere rispondere alle interviste, come in questo caso, oppure provare i pezzi, registrare, insomma, solite cose) finché non si pranza tardi (e questo a volte non succede), poi uguale fino alla cena (tardi) e quindi letto (magari con un film, giusto per perdere il contatto con la realtà). Direi che questo è quanto… ah, due o tre volte la settimana in tarda mattinata vado in posta a spedire dischi.

Cos’è l’arte e cos’è la musica?
L’arte dovrebbe essere quella cosa che nutre la nostra anima e ci fa crescere spiritualmente. La musica è una delle arti, ma mi rendo conto che spesso questo concetto non arriva alla gente. Del resto a volte non arriva neppure a chi la musica la fa, quindi penso non si possa pretendere un granché dalla gente che non ci capisce. Per quel che mi riguarda, cerco di trattarla sempre come un’arte, quindi con la massima dedizione ed il massimo rispetto.

Ho letto alcune critiche sulla scelta di una cover dei C.C.C.P. Io l’ho trovata bellissima. Come mai la scelta di fare una cover, quella cover?
A dire la verità non ho letto delle critiche a riguardo, ma mi piacerebbe capire cosa ha infastidito chi l’ha sentita. La storia di questo pezzo, tra l’altro è molto semplice, perché mi è stata chiesta per una compilation di tributo ai CCCP, appunto, e la scelta è caduta immediatamente su Valium Tavor Serenase perché mi è sempre sembrato uno dei loro pezzi più hardcore, sia negli intenti che nella tematica trattata. Quando il disco era quasi pronto ho deciso di inserirla in scaletta, secondo me dà una bella ventata d’aria in quel punto del disco.

Come sono nate le collaborazioni con Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids e con J.Randall degli Agoraphobic Nosebleed?
Quando mi hanno chiesto la cover, appunto, ho subito pensato che Aimone fosse la persona giusta per cantarla, quindi, visto che già ci conosciamo da un po’, gli ho proposto la cosa e lui è stato ben felice di contribuire.
Con J. Randall le cose sono andate diversamente, nel senso che sono stato contattato da lui direttamente un annetto fa perché gli interessavano i miei primi due lavori, che sono poi usciti anche per la sua etichetta Grindcore Karaoke. Mi aveva anche chiesto di poter registrare qualcosa per questo nuovo album ed ho pensato di mandargli il pezzo che forse era più in linea con la produzione degli Agoraphobic Nosebleed e gliel’ho fatto cantare. Ovviamente le cose non sono state esattamente così semplici, ma alla fine ce l’abbiamo fatta!

Che cosa rende diversa la tua musica da quella dei primi gruppi Grindcore o comunque da chiunque altro? Come definiresti la tua musica?
Innanzitutto la mia è musica in prevalenza strumentale, quindi la prima differenza direi che è questa. Inoltre uso molta elettronica, cosa che ovviamente non avveniva con i primi Napalm Death, giusto per citare i più rappresentativi. Poi ci sono gli archi, con l’uso che ne faccio credo diano un tipo di sonorità abbastanza particolare e personale alla mia musica.
Non so mai come definire la mia musica, dipende da chi me lo chiede. Quando trovo gente che non se ne intende, in genere dico “Avanguardia” o “Sperimentazione” (sì, proprio con le virgolette e la maiuscola), ma più che altro per darmi un tono e vedere le faccia che fa. Quando poi mi guarda con una faccia strana perché non ha capito dico: “faccio casino” e si rasserena.

Ti piace suonare dal vivo? Quali sono le differenze per un polistrumentista come te tra suonare dal vivo piuttosto che in studio e cosa deve aspettarsi chi viene a vederti dopo aver ascoltato l’album?
Mi piace moltissimo suonare dal vivo, penso sia ancora la parte che preferisco. Ma mi piace suonare in generale, quindi anche in studio ci sto volentieri. In generale quando registro penso di star facendo qualcosa di importante per me, ma spesso anche per gli altri, da chi fa la musica a chi alla fine la ascolterà, quindi lo faccio col massimo impegno e la massima energia, pensando però sempre che l’esecuzione dev’essere vicina alla perfezione. Dal vivo è diverso, perché è un momento che dev’essere irripetibile ogni volta, anche se le canzoni sono sempre le stesse. Alla fine sto intrattenendo a mio modo il pubblico e voglio che ogni sera sia speciale, che chi mi ascolta (soprattutto dopo aver ascoltato il disco) riconosca perfettamente le canzoni, ma che colga quell’elemento in più che è dato dall’energia del momento e che le imperfezioni diventino parte integrante dell’esibizione dal vivo. Con questo non voglio dire che mi sta bene suonare male, dico che a volte ci sono quei piccoli dettagli che rendono il tutto veramente vivo e speciale.

Tra le tante band con cui hai lavorato, di chi hai il ricordo più bello e più brutto e perché?
Ho così tanti ricordi belli che non saprei quale ricordare come “il più bello”, in più devo dire che anche le esperienze più brutte mi hanno fatto diventare quello che sono, quindi al di là di qualche episodio un po’ amaro, devo dire di essere stato molto fortunato, da questo punto di vista. Di sicuro i momenti più belli li ho passati in tour, quindi con Alessandro Grazian, i Baustelle, Il Teatro Degli Orrori, i Non Voglio Che Clara, giusto per citare quelli con cui ho suonato di più.

Ti senti la stessa persona di qualche mese fa, ora che il disco è uscito? E’ stata una liberazione oppure una sorta di esame di maturità? Cosa ti aspetti dall’album?
No, mi sento diverso, e anche parecchio, se devo essere sincero. Mentre il disco nasceva ero letteralmente un fascio di nervi, ho dormito davvero poco per cinque mesi perché sentivo la responsabilità di star facendo qualcosa che mi doveva soddisfare al 100% e soprattutto perché in base al risultato dipendeva anche il mio futuro (e non solo il mio). E’ stata proprio una liberazione, anche perché questo disco ha cambiato anche il mio modo di comporre e di vivere questo progetto.
Mi aspetto che questo disco venga recepito per quello che è, mezz’ora scarsa di musica con dei messaggi più o meno subliminali. In generale, poi, tendo a non aspettarmi niente, nel senso che vado avanti per obiettivi a breve scadenza e vedo quello che arriva.

C’è un filo che lega sia musicalmente sia culturalmente i tuoi lavori con gli anni ottanta e novanta?
Ovviamente la risposta è sì. Sono cresciuto proprio in quegli anni, quindi ovviamente la mia musica è anche una conseguenza della cultura musicale che mi ha circondato. Ho iniziato nel ’94 con la mia prima band, quindi facevo musica in linea con quello che andava in quel periodo, quindi non posso non dire che quello che faccia ora non sia legato a quegli anni. Direi, forse, che BOLOGNA VIOLENTA è una specie di spremuta culturale di quel ventennio, anche se ci metto degli ingredienti che arrivano da altri periodi storici.

Questo Utopie e le Piccole Soddisfazioni pensi abbia uno scopo oltre la semplice proposta musicale alternativa?
Dovrebbe avere lo scopo di far passare mezz’ora della vita di qualcuno in maniera diversa. Una specie di viaggio in cui lasciarsi andare a sensazioni, immagini e tutto quello che passa per la testa.
Con questo disco ho cercato di non avere scopi di altro tipo, non mi interessa, ho puntato proprio sulla musica stessa senza troppe contaminazioni esterne che ne fanno perdere la spontaneità.

Ultima cosa, La scelta della famosa prigione (il Panopticon) in copertina è una tua idea? Cosa vuole rappresentare?
A dire la verità, in copertina è raffigurato un emiciclo e, ad essere preciso, proprio l’aula del parlamento italiano. L’idea è mia e l’ho sviluppata con Nunzia Tamburrano, la mia compagna e collaboratrice, che l’ha per così dire “sistemata” dal punto di vista grafico, togliendo ad esempio tutti i banchi ed i posti a sedere, come a dare l’idea di un parlamento pulito. Ma non è solo questa la chiave di lettura, perché in mezzo si può scorgere il profilo di San Pietro a Roma, quindi un po’ il dualismo tutto italiano “Stato/Chiesa”. Inoltre, come noti tu, alla fine l’idea che esce è quella che sia un panopticon, ma in realtà non lo è. Quindi Stato/Chiesa/Carcere. In generale, è una figura che mi piace molto, perché rappresenta anche gli anfiteatri greci, oppure la struttura di un teatro, quindi in linea con la musica all’interno del cd. Mi sembra che sia un’immagine che fa riflettere, quindi direi che è perfetta per questo disco.

Dimmi quello che vuoi dirmi e non ti ho chiesto:
Cos’è il Bervismo?

Il Bervismo è un nuovo modo di vedere la vita, in positivo ed in negativo, ma più in positivo. Una specie di trionfo della ragione su superstizioni, dogmi, falsa politica.

NESSUNA POLITICA
NESSUNA RELIGIONE
BERVISMO PER PIU’

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Edda – Odio i vivi

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Stefano Edda Rampoldi, al mondo Edda,  non scrive solo canzoni, ma da un senso da brivido a quello che dice nelle convulsioni della sua sofferenza dentro, al centro di quella sua poesia malata che si sbatte e rotola come in un catino rovente pieno di ferite e momenti di felicità al pus, ed è da quel senso da brivido e di gran rinascita  che la musica alternativa italiana prende uno scossone tremendo da parte di quest’artista stupendo, forte e fragile riesploso al mondo con Semper Biot – dopo i fasti e le cadute con i Ritmo Tribale –  e qui nella riconferma assoluta del nuovo album “Odio i vivi”, secondo personale incunabolo “off” che va ad emozionare ulteriormente lo spirito di un ascolto oltre il privilegio.
Disco da ascoltare varie volte prima di entrare nel suo io, è un percorso tortuoso e salvifico che Edda – con Walter Somà con cui ne divide i testi – intraprende attraverso una canzone d’autore che pizzica il rock, una certa “avanguardia” sperimentale e un’anarchia metrica, di convenzioni e scrittura, dieci tracce trasversali che della libertà espressiva ne fanno baluardo di sincerità totale; una sonorizzazione che, oltre alla strumentazione di prassi, prevede autoharp, ottoni, marimba, sega musicale e lamiere ferruginose, contrasti e melodie che si fanno copiose come l’umorale che l’artista cambia di continuo, come un temporale prima o dopo di una giornata ossessa.

Non ci sono direttrici da seguire od inseguire come i dischi “classici” pretendono, qui si viaggia beatamente a vista, tra ondate poetiche d’inimmaginabile bellezza come la stupenda “Topazio” sangue interiore che vomita fuori pensieri fuori geometria, il subliminale resoconto di un delirio vivo “Marika”, la ballata per una mancanza d’amore vero “Gionata”, tracce queste scritte insieme a Gionata Mirai de Il Teatro degli Orrori, il rumorismo lavico che esce da “Omino nero”, la sinfonia vibrante in crescendo “Il seno” e quel diadema storto appeso in finale che risponde al nome di “Tania”, un blues da piangere con il quale il grande Edda ci offre un affresco da pelle d’oca di quello che questo musicista interprete può far germogliare dal suo spirito, in alto, sempre più in alto fra trombe, ottoni, ottavini squillanti e lo spazio illimitato di quel cielo che si apre davanti come un sipario accogliente.
Prodotto da Takedo Gohara, arrangiato da Stefano Nanni, magnificato da Stefano Edda Rampoldi.    

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LINEA 77 il docufilm del tour di “dieci”

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la band torinese annuncia l’inizio dei lavori per la produzione di un nuovo album e pubblica un’emozionante docufilm che racconta la vita di due anni passati on the road.
Questo è il messaggio postato dalla band sul sito linea77.com
“Si ripete ad ogni disco, con la sacrale e salvifica monotonia del rito. Quasi fosse un trasloco, si ripone il cd nella propria custodia, il file nel disco rigido che si merita. Più del silenzio, può la polvere. Il tour di “10″ è iniziato i primi di aprile del 2010, poi, come una macchina che percorre tutta la strada che il serbatoio le srotola davanti, ha smesso di tossire nel novembre del 2011. E mentre sei alla pompa di benzina in attesa di fare un altro pieno, di scrivere un nuovo disco, come un cane che annusa i suoi escrementi ripensi al tragitto e ti chiedi: perché sono qui se non ricordo dove andare?”

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SERAZZI & The Detectives: MY SHARONA è il singolo estratto da “SKIN”

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SKIN è la rilettura in modo inedito di alcune pietre miliari del rock; tra eclettismo e divertimento, arrangiamenti raffinati e sonorità talvolta vicine al jazz, spicca la grande bravura e sensibilità dei musicisti che spaziano sfacciatamente attraverso i generi musicali. Nel disco anche un inedico con Carmel.

My Sharona: c’è qualcosa di sensuale e malinconico in quel “my,my,my,my…Sharona”: così un giorno Paolo Serazzi ha provato a smontare la canzone dal ritmo pulsante imperniato sul celeberrimo e meraviglioso riff, per adagiarla sulla saudade – sensuale e malinconica, appunto – di una bossa nova. Affiancano i Detectives i meravigliosi musicisti brasiliani Roberto Taufic alla chitarra e Gilson Silveira alle percussioni.

My Sharona è una canzone del 1979 del gruppo rock The Knack, estratto come loro singolo di esordio dall’album Get the Knack. Il singolo raggiunse la posizione numero uno della Billboard Hot 100 e vi rimase per cinque settimane. In Italia fu un vero tormentone estivo. Il celebre riff di My Sharona, a tutt’oggi uno dei più celebri e riconoscibili del rock, fu scritto dal chitarrista del gruppo, Berton Averre, molto tempo prima che egli si unisse ai Knack. Secondo quanto dichiarato dal trascinatore del gruppo Doug Fieger, esisteva davvero una ragazza chiamata Sharona di cui era innamorato. Ogni volta che Fieger pensava a Sharona, gli veniva in mente il riff di Averre. I due musicisti lavorarono insieme sulla struttura e sulla melodia del brano, proprio partendo dal quell’accostamento di idee. La donna del brano è Sharona Alperin, un’agente immobiliare che attualmente vive a Los Angeles.

Nel suo nuovo album SKIN, SERAZZI rilegge in modo inedito alcune pietre miliari del rock, spaziando sfacciatamente attraverso i generi musicali. Dai Doors ai Police, da Jimi Hendrix a Elvis, fino alla intrigante “Puttin’ on the Ritz” di Irving Berlin e ad una sognante versione bossa nova di “My Sharona”! Con i suoi granitici Detectives, SERAZZI gioca con gli arrangiamenti fino a trasfigurare le canzoni, sempre ispirato da una sottile ironia che pervade tutto l’album.

Delle dieci tracce registrate, una è inedita e di sua composizione: è “I’ll smile again Tomorrow”, una ballad molto intima cantata in duetto con Carmel (l’indimenticabile voce di “More more more” e “Sally”). Nel CD, inoltre, Carmel interpreta anche un’originale versione di “I shall be released” di Bob Dylan.

SKIN: la pelle, il contatto. E’ attraverso la pelle che abbiamo la percezione degli altri e delle cose. Ma un contatto inaspettato che ci sorprende, ci obbliga a considerare le cose (anche) da un altro punto di vista.

Serazzi: voce, pianoforte, organo Hammond, chitarra, fisarmonica, Max Carletti: chitarre

Paolo Franciscone: batteria, Danilo Pala: sax contralto, Stefano Risso: contrabbasso, cori

PAOLO SERAZZI è anche impegnato nel progetto LA CUCINA, con un disco in uscita.

Musica italiana dalle influenze più svariate ricca di sorprese, citazioni, colori. Ora ricche ed esuberanti, ora intime e carezzevoli, le canzoni di Serazzi ospitano storie di musicisti e di dormiglioni, di amici lontani, capitani, case inquietanti, palazzi e dinamite, dalle quali traspare molta ironia e un’atmosfera fondamentalmente positiva.

La Cucina soffrigge musica con un sound particolarissimo in cui spiccano la scintillante sezione fiati, il contrabbasso le percussioni e la batteria vocale (beat-box).

Paolo SERAZZI(voce, pianoforte, chitarra, fisarmonica) è un eclettico musicista, cantante e grande intrattenitore. Ha suonato su grandi palchi rock con Carmel, Africa Unite, Party Kidz, Jeremy’s Joke ed è a suo agio anche nell’atmosfera raccolta dei piccoli club, da solo o in gruppo. Ha suonato in numerosi spettacoli teatrali e compone canzoni e colonne sonore per la televisione (Rai2, Rai3), il teatro e il cinema (con i Bluebeaters ha composto e suonato le musiche di “Ravanello pallido” di Luciana Littizzetto), è un buon interprete di musica classica. La sua creatività spazia anche in altri campi artistici: è architetto e designer di lampade, mobili, gioielli, giocattoli. Come produttore ha composto, arrangiato e prodotto tutte le canzoni dell’album FINALLY (Prestige-Elite, London, 2006) della cantante inglese Patricia Lowe. Interamente dedicato alle canzoni di Paolo Conte è il suo spettacolo Mocambo: un garbato omaggio al musicista che che più di ogni altro ha influenzato la formazione musicale di SERAZZI

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Maria Antonietta – Maria Antonietta

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Avere vent’anni e sentirsi liberi di fare tutto quello che si vuole, le cose poi senza logica cambiano inevitabilmente in peggio. Io quando avevo vent’anni ero uno stronzo. Il disco di Maria Antonietta esce proprio quando il bisogno di rivoluzione interiore inizia a bussare pesantemente alle porte di un’insoddisfazione ormai dilagante. Certo, Maria Antonietta arriva portando nelle corde vocali un timbro fresco che spezza la tradizione delle angeliche voci italiane, una ragazza ribelle della quale innamorarsi in maniera perversa, un diavolo tentatore in tutina fetish. Il diavolo è donna.

E vede bene in questo progetto Dario Brunori in veste di produttore tutto fare, strappa questa ragazza dalla scena new wave/post punk (Young Wrists), gli impone la lingua italiana creando una donna bionica dell’indie rock. E diciamo pure con risultati nettamente positivi, ne sentirete parlare fino allo sfinimento, tanto nel bene quanto nel male. Maria Antonietta debutta con un disco libero di farsi apprezzare marcando le voglie sessuali di ventenni arrapati in cerca di sfogo, chitarre acustiche e scopate al centro del mondo (perchè sono le donne a volerci portare a letto, Quanto eri bello). La voce poi ti entra dentro come una lama affilatissima, il dolore risulta piacere innescando un circolo viziosamente pericoloso. Ci siamo ormai dentro fino al collo. Una cantante capace di raccontare storie blasfeme con la naturalezza di una diva maledettamente importante (Maria Maddalena e Santa Caterina), l’esordio solista di una cantante fuori dall’ordinario. I pezzi giocano sulla semplicità d’esecuzione, strutturalmente poveri ma con la capacità di fissarsi rapidamente nella testa, l’espressione diretta del semplice, bello e subito senza troppa filosofia. Un esordio discografico significativo per Maria Antonietta, la ragazza più cattiva della musica indipendente.

 

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Nympea Mate – Endio

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Ma avete mai osservato il vizio di paragonare alcuni luoghi, paesaggi, città ad altri luoghi, paesaggi, città più o meno vicini nello spazio-tempo? Questo vizio in genere mi fa incazzare. Mi fa incazzare perché il posto in questione perde di identità e anche di dignità.
Anche nella mia città, Rivoli, ma ancora di più nella vicina Torino, mi è capitato più volte di ascoltare deliranti discorsi di mediocri turisti (io sono un pessimo turista perchè non ho visitato quasi niente, ma per fare il turista non basta aver fatto tanti viaggi) che si sforzano a giocare a Memory con le celle della loro memoria, arruffando paragoni azzardati tra Torino e città europee più o meno vicine a noi.

In questo gioco a volte la città viene esageratamente sopravvalutata, perdendo così il meraviglioso contrasto delle sue radici nobili e industriali, oppure viene sminuita a cittadella di montanari operosi che è diventata così cool grazie a locali radical chic vicino al fiume e alle Olimpiadi.
Lo stesso identico discorso vale per la musica sfornata dal capoluogo piemontese e delle sue zone limitrofe. Spesso surclassato dalla immeritata prepotenza milanese, l’underground rumoroso sabaudo incassa colpi duri e rimane in cantina. Per poi non parlare di chi azzarda ad afferrare il bollente testimone dei mostri sacri oltre oceano o oltre Manica. Qui Torino diventa la Berlino priva di fremente luce artistica, le mummie del museo egizio diventano l’ombra della Stele di Rosetta e la Fiat una piccola costola della General Motors. E tutti i gruppi che senti nei sudici club allagati dalle piene del Po diventano schifosi tributi maldestri a Velvet Underground e New Order, se non peggio a Nada Surf e Radiohead.

Questo è quello che capita a una band chiamata Nymphea Mate, composta da quattro ragazzi ben piantati in terra sabauda e innaffiati con pioggia londinese. Tanto british da essere catalogati spesso come gruppo “brit-pop”, termine che mi da i nervi proprio come molte altre stupide catalogazioni: “indie”, “alternative” o “power-pop”.
I ragazzi suonano inglesi, è verissimo, ma non rinunciando ad interessanti variazioni sul tema come i chitarroni pesanti di “Billy Vanilla” e “Song for The Leader” che sembrano più di Josh Homme che di Noel Gallagher o le melodie della opener “Sir Constance” che sembra il nuovo singolo dei Band of Horses in rotazione su Virgin Radio. Insomma una buona porzione di U.S.A. se la ritagliano, e pure negli episodi migliori del disco.

I suoni e gli arrangiamenti vantano un grande equilibrio nel limbo tra i due universi pop e rock, le due realtà firmano un momentaneo armistizio e vivono in pace e armonia in ogni brano di “Endio”. Tra chitarroni rock’n’roll che ammiccano allo stoner, melodie ammiccanti e un tappeto sottostante (semplice ma efficiente) che guida la banda, le due parti ostili si abbracciano, si toccano e a volte si lasciano andare in una folle danza come nello scoppiettante finale di “Waiting for The Bang”.
Tutto sembra cotto a puntino, salato il giusto, ma manca di spezie. Mancano allo stesso tempo quel pizzico di personalità e quella spolverata ruffiana che farebbero entrare dritto dritto un loro brano nella top 10 di NME.
Insomma il disco scorre, ma proprio come la fastidiosa pioggerellina londinese ti lascia un po’ bagnato e non entra nelle ossa. Anzi con un buon impermeabile non arriva neanche alla pelle.

 

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Giovanni Lindo Ferretti: il tour 2012!!

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“A Cuor Contento” è il tour che porterà Giovanni Lindo Ferretti a calpestare i palchi dei migliori club italiani. Ecco tutte le date confermate ad oggi.

22 Marzo @ Napoli – Casa della Musica

23 Marzo @ Pescara – Zu Bar

24 Marzo @ Roma – Orion

29 Marzo @ Torino – Hiroshima Mon Amour

30 Marzo @ Bologna – Estragon

31 Marzo @ Prato – Teatro Politeama

13 Aprile @ Trezzo sull’Adda – Live Club

05 Maggio @ Colle Val D’Elsa (SI) – Sonar

11 Maggio @ Lecce – Officine Cantelmo

12 Maggio @ Bari – Teatro Kismet Opera

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